BERGMANORAMA
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Ingmar Bergman visto da Jean-luc Godard -
Jean-Luc Godard
Nella storia del
cinema, ci sono cinque o sei film dei quali ci piace farne la critica usando solo
queste parole: “È il film più bello che abbia mai visto!”. Perché
non esiste un elogio più bello di questo. Infatti, perché parlare
ancora di Tabù, Viaggio in Italia o di Carrozza d'oro ?
Come la stella marina che si apre e si chiude, sanno offrire e nascondere il segreto
di cui sono sia il solo depositario che l'affascinante riflesso. La verità
è la loro verità. La conservano nel loro più profondo, e,
tuttavia, lo schermo si strappa ad ogni livello per gridarla ai quattro venti.
Dire di questi che sono i film più belli, è dire tutto. Perché?
Perché è così. E questo ragionamento infantile, solo il cinema
può permettersi di utilizzarlo senza falsa vergogna. Perché? Perché
è il cinema. E il cinema basta a se stesso. Di Welles, di Ophüls,
di Dreyer, di Hawks, di Cukor, anche di Vadim, per decantare i loro meriti, basterà
dire: è del cinema! E quando i nomi dei grandi artisti del secolo scorso
si ritrovano per paragone sotto la nostra penna, non ci serve aggiungere altro.
Immaginiamo, però, un critico che vanti l'ultima opera di Faulkner dicendo:
è della letteratura; di Strawinsky, di Paul Klee: è della musica,
è della pittura? O ancora addirittura di Shakespeare, Mozart o Raffaello.
Non verrà in mente ad un editore, anche se fosse Bernard Grasset, di lanciare
un poeta con lo slogan: questa è della poesia! Anche Jean Vilar, nel riadattare
Il Cid arrossirebbe nel mettere sui cartelloni: questo è del teatro!
Dunque “questo è del cinema!”; meglio della parola del momento, resta l'urlo
di battaglia del venditore, così come l'amante dei film. In breve, tra
tutti questi privilegi, il minore, per il cinema, non è certo quello di
ergere, in ragione d'essere la propria esistenza, e fare, allo stesso tempo, dell'etica
la sua estetica. Cinque o sei films, ho detto, +1, poiché Sommarlek
è quello più bello di tutti. L'ultimo
grande romantico. I
grandi autori sono probabilmente quelli di cui si sa solo pronunciare il nome
visto che è impossibile altrimenti spiegare le sensazioni e i sentimenti
multipli che vi assalgono in certe circostanze eccezionali, davanti un paesaggio
stupefacente, o al momento di un avvenimento imprevisto: Beethoven sotto le stelle,
su uno scoglio bagnato dal mare; Balzac, o quando, guardando da Montmatre, sembra
che la città di Parigi vi appartenga; ma purtroppo, se il passato gioca
a nascondino con il presente sulla faccia di colei o colui che amate; se la morte,
quando umiliati e offesi arrivate alla fine a porle la domanda suprema, vi risponde
con un ironia tutta Valeryana ossia che vale la pena provare a vivere; ormai dunque,
se le parole estate prodigiosa, ultime vacanze, eterno miraggio, ritornano sulle
vostre labbra, significa che automaticamente avete pronunciato il nome di colui
che ad una seconda retrospettiva alla Cineteca Francese si è
appena, (per coloro che non avevano ancora visto qualcuno dei suoi diciannove
films), consacrato definitivamente come l'autore più originale del cinema
europeo moderno: Ingmar Bergman. Originale?
Il Settimo sigillo o La notte dei mercanti, passa; al rigore
di Sorrisi di una notte d'estate ; ma Monika , ma Sogni
di donne , ma Verso la felicità, al massimo secondo lo stile
di Maupassant, e quanto alla tecnica, vediamo, delle inquadrature alla Germane
Dulac, degli effetti alla Man Ray, dei riflessi nell'acqua alla Kirsanoff, dei
flash back come non è più permesso fare perché troppo fuori
moda.” No, il cinema, è un'altra cosa”, gridano i nostri tecnici diplomati:
e, prima di tutto, è un mestiere. Eh
no! Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non è una squadra.
Si è sempre soli sulla scena come davanti ad una spiaggia bianca. E per
Bergman, essere solo, è farsi delle domande. E fare dei films, è
rispondere. Non si potrebbe essere più classicamente romantici. Certo,
di tutti i cineasti contemporanei, è senza alcun dubbio il solo a non rinnegare
apertamente i cari processi agli avanguardisti degli anni trenta, che ancora trascinano
ad ogni festival dei films sperimentali o per amatori. Ma è piuttosto
ardito da parte dello sceneggiatore de La sete , poiché, questa
cianfrusaglia, Bergaman, la destina in perfetta conoscenza di causa ad altri fini.
Queste pianure di laghi , di foreste, di erbe, di nuvole, questi angeli falsamente
insoliti, questi controluce troppo ricercati, non sono più nell'estetica
bergmiana dei giochi astratti della camera o delle prodezze del fotografo; si
integrano, al contrario, nella psicologia dei personaggi nell'istante preciso
di cui si tratta, per Bergman, riuscire ad esprimere un sentimento non meno
preciso; per esempio, il piacere di Monika mentre attraversa in battello Stoccolma
che si sveglia, poi la sua stanchezza nell'invertire il tragitto in una Stoccolma
che si addormenta. L'eternità
in soccorso all'istantaneità. Nel
preciso istante. In effetti, Ingmar Bergman è il cineasta dell'istante.
Ognuno dei suoi film nasce dalla riflessioni degli eroi sul momento presente,
approfondisce questa riflessione con una sorta di sminuzzamento della durata,
un po' alla maniera di Proust , ma con più potenza, come se si fosse moltiplicato
Proust allo stesso tempo per Joyce e Rousseau, ne diventa infine una gigantesca
e smisurata meditazione a partire da un istantaneità. Un film
di Ingman Bergman, è, se si vuole, un ventiquattresimo di secondo che si
trasforma e si stende per un ora e mezza. È il mondo, tra due sbattiti
di ciglia, la tristezza tra due battiti di cuore, la gioia di vivere tra due battiti
di mani. Da
cui l'importanza primordiale del “Flash-back” in queste fantasticherie scandinave
di passeggiatrici solitarie. In Sommarlek , basta uno sguardo al suo
specchio perché Maj-Britt Nilsson parta come Orfeo e Lancillotto alla ricerca
del paradiso perduto e del tempo ritrovato. Utilizzato quasi sistematicamente
da Bergman nella maggior parte delle sue opere, il ritorno indietro nel tempo
cessa allora di essere uno dei “poor tricks” di cui parlava Orson Welles per diventare,
se non il soggetto stesso del film, almeno la sua condizione sine qua non.
Al di sopra del mercato, questa figura di stile, impiegata anche come tale,
ha da ora in poi il vantaggio imamamancomparabile di arricchire considerevolmente
lo scenario, perché anche lei stessa ne costituisce il ritmo interno e
l'ossatura drammatica. Non importa quale sia il film che abbiamo visto di Bergman
per rimarcare che ogni ritorno indietro nel tempo termina o inizia sempre “in
situazione x, in doppia situazione dovrei dire, poiché la cosa più
forte è che questo cambiamento di sequenza , come in Hitchcock nella sua
migliore forma, corrisponde sempre all'emozione interiore degli eroi, diversamente
detto, provoca il rimbalzo dell'azione, che è il maggior privilegio. Noi
consideriamo facile ciò che non era altro un'aggiunta di rigore. Ingman
Bergman, l'autodidatta svalutato da “quelli del mestiere”, da una lezione ai migliori
dei nostri registri. Noi ora vedremo che non è la prima volta.
Sempre
avanti Quando
arrivò Vadim, l'applaudimmo per il fatto di essere in orario mentre la
maggior parte dei colleghi erano ancora indietro di una battaglia. Quando vedemmo
le smorfie poetiche di Giulietta Masina, applaudimmo anche Fellini di cui la freschezza
barocca ben sentiva il rinnovamento. Ma questa rinascita del cinema moderno, cinque
anni prima, il figlio di un pastore svedese l'aveva già portato al suo
apogeo. A cosa sognavamo dunque quando uscì Monika sugli schermi
parigini? Tutto ciò che rimproveriamo ancora di non aver fatto ai cineasti
francesi, Ingmar Bergman l'aveva già fatto. Monika, era già
E Dio creò la donna , ma riuscì in maniera perfetta. E
questo ultimo delle Notti di Cabiria, quando Giulietta Masina fissa ostinatamente
la camera, abbiamo dimenticato che già anche questo è nella penultima
bobina di Monika ? Questa brusca cospirazione tra lo spettatore e l'attore
che entusiasma così forte Andrè Bazin, ci siamo dimenticati di averla
già vissuta, con mille volte più forza e poesia, quando Harriett
Andersson, con i suoi occhi ridenti tutti imbevuti di confusione inchiodati sull'obbiettivo,
ci fa testimoni del disgusto che ha optato per l'inferno contro il cielo. Non
è il consiglio che vuole. Non è davanti agli altri che lo grida
sui tetti. Un autore veramente originale è colui che non abbandonerà
mai questi scenari alla società stessa. Poiché è nuovo, come
ci dimostra Bergman, ciò che è giusto, e sarà giusto ciò
che è profondo. Ora la profonda novità di Sommarlek, di
Monika , di La sete, del Settimo sigillo , è
di essere avanti di un ammirabile piccolo tocco. Per Bergman, certo, un gatto
è un gatto. Ma lo è anche per molti altri, ed è qui la cosa
di poco conto. L'importante è che, dovuto ad una eleganza morale ad ogni
prova, Bergman può accomodarsi con qualsiasi verità, anche la più
scabrosa (come l'ultimo sketch di L'attesa delle donne ). E' profondo
ciò che è imprevedibile, e ogni nuovo film del nostro autore devia
spesso i più caldi sostenitori del precedente. Ci si aspettava una commedia,
ed invece ne è uscita una rappresentazione tipica del Medioevo. Il loro
unico punto in comune è spesso questa incredibile libertà delle
situazioni alla quale Feydeau dava dei punti come Mortherlant poteva darne alla
verità dei dialoghi, in altri momenti, supremo paradosso, in cui Giraudoux
farebbe lo stesso con il loro pudore. Lo fa senza dirci che questa disinvoltura
suprema si moltiplica nell'elaborazione del manoscritto, dal momento in cui si
mette in moto la camera, con una maestria assoluta degli attori. Ingman Bergman,
in questo campo è uguale ad un Cukor o ad un Renoir. Certo, la maggior
parte dei suoi interpreti, che spesso fanno anche parte della sua troupe teatrale,
sono in genere dei notevoli commedianti. Penso soprattutto a Maj-Britt Nilsson,
il cui voluto mento e le smorfie di disprezzo non fanno altro che richiamare alla
memoria Ingrid Bergman. Ma bisogna aver visto Birger Malmsten nel giovane sognatore
in Sommerlek , e ritrovarlo, irriconoscibile, nel borghese impomatato
ne La sete ; bisogna aver visto Gunnar Bjornstrand e Harriett Andersson
nel primo episodio di Sogni di donne , e ritrovarli, con un altro sguardo,
con nuovi tics, con un diverso ritmo dei corpi nel “Sorrisi di una notte d'estate”,
per rendersi conto del prodigioso lavoro di modellamento di cui è capace
Bergman, partendo da questo “ bestiario” di cui parlava Hitchcock.
Bergman
contro Visconti O
scenario contro messa in scena. È così sicuro? Per esempio si può
contrapporre un Alex Joffé e un René Clément poiché
non si tratta di talento. Ma è quando il talento rasenta così da
vicino il genio che si ottiene Sommarlek e Notti bianche , ed
è molto utile dissertare a perdita d'occhio per sapere infine chi è
superiore all'altro, l'autore completo o lo sceneggiatore? Può darsi di
si, dopo tutto, poiché è come analizzare due concezioni del cinema
di cui l'una forse vale più dell'altra. Ci
sono, sommariamente, due generi di cineasti. Quelli che camminano per strada a
testa bassa e quelli che lo fanno invece a testa alta. I primi, per vedere quello
che accade intorno a loro, sono obbligati ad alzare spesso e all'improvviso la
testa, e a girarla tanto a sinistra quanto a destra, abbracciando così
con una serie di colpi d'occhio il campo che si offre alla loro vista. Vedono
. I secondi non rubano niente, guardano , fissano la loro attenzione
sul punto preciso che li interessa. Quando gireranno un film, l'inquadratura dei
primi sarà ariosa, fluida (Rossellini), quella dei secondi chiusa al millimetro
(Hitchcock). Nei primi si troverà un decoupage sicuramente disparato ma
terribilmente sensibile alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti
di apparecchiature, non solamente una precisione inaudita sul palcoscenico, ma
che hanno il loro proprio valore astratto del movimento nello spazio (Lang). Bergman
farebbe piuttosto parte del primo gruppo, quello del cinema libero. Visconti,
del secondo, quello del cinema rigoroso. Per
mio gusto, preferisco Monika a Senso , e la politica degli autori
a quella dei registi. Che Bergman, infatti, più di qualsiasi cineasta europeo,
eccetto Renoir, ne sia il più tipico rappresentante,e a chi ha ancora dei
dubbi, La prigione gli potrebbe dare la prova, o per lo meno il simbolo
più evidente. Si conosce il soggetto: uno sceneggiatore si vede proporre
dal suo professore di matematica uno scenario sul diavolo. Pertanto non sarà
a lui che capiteranno una serie di disavventure diaboliche, ma piuttosto al suo
sceneggiatore al quale ha chiesto una continuità. Come
uomo di teatro, Bergman ammette di mettere in scena les pieces degli altri. Ma
come uomo di cinema, vuole restare l'unico comandante a bordo. Al contrario di
un Bresson e di un Visconti che trasfigurano un punto di partenza che raramente
è frutto delle loro idee. Bergman crea ex nihilo avventure e personaggi.
Il settimo sigillo è messo in scena meno abilmente di Notti
Bianche, le sue inquadrature sono meno precise, i suoi angoli meno rigorosi,
niente glielo negherà; ma è proprio sul punto capitale della distinzione,
per un uomo di talento così immenso come Visconti, fare un film molto
bello , in fin dei conti, è un' affare di molto buon gusto. È
sicuro di non sbagliarsi, e in un certo senso, è facile . È
facile scegliere le tende più carine, i mobili più perfetti, di
fare solo i possibili movimenti di macchinari da presa, se da subito si sa di
essere dotati per fare questo. Da parte di un artista, conoscersi troppo bene,
è un po' cedere alla facilità. Quello
che è difficile, al contrario, è di avanzare su terre sconosciute,
di riconoscere il pericolo, di passare dei rischi, di avere paura. Sublime è
l'istante, nelle Notti Bianche dove la neve cade a grandi fiocchi intorno
alla barca di Maria Schell e Marcello Mastroianni! Ma tale sublime non è
niente rispetto al vecchio capo d'orchestra di Verso la felicità che,
disteso sull'erba, guarda Stig Olin che, a sua volta, guarda amorosamente Maj-Britt
Nilsson sul suo sdraio, e pensa: “ Come descrivere uno spettacolo di così
grande bellezza!” . Ammiro Notti Bianche , ma amo Sommarlek.
(Pubblicato
originalmente su Cahiers du Cinéma, Luglio 1958. Traduzione di Samanta
Catastini)
Jean-Luc Godard
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