LA NOTTE DI SANT’ANTONIO

– Brano tratto dal romanzo Tocaia Grande



Jorge Amado

 




“Alcune voci in dizionari ed enciclopedie,
certe notizie bibliografiche mi fanno nascere
a Pirangi. In realtà è avvenuto il contrario:
ho visto Pirangi nascere e crescere. Quando
ci son passato per la prima volta, aggrappato
al pomello della sella di mio padre, non c'era-
no che tre case isolate. La stazione ferroviaria
era lontana, a Sequeiro de Espino”.
(J.A., O Menino Grapiuna)


(…) Il balletto, inventato da Pedro Zingaro per allietare la sera di Sant'Antonio, terminò a botte, spari e sangue. Devesi tuttavia considerare non esserci stata intenzione meschina, vile interesse di denaro nella seducente proposta dei quattro salti. Se la festicciola avesse reso qualche centesimo, tanto di guadagnato. Non era a quello che aveva pensato, comunque, nell'impugnare la fisarmonica; suo solo desiderio era stato celebrare degnamente un santo dai grandi meriti. L'aveva fatto presente e l'aveva spuntata, ma non possiamo fargli una colpa di ciò che finì per succedere. E del resto nessuno lo fece.

In realtà, nell'approdare alla frazione, in quel giorno piovoso e freddoloso, non aveva pensato di restare più di una notte, trascorsa, se possibile, nel giaciglio accogliente di qualche battona che gli scaldasse la carcassa. Sua destinazione era Taquaras, a meno che non si trattasse di Ferradas, Agua Preta, Rio do Braco oppure Itabuna, neppur lui lo sapeva con certezza. Suo scopo era andare a divertirsi alle feste di giugno, in qualche posto dove si potesse festeggiare alla grande e gratis, mangiando, bevendo e ballando a volontà. Ma notando i preparativi che si facevano a Tocaia Grande s'era entusiasmato.

Già i preparativi di per sé erano stati una festa. Avevano occupato per ben più di una settimana tutto il tempo libero della ridotta popolazione, che pareva moltiplicarsi nel condurre a termine tante e tanto diverse imprese. Di ritorno alle aziende, i butteri si fornirono di sacche e basti per portare ciò che non potevano trovare nel buco fortificato di Fadul: le pannocchie di granturco verde, il cocco secco, i petardi e i fuochi d'artificio, bombette, castagnole, razzi col fischio, ivi comprese le stelline e altri capricci infantili delle ragazze. Per non parlare del pallone volante, poiché il pallone era un segreto cui partecipavano solo Tizzone e Coroca, nessun altro conosceva la sua esistenza.

Vedendo Bastião da Rosa, Lupiscínio, Zé Luis, Guido, Balbino, affaccendati nel trasformare in una spaziosa baracca coperta di paglia – rustica struttura di pali, tavole e forcelle ben piantata a terra, col pavimento di terra battuta, liscio e solido – la tettoia di paglia costruita in tempi andati dai primi che erano venuti a pernottare lì, Pedro Zingaro aveva lasciato perdere l'idea di proseguire il viaggio. E l'aveva fatto al momento giusto, visto che Fadul aveva appena ricevuto un'ambasciata di Lulu Fisarmonica che si diceva spiacente di non poter accettare l'invito a venire a suonare a Tocaia Grande per la festa di San Giovanni: famoso nella regione, contesissimo.

Pronto ad aiutare, ma poco disposto a fare sforzi, Pedro Zingaro orientò e diresse. Instancabile nel correre da una parte all'altra, si affaticò a dar consigli e opinioni, a trasmettere ordini a uomini e donne.

Le donne facevano di tutto un po', non rifiutavano alcun lavoro. Aiutavano a costruire la baracca, portavano la legna che gli uomini tagliavano nel bosco per i fuochi, mettevano insieme fascine di rametti, improvvisavano con dei sassi i fornelli su cui cuocevano la canjica e gli altri manicaretti tipici di giugno. Con l'aiuto di Epifania, l'industriosa Cotinha preparava i frutti di jenipapo sbucciandoli, togliendone i semi amari, spremendoli per poi trasformarne il succo in liquore. Curava il suo lavoro ricordando il sapore – squisito! – del vino della messa e le virtù – ahi tante! – di frate Nuno, lusitano e galante. Con il suo buffo accento il frate le diceva: vien qua bella scopetta. Lei obbediva, lui scopava. Pedro Zingaro s'era offerto come assaggiatore una volta che il succo fosse stato sul fuoco: avrebbe stabilito il punto giusto di quel nettare. Aveva gusto raffinato, era degustatore esimio di cibi e bevande, buono per i concertini, un jolly senza rivali in quei paraggi.

Avevano in progetto un falò monumentale, sul piazzale di fronte alla baracca; due anzi, uno per notte. Ma siccome era rimasta molta legna decisero di accettare la proposta di Merencia, appoggiata da Tizzone, di distribuire i resti dei tronchetti a chi desiderasse fare dei falò più piccoli di fronte alla propria casupola per arrostire patate dolci e granturco. Chi l'avesse desiderato poteva portarsi a casa un po' di canjica, una bottiglia di liquore di jenipapo da servire ai vicini prima che si riunissero tutti per dare inizio alla festa, l'allegra festa di San Giovanni: per mangiare pamonha, canjica e manue, bere liquore, saltare i falò insieme con gli amici, ballare la quadriglia.

Durante quei giorni l'emporio di Fadul conobbe un movimento insolito, il turco fece affari ma, in cambio, concorse ai festeggiamenti con cibi e bevande e con molto rimpianto denaro contante. Tizzone aveva aumentato il numero delle trappole disseminate nel bosco per garantire selvaggina sufficiente, oltre a fornire qualche moneta per il granturco, il cocco e i petardi.

Per ragioni ampliamente note, non si può dimenticare l'aiuto offerto dal capitano Natario da Fonseca, lamentando di non poter partecipare personalmente alla festa, il Capitano allentò i cordoni della borsa: contribuì a nome proprio e a nome di Bernarda e Coroca. Non per questo le due ragazze – e quasi tutte le altre – omisero di collaborare con qualche moneta guadagnata con il sudore della topa, monete messe via per momenti di penuria, e offerte con soddisfazione.

Il granturco e il cocco, lo zucchero e il sale erano stati distribuiti fra le donne; i frutti di jenipapo, erano ammucchiati in abbondanza sotto gli alberi. Ognuno s'incaricava di un lavoro o di un altro, in genere di più di un lavoro. Per eseguirli si riunivano a gruppi animati: chiacchieravano, scherzavano, discutevano, protestavano, ridevano, buttavano giù un sorso di cachaca per ammazzare la malinconia – la brutta malinconia dell'inverno: la pioggia fastidiosa, il freddo tagliente -; non erano fatti di ferro.

Non c'era obbligo né orario di lavoro. Né fattore né capataz, nessun padrone. Se Fadul e Tizzone orientavano e dirigevano, lo facevano discretamente, senza farlo vedere e anche loro ci davano dentro. Nessuno dava ordini a nessuno. Così si svolgevano le cose fin da quando, durante il pranzo domenicale, Castor aveva fatto la proposta di festeggiare San Giovanni.

Trovando vuoto il posto di comando, Pedro Zingaro l'aveva occupato, e i suoi accoliti ebbero il loro daffare con l'ampliamento della festa; mostrando una deficienza qui, correggendo un'ingiustizia là. Festeggiare San Giovanni, idea felice. Ma perché discriminare gli altri santi di giugno, se tutti e tre si equivalevano nella devozione dei fedeli e nei miracoli? Perché non festeggiare per primo Sant'Antonio, santo da matrimoni, patrono delle sposine e terminare con la festa di San Pietro, patrono delle vedove? Il fatto che ancora non esistesse a Tocaia Grande pulzella alcuna candidata al matrimonio né vedova lacrimosa non significava nulla: un giorno, per grazia di Dio, ce ne sarebbero state in abbondanza, delle une e delle altre, a movimentare le loro feste. Lui Pedro Zingaro, si metteva ai loro ordini con la sua fisarmonica per movimentare gratis una festicciola da ballo la notte di Sant'Antonio. Avrebbero acceso un piccolo falò, avrebbero gustato una fetta di budino di canjica, un sorso di liquore di jenipapo, avrebbero ballato un coco saltellato, la polca e la mazurka, come per un saggio, una prova generale della grande notte, quella della vigilia di San Giovanni. Per quella serata avrebbero tenuto i fuochi d'artificio e la quadriglia.

Non fu difficile convincere la gente. In quella remota plaga solitaria e misera, niente risvegliava più entusiasmo di un po' di chiasso, di quattro salti. Accadeva in occasioni molto rare, quando Pedro Zingaro veniva a sbattere da quelle parti oppure quando qualche suonatore di fisarmonica, di viola o chitarrino, si trovava a pernottare per caso a Tocaia Grande. Tizzone si chiedeva come mai non gli fosse venuta una simile ispirazione, se nel Reconcavo le feste di giugno cominciavano il primo, con i tridui di Sant'Antonio, e non terminavano che la notte fra il ventinove e il trenta, con le celebrazioni di San Pietro.

 

 

Una zuffa di puttane è sempre così: un fuoco di paglia, molte faville e poca brace, comincia d'improvviso e d'improvviso finisce, dura poco. Esplode inattesa, si espande, arriva al suo culmine, perde d'impeto, si scoraggia e cessa. Non ci resta neanche il fumo.

Il trambusto provocato da Epifania e Dalila all'inizio del ballo, la notte di Sant'Antonio, non arrivò ad essere sensazionale, ma servì a dare un po' di animazione. Come più tardi si potè comprovare, influì sullo stato d'animo di Misael, mulatto chiaro di bell'aspetto, e fornito di mezzi, a quanto si poteva dedurre dai suoi modi petulanti. In compagnia di due vaccari, un vecchiotto e un ragazzino, tornava da Itabuna dove aveva lasciato una mandria numerosa, portata dal sertão di Conquista. Indossavano giubboni di cuoio, montavano buoni cavalli, avevano armi e denaro. Si erano fermati a Tocaia Grande alla fine del pomeriggio. La festa di Sant'Antonio uno scherzetto? Tutte chiacchere.

Stavano ballando alcune coppie, al suono della fisarmonica di Pedro Zingaro, quando Epifania si sciolse improvvisamente dalle braccia di mastro Guido e minacciò di spaccare la faccia a Dalila che volteggiava fra le braccia del suddetto Misael. Liberandosi del compagno, Dalila ribattè:

“Vieni avanti, se hai coraggio!”.

Guido e Misael si fecero da parte per assistere dal palco: a chi non piace osservare, passaggio per passaggio, insulto per insulto, sberla per sberla, una rissa di donne?

Epifania lanciò il primo attacco a sputi. Mirò all'occhio sinistro di Dalila e fece centro. S'incrociarono gl'insulti:

“Negra pidocchiosa! Cagona!”

“Puttana impestata! Puzzona!”

Negre e puttane tutt'e due, pidocchiose e impestate, ma erano due negre di qualità, due puttane richieste, due principesse del luogo. A Tocaia Grande, per essere di qualità e richieste, per occupare il posto di principessa o il trono di regina – il trono di Bernarda – non si richiedevano grandi virtù, evidente avvenenza o raffinata educazione, viste le condizioni del battoname sperduto in quel buco, una banda di scorfani. In ogni modo, quelle due si distinguevano, suscitando invidia e gelosie.

Dalila allungò la mano con cui s'era ripulita l'occhio e la sbattè in faccia a Epifania. Si acciuffarono per i capelli, si scambiarono alcune sberle, s'attaccarono a parolacce e unghiate. Si formò intorno un cerchio, partecipe e ribaldo, a sostenere le contendenti.

“Scommetto su quella con il culone”, sfidò Misael onorando la sua dama.

“Ci sto per due soldi”, accettò Guido, non meno cavaliere. Senza smettere di suonare, Pedro Zingaro si alzò dalla lunga panca di legno, opera di Lupiscínio, su cui era rimasto seduto insieme a Zuleica, e venne a mettersi al centro del cerchio. Vale la pena di annotare che neppure quando la cagnara fu sul punto di generalizzarsi il suonatore smise di far scorrere le dita sulla fisarmonica, in una specie di sottofondo musicale eseguito in sordina. Malgrado si ritrovasse a secco, arrischiò un cruzado su Epifania, tanto sicuro era del risultato. Bastião da Rosa sostenne la posta per puro spirito sportivo, per ravvivare la competizione, senza nutrire illusione alcuna sulla possibilità di ricevere i quaranta centesimi: Pedro Zingaro era in debito con Dio e con mezzo mondo.

Come ebbe a opinare Guido, le puttane risultarono annullate automaticamente quando Zuleica entrò in lizza, sorprendendo tutti quanti, meno Coroca. Dalila pareva sul punto di essere sconfitta; con uno strattone Epifania le aveva strappato di dosso la gonnella di cotone – quella vecchia, ché la nuova la teneva da parte per San Giovanni – lasciandola con il sedere all'aria a maggior gaudio della platea. Disorientata, non sapendo come reagire, Dalila si vide sul punto di abbandonare il campo di battaglia. In quel momento, alzandosi dalla panca da dove aveva seguito le peripezie dell'incontro, Zuleica aggredì Epifania a pedate, aveva il vantaggio di portare gli zoccoli.

Sentendosi appoggiata, Dalila, dimenando il culo nudo, volò un'altra volta addosso alla rivale. La platea acclamò con lazzi applausi e fischi.

“Due contro una, signorine vigliacche. Ma ne buscate tutt'e due”.

Ma Epifania non dovette affrontarle da sola; la piccola Cotinha, solidale, si buttò nella mischia e rivelò una grinta inattesa. Ruzzolarono a terra tutt'e quattro, avvinghiate; oltre al deretano di Dalila, si vedevano i seni di Epifania: le si era sbottonato il camicione da baiana.

Con l'intervento di Zuleica apparve chiaro il vero motivo della zuffa, a detta delle donne motivo giusto per non dire sublime: il negro Castor Abduim da Assuncão, seduto lì bello comodo, in massima indifferenza.

Per lui sospiravano, s'insultavano e se le davano di santa ragione: gli mangiavano in mano. Verità, questa, di dominio pubblico, che immediatamente ebbe la sua riprova: avvicinandosi alle fomentatrici di disordini, sporche di terra, graffiate e sputacchiate, seminude, Tizzone – ahi negro impunito! – ordinò senza nemmeno alzare la voce:

“Per oggi basta, ragazze, andiamo a divertirci”.

Crebbe la voce della fisarmonica in una cadenza suadente, stuzzicante, irresistibile. Voltando le spalle a quelle scatenate l'ingrato ferratore di asini offrì la mano a Merencia, signora sposata e perbene, che disapprovava tutta quella cagnara, e la portò a ballare. Dalila s'infilò la sottana, tornò alle braccia di Misael, Epifania a quelle di Guido. Fadul invitò Cotinha: il turco era ancora più grande che frate Nuno di Santa Maria, ma le dimensioni non erano cosa che mettesse paura a chi era stato allevato servendo Iddio sulle alture. Con lo stesso atteggiamento calmo di sempre, la stessa espressione da pesce morto, che non pareva neppure avesse partecipato a una zuffa, Zuleica accettò l'invito di Bastião da Rosa, quello dalla barba d'oro, si tolse gli zoccoli. Sfiorando il pavimento di terra battuta con i piedi scalzi, si muovevano leggere e flessuose, lustre di sudore nella fragranza acre dei corpi.

Carezzando con le dita la fisarmonica, battendo i piedi per segnare il tempo, Pedro Zingaro ballava in mezzo alle coppie nel centro della baracca. Nessuno sentì la mancanza di Lulu Fisarmonica. La festa di Sant'Antonio cominciava ad animarsi (…)

 


(Brano tratto dal romanzo Tocaia Grande, Garzanti, Milano, 1985. Traduzione di Elena Grechi.)



Jorge Amado
, grande scrittore brasiliano scomparso nel 2001, era nato il 10 Agosto 1912 in una fattoria nell'interno di Itabuna nello stato di Bahia, in Brasile. Figlio di un grande proprietario terriero produttore di cacao (un cosiddetto "fazendeiro"), fu testimone fin da bambino delle lotte violente che venivano scatenate per il possesso della terra. Si tratta di ricordi indelebili, più volte riutilizzati nella stesura delle sue opere.
Attratto dalla letteratura fin dall'adolescenza , si propone subito come giovane ribelle, sia dal punto di vista letterario che politico, scelta fra l'altro alla quale il grande "cantore di Bahia" non ha mai deflesso, anche quando i pericoli erano assai minacciosi (ad esempio, negli anni della dittatura nazista, che, se avesse vinto, rischiava di contagiare anche le civiltà sudamericane).
Inoltre, è utile sottolineare che il Brasile della gioventù di Amado era un Paese assai arretrato e ancorato a tradizioni che gettavano le loro radici addirittura nel sistema schiavistico, peraltro a quel tempo recentemente smantellato. Un Paese, quindi, che guardava con sospetto e timore a qualsiasi forma di "sovversione". Infine, la forte crisi economica e la conseguente apertura delle frontiere, che determinò un fortissimo flusso migratorio di tutte le razze (italiani compresi), non faceva che minare il senso di sicurezza dei cittadini, desiderosi vieppiù di garanzie e stabilità.
In questo mondo attraversato da profonde trasformazioni Jorge Amado esordisce non ancora ventenne con il suo primo romanzo "Il paese del Carnevale", storia di un giovane che non riesce a trovare la sua strada in una società che rifiuta di affrontare i problemi per ignorarli o mascherarli con trucchi di vario genere, fra cui appunto il mitico Carnevale. A proposito di questo primo romanzo, l'Enciclopedia della Letteratura Garzanti così scrive: "qui già si delinea la sua fisionomia di narratore realista, inclina ad una sorta di populismo romantico, legato alla gente e ai problemi della terra bahiana".
Seguirono subito dopo due romanzi di impegno sociale "Cacao" e "Sudore": il primo sul drammatico problema degli "affittati" (in pratica schiavi utilizzati nelle piantagioni di cacao), il secondo sulla condizione non meno drammatica del sottoproletariato urbano. Ma il grande esordio che lo pone davvero all'attenzione di tutti, anche al di fuori del mondo delle lettere, avviene nel 1935 con il romanzo "Jubiabá", dal nome del protagonista, il grande stregone negro di Bahia. Romanzo provocatorio quant'altri mai per la mentalità brasiliana, a causa dell'intensa narrazione che vede protagonisti cultura e personaggi negri (in un paese la cui cultura ufficiale aveva fino ad allora negato il valore della cultura negra in quanto tale), nonché una storia d'amore di un uomo nero con una donna bianca (argomento assolutamente tabù). Infine, sullo sfondo sono tratteggiate le vicende di un grande sciopero, visto come il superamento delle differenze razziali nella lotta di classe. Insomma, un gran calderone che infrangeva in un una sola grande narrazione tutte le fragili, ma al tempo stesso radicate resistenze della cultura brasiliana
A quel punto il cammino di Jorge Amado è tracciato, la sua scelta ideale di vita troverà nelle opere successive una serie di precise conferme mentre le sue scelte politiche, come l'adesione al Partito Comunista, provocheranno più volte il suo arresto e l'esilio. Finita la seconda guerra mondiale, infatti, costretto ad allontanarsi dal Brasile con l'ascesa alla presidenza di Enrico Gaspar Dutra, Jorge Amado vive prima a Parigi e poi, vincitore del premio Stalin, passa tre anni nell'Unione Sovietica. Nel 1952 pubblica in tre volumi "I sotterranei della libertà", la storia delle lotte del partito comunista in Brasile. Pubblica in seguito altre opere minori sul suo soggiorno nei paesi dell'Unione Sovietica.
Poco dopo, però, ecco un'altra grande svolta, avvenuta precisamente nel 1956. Questa è la data della sua uscita dal Partito Comunista Brasiliano per dissensi sugli sviluppi del comunismo in Unione Sovietica.
Nel 1958, ritornato in Brasile, pubblica con sorpresa di tutti "Gabriella, garofano e cannella". Un ritorno al passato, alla sua terra d'origine e alle lotte dei "fazendeiros" per il possesso delle terre; nel romanzo, tra una sparatoria e una cavalcata la bella Gabriela ama e rivendica il diritto di amare. Questo diritto di amare al femminile, questo superamento del binomio sesso-peccato può sembrare banale, al giorno d'oggi, ma a quel tempo, nel 1958, ottenne un effetto provocatorio forse superiore a quello dello stesso "Jubiabá" vent'anni prima. Una riprova? Amado non poté rimettere piede a Ilhéus per molto tempo a causa delle minacce ricevute per aver offeso l'onore e la rispettabilità delle donne del posto.
Molti anni più tardi, quando compirà ottant'anni, il "paese del carnevale" gli renderà omaggio con una grandiosa festa, un gigantesco carnevale nel vecchio quartiere bahiano del Pelourinho, tante volte descritto dal "bahiano più bahiano di Bahia". Verso la fine della sua vita, il bilancio del vecchio e indomito scrittore non potè che essere improntato all'orgoglio e alla soddisfazione. I suoi libri, pubblicati in 52 paesi e tradotti in 48 lingue e dialetti, hanno venduto milioni di copie, contribuendo a risvegliare le coscienze ma anche a distendere e a divertire (soprattutto grazie alla sua "seconda fase", quella "spensierata" di "Gabriella garofano e cannella").

Bibliografia di Jorge Amado:

Gabriella garofano e cannella
Sudore
Mar Morto
Tocaia grande. La faccia oscura
Paese del carnevale
Cucina di Bahia, ovvero Il libro di cucina di Pedro Archanjo e le merende di Dona Flor
Palla innamorata
Santa Barbara dei fulmini. Una storia di stregoneria
Dona Flor e i suoi due mariti
Capitani della spiaggia
Gatto tigrato e miss Rondinella
Terre del finimondo
Messe di sangue
Turchi alla scoperta dell' America
Terre del finimondo
Navigazione di cabotaggio. Appunti per un libro di memorie che non scriverò mai
Alte uniformi e camicie da notte
Ricette narrative
Frutti d' oro
Bahia
Paese di carnevale
Ragazzo di Bahia

 

 

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