METHAT
Francesca
Grazzini
Methat,
"colui che appare all'improvviso" mi è apparso per la prima volta
durante una festa in giardino. Me ne stavo sola da una parte occhieggiando come
fanno le bestiole ferite. Ma anche come fanno gli umani quando vorrebbero darsi
anche una piccola speranza e non osano. L'ultimo uomo che avevo avuto, di nome
Lisandro, che in realtà non è il suo nome, ma quello del suo personaggio
quando recitavamo insieme... E io ero Puck il folletto, inizialmente per via dei
miei capelli rossi, poi per la mia capacità visionaria, meglio detta distrazione,
nel Sogno di una notte di mezza estate ... Mi aveva lasciato qualche
mese prima, ed era il settimo?, uomo della mia non più giovane vita, perché
avevo appena passato i trent'anni, età nella quale si balza a piedi uniti,
anche se controvoglia, nella cosiddetta "zona", luogo in cui noi ragazze
ci si deve affrettare, matrimonio magari, ma almeno un amore bastantemente sincero,
e figli soprattutto, perché se sfugge il tempo... Ma
io che cosa ci potevo fare? Non sono cose che si comperano al supermercato, e
anche in un paese del primo mondo ne puoi morire di fame. Ed
eccomi qui, nel pomeriggio di maggio che diventa sera, intimidita, prudente.
Poi
"all'improvviso" ho visto Methat. Cioè
un mucchio di capelli rasta, e tra i dread una testa potentemente maschile,
come di una maschera portata a casa dall'Africa da un esploratore, e lui stava
rincorrendo sull'erba dei bambini, e quando ne prendeva uno lo faceva volare,
o roteare, e si sentivano strilli di gioia, e io mi sono guardata le mani per
l'imbarazzo... Ma un attimo dopo, rendendomi conto che nessuno badava a me,
ho potuto mettermi d'impegno a osservarlo indisturbata e, guardandolo, mi
è diventato familiare. Faccio
teatro da dilettante, per passione, e nella vita di ogni giorno sono donna
delle pulizie, con passione anche quelle, perché no, si tratta di un lavoro
magari non prestigioso ma che ha una sua utilità, e io vivo sospesa tra
la mia distrazione e una certa tendenza a mettere ordine, e mentre passo
lo straccio o l'aspirapolvere negli uffici solitari e segreti, come monumenti
funerari al lavoro, per via di tutti quegli oggetti non più collegati con
le persone che li usano, posso allenarmi a ripetere a memoria le mie parti
teatrali. "Per
il bosco ho scorrazzato e
nessun ateniese vi ho trovato (vvvrrrrrr fa l'aspirapolvere, vvvrrrr...) su cui
provare se il fiore è
poi vero che suscita amore... Ecco
là la dama dorme sulla
terra sporca e mezza. (vvvvrrrrr...) Poverina
non s' azzarda a
giacersi accanto a lui, lui
che tanto ne disprezza ed
affetto e cortesia". Il
fatto è che mio padre è morto che frequentavo ancora le medie e
alla fine del liceo non ci sono stati soldi per mandarmi all'università.
Ma che importa, i libri li leggo per conto mio e posso decidere quali. In genere,
appunto, teatro. E poesia. Posso comprarmi musica, andare al cinema... La
morte di mio padre, paradossalmente, invece di intristirmi mi ha fatto sentire
la preziosità, il privilegio della vita, anche se mi ha lasciato un'eredità
difficile: l'amore tra lui e la mamma, tenero e solido, senza scalfitture,
e io dove la trovo, con i tempi che corrono, una cosa così? Io non tengo
un diario, non mi sembra di essere così importante e di avere così
tante cose da dire, ma dopo l'ennesimo fallimento d'amore ho cominciato a
raccogliere fogli che stacco dai quaderni, sui quali più che scrivere prendo
appunti, e ciascun foglio ha in cima il nome del mio amore, e quando mi viene
in mente qualcosa su quello o quell'altro ragazzo che ho avuto, vado a prendere
la scatola da scarpe in cui tengo i fogli e ci aggiungo un aspetto nuovo che mi
è venuto in mente, perché lui si è comportato così
e così, e la mia risposta, e la bellezza, e qual è stato l'errore...
Non so cosa mi aspetto: che alla fine dalla scatola da scarpe venga fuori un percorso
coerente e non quei passi avanti e indietro e quelle cadute e il rialzarsi ammaccati
in cui consiste finora la mia esperienza d'amore. PRIMO
UOMO Della
mia vita, s'intende, a Londra, sedici anni, voglia di provare com'è l'intera
faccenda di cui sento tanto parlare, il sesso misterioso, da che parte si comincia,
con chi, possibile che a me non capiti mai? Lui, Richard, svizzero tedesco, studente
nella mia stessa scuola di lingue, lungo e secco, io piccola e rotonda, coppia
un po' ridicola, ma dopo che mi viene a prendere al ristorante dove faccio la
cameriera per pagarmi le lezioni, camminiamo sempre allacciati e tocca agli altri
farci strada. Primo risultato: mi ha insegnato a entrare nei musei (Tate, British...)
e a comprare musica (Waits, Lou Reed...) Secondo
risultato: non ho capito se a letto è successo o no. Voglio dire, la notte
ci baciamo anche quattro ore di fila, finché arriva l'alba, ma finisce
qui, e invece penso che ci sia dell'altro... E torno a casa vergine... Sì,
temo di sì. SECONDO
UOMO Cesare,
naturalmente romano. Questo non è tanto alto. Però spalle larghe,
e nottetempo mi introduce alla conoscenza del Coso, prima volta indimenticabile,
lui mi prende la mano e me l'appoggia sopra e la mano non riesce a circondarlo
tutto, per cui mi rendo conto che di quel Coso Richard quasi non era fornito e
Cesare in abbondanza, e che il genere maschile è ancora più diverso
dal genere femminile di quello che avevo mai immaginato, possibile? Il Fallo
collocato al centro dei miei pensieri. Anche la mia Cosa naturalmente, che scopro
contemporaneamente, e guardo gli amici e le amiche, i conoscenti, gli sconosciuti
e penso a come ce l'avranno. Poi, per fortuna, mi passa. TERZO
UOMO Qui
succede un ulteriore passo verso la comprensione del Genere Umano ("è
un piccolo passo dell'uomo, ma un grande passo per l'umanità...").
E metto in relazione quello che provavo a volte da piccola e di cui mi vergognavo,
con Quello Che Ora Sento man mano che Lucio sa muoversi dentro di me, onde concentriche
che salgono a spirale lungo i fianchi di una montagna che culmina nel mio Piacere
e quando a volte lui dice "Ferma!" non è per lasciarmi indietro
ma perché mi vuole aspettare. Perché questa storia finisce?
Perché Lucio è andato negli Stati Uniti con l'Erasmus e dopo un
paio di e-mail all'Internet point, non l'ho più sentito e visto nemmeno,
maledizione. QUARTO,
QUINTO, SESTO UOMO Non
ci capisco niente. A volte, come si dice, Vengo, ma perché si dice così,
ma soprattutto perché a volte non Vengo, o meglio perché dopo cinque
minuti mi chiedono "ti è piaciuto?", che cosa? Storie che non
durano niente, con un uomo delle pulizie, un impiegato buddista, un aspirante
scrittore. A quest'ultimo scrivevo delle poesie, sulle quali non mi ha mai
dato un parere, egoista, dunque, perché da parte mia non mancavo mai
di incoraggiarlo ed elogiarlo ed è meglio un guarda che le tue poesie
sono brutte, piuttosto che la totale indifferenza. Però in questo modo
ho saputo di possedere una specie di ispirazione che dovevo mettere da qualche
parte. E così, quando è capitato il teatro, mi sono iscritta ai
corsi, e ho conosciuto il Settimo... LISANDRO
Eccolo,
forse l'Uomo Della Mia Vita. Per lui sono "il mio Puck". Ci incontriamo
per la prima volta durante la composizione del cast per Sogno di una notte
di mezza estate . Tanti ragazzi e ragazze e anche qualcuno più
grande di età. Di fronte a me: lui, bello, capelli lunghi, tutto vestito
di nero. Gli affideranno la parte di Lisandro. Io quella di Puck appunto, la versione
di Eros che con una pozione magica pasticcia e ingarbuglia gli amori. Ma per ora
stiamo rileggendo ciascuno la propria parte per il provino e ci guardiamo di sottecchi.
E, qualche tempo dopo, ci baciamo dietro le quinte. Un bacio lungo e promettente.
E poi passano quattro mesi in cui recitiamo e contemporaneamente stiamo insieme.
E stiamo bene. E lentamente mi convinco che è per sempre. Che incredibile
contrapposizione tra la mia pacifica realtà amorosa e i continui giochi
e scambi e passioni improvvise e tradimenti nella finzione scenica del Sogno
shakespeariano. E poi una notte invece, veramente, chissà come, accetto
l'amore di Demetrio, ma una notte sola, solo per curiosità, no, piuttosto
per paura, perché il mio istinto cominciava ad accorgersi di quel che stava
passando tra Lisandro ed Ermia. Dopodiché Lisandro, come dentro di me sapevo
già, avvertito del mio tradimento da Oberon, forse, o da Teseo, da Bottom
o Egeo, Fiordipisello, da Elena, da Cotogno o dalla stessa Ermia, mi ha tradito
con Ermia. "Sui
tuoi occhi a te villano ecco
verso il succo arcano...". E
in cambio di quella notte con Ermia ha messo in discussione tutte le tante notti
passate con me. Il
dolore. Il panico. Mai
e poi mai si può stare al sicuro. Colpa mia, colpa sua... Quale forza sconosciuta
ci sballotta come barchette di carta, traversata in solitario da un capo all'altro
dell'oceano dei sentimenti e delle emozioni? Nei
secoli non è cambiato niente, tutti si innamorano e cambiano idea e ritornano
insieme e chissà quante altre volte ci ripensano... Di nuovo, mi sono vergognata
del sesso, come quando ero bambina. Basta. Ho deciso. Troppo Pericoloso.
E Doloroso. E Inutile. E Senza Senso. E un po' Schifoso. Basta. Non Si Va
Più a Letto con Nessuno. "O
notte angosciosa, o lunga notte tediosa, accorcia
le tue ore! E
il sonno che a volte serra gli occhi al dolore per
un po' mi porti lontano dalla compagnia di me stessa...". "Mai così
stanca e mai tanto infelice". Eschedar
mi infondeva rispetto e fiducia. Per farsi un'idea di Eschedar bisogna immaginare
qualcosa di molto grosso, un volto allegro e scuro in cima a un bel corpaccione
ampio. Treccioline. Fianchi larghi e sedere fiero, su lunghe gambe affusolate.
Facevamo a turno: una volta era lei che guidava l'aspirapolvere sulla moquette
e io spolveravo le scrivanie, e viceversa. Io e la mia amica etiope formavamo
una piccola squadra vincente. Quando
Lisandro... Beh, insomma, lui mi aveva lasciato e io non potevo nemmeno più
pensare di interpretare Puck e mi sostituirono e rimasi senza amore e senza
ruolo, e le giornate diventarono un deserto, con quel vvvvrrrrrr all'improvviso
alienante e gli uffici all'improvviso vuoti perché vuoto era il mio animo
incapace di trovare una direzione, uno scopo, Eschedar prese a consolarmi con
brevi frasi pronunciate qua e là, che spuntavano a mo' di fiori sulla moquette,
e all'inizio mi rifiutavo di coglierli, perché la depressione non vede
il colore delle cose e delle persone, ma lentamente invece sì, e quando
fui veramente arrivata a toccare il fondo, corsi nelle braccia di Eschedar che
le teneva aperte, e nel rifugio del suo petto piansi tutte le mie ultime lacrime
definitive. E cominciai a uscire con lei. All'inizio
fu come se fossi stata accolta da un'altra compagnia teatrale. Solo che in questa
gli attori recitavano tutto il giorno la loro parte, erano tutt'uno con essa,
e io non ero preparata e divenni una spettatrice. Mi mancava un testo su cui prepararmi.
I neri, imparai, sono molto diversi dai bianchi e hanno un'intensa vita sociale
intessuta di compleanni, battesimi, matrimoni, fanno sempre festa. Mi
costò un po' di fatica, mi restavano tutti uguali nella memoria, anche
se al momento coglievo la loro diversità, poi la dimenticavo. Con
l'aiuto e la regia di Eschedar cominciai a distinguerli, a conoscere qualcosa
delle loro storie, a interessarmi ai loro avvenimenti e alla musica. Diventò
uguale a fare un viaggio su un atlante di carta, non dovevo spostarmi, mi venivano
incontro, ed erano del Mali, del Senegal, dell'Etiopia e di Cuba... Una
full immersion in altri continenti che fino a quel momento erano esistiti
di fianco al mio, nella stessa città, ma con cui non ero mai entrata in
contatto. Ce n'erano di perfettamente a proprio agio, che avevano portato
in Italia anche i fratelli e i genitori, ce n'erano di soli, lontani dai figli
piccoli e dalle mogli o dai mariti, che tuttavia non potevano più fare
a meno del nuovo modo di vivere, come uno che ha imparato a fumare e non torna
più indietro. I loro stipendi assolutamente incompatibili con quelli che
avrebbero ricevuto nel loro Paese. Vestivano anche cose firmate e false. O casacche
colorate sui jeans. Ma
se la testa era in occidente i piedi rimanevano in Africa e di questo erano ben
consci quando per celebrare qualche rito indossavano i loro abiti tradizionali,
ascoltavano le loro musiche, ballavano, mangiavano il proprio cibo, e tante
volte usando le mani, con un'abilità tale che le dita restavano pulite.
Finii con lo stupirmi di non essermi accorta prima di tutta quella vita accanto
alla mia. E ci fu anche questa cosa, che mi circondarono di affetto fin dal
primo momento e di questo fui subito grata, a loro piacevo, a tutti piacevo.
E loro
piacevano a me. C'era
una nera del Mali che alle feste era ingaggiata come ballerina professionista,
e aveva un sedere grosso come quello di un grosso animale. Quando cominciava a
muoverlo diventava impossibile non restarne ipnotizzati. Anche le cosce erano
come colonne, i polpacci maschili, ma sprigionava ovunque sensualità.
Ballava con grazia paradossale, il pubblico si entusiasmava e la riempiva di soldi.
Glieli infilava nella scollatura, oppure glieli incollava sulla fronte sudata.
Una sera mi chiese di raccoglierle quelli che cadevano a terra. Era sposata con
un avvocato politicamente di destra, più alto di lei, bianco come
il latte. C'era
una coppia altrettanto strana. Lui era un vecchio di sessant'anni, magro
e rugoso, e lei una cubana che non doveva avere più di trent'anni, ed era
lui a occuparsi della loro figlia, di dieci anni?, durante le feste, e le riempiva
il piatto di cibo, e stava attento che non le succedesse nulla di male, mentre
la madre bella e vistosa in mezzo alla pista da ballo si esibiva in complicate
figure di samba. Un
nero con nere pupille incandescenti stava con una ragazza dagli occhi di quell'azzurro
che dà l'impressione di non poter essere attraversati, l'amore metteva
insieme di tutto. Quanto
a Eschedar era la più fantastica narratrice, ballerina e cuoca che potessi
immaginare. Accuratamente truccata, gli occhi sottolineati dal rimmel, il rossetto
sulle labbra, madreperla sulle unghie delle mani e dei piedi, mi trascinava nella
baraonda che era la sua vita. E così intanto avevo ricominciato a uscire.
E c'erano durante le feste perfino momenti in cui smettevo di pensare a Lisandro.
Quando
Eschedar mi invitò alla festa di San Gabriele della sua chiesa cristiano
copta decisi che era arrivato il momento di saper-ne di più. Come quando
leggevo un testo prima di recitare e lo imparavo a memoria e diventavo "quel"
personaggio lì, e salii fino all'ultimo ripiano della libreria a nascondere
il Sogno di una notte di mezza estate in mezzo ai libri di cui non avevo
più bisogno, e uscii a comprare una guida dell'Etiopia. Importanza
della Lonely planet . La guida era ben scritta. C'era una donna naturalmente
di pelle scura in copertina, avvolta in vestiti colorati. Lessi un po' della storia
dell'Etiopia, che era incredibilmente complicata, e poi com'erano fatti Addis
Abeba e i dintorni. "All'inizio
del XX secolo l'Etiopia era l'unico Stato a essere stato risparmiato dalla corsa
europea alla spartizione dell'Africa. Tuttavia la sua comoda posizione tra
le colonie italiane dell'Eritrea e la Somalia la rendeva un bocconcino assai appetibile
agli occhi dell'Italia. Quando Mussolini salì al potere nel 1922 le ambizioni
coloniali italiane esplosero e accadde l'inevitabile". Arrivò
il giorno della festa copta e mi unii a Eschedar. Arrivata
alla chiesa mi accorsi che tutte le donne erano addobbate come quella sulla
copertina della Lonely planet con abiti lunghi e ricamati. La funzione
cominciò molto presto la mattina e durò diverse ore. Non era facile
starmene sui due piedi ad ascoltare una lingua che non capivo. C'erano molti
uomini e donne dentro e fuori la chiesa. A volte cantavano e ballavano. A volte
applaudivano come se si fosse a uno spettacolo. Il sacerdote condusse il
suo pubblico fuori dalla chiesa dietro l'Arca dell'Alleanza. A Eschedar quel
giorno non era concesso entrare in chiesa, mi disse. Perché, chiesi.
Perché aveva le mestruazioni. Con le mestruazioni non si poteva entrare
in chiesa. E nemmeno le donne che nella notte avevano avuto un rapporto con il
marito potevano entrarci, o, figuriamoci, con un amante. Così molti rimanevano
nel cortile a chiacchierare. Tanto amore si doveva essere consumato la notte prima.
C'erano capannelli vivaci e un ronzio forte di voci che naturalmente mi colpiva
per quanto mi faceva sentire estranea e lontana. Dovunque c'erano gruppi di bambini
con i loro abiti migliori che giocavano in qualunque modo. Un'atmosfera da festa
paesana. Più tardi, quando il culto finì, vennero offerti ngera
e zighini da mangiare. Eschedar
mi indicò un uomo che era arrivato quasi alla fine. Methat. Ma lui sparì
poco dopo. E tutti noi andammo a casa di qualcuno che non so chi fosse. E tre
donne insieme prepararono il caffè etiope in una maniera molto particolare,
accucciandosi davanti a un mobiletto lucido posato a terra, sotto il quale vennero
sparse delle foglie colte da un albero. Insieme al caffè servirono
pop corn. Arrivò
a fine luglio la festa di Sharif. Io
non conoscevo Sharif, ma non aveva importanza. Mi aveva invitato lo stesso al
suo compleanno, al quale partecipavano non solo gli amici, ma anche gli amici
degli amici, perché Eschedar gli aveva parlato di me. Era originario del
Senegal e aspettava in Italia la moglie e i due figli, l'ultimo dei quali non
aveva mai visto, ma c'erano assurdi intoppi burocratici. Faceva il magazziniere
e aveva una bella casa in mezzo alla campagna, per cui andammo con la mia auto,
io ed Eschedar, e io mi sentivo insolitamente carina, e disponibile a non
pensare a Lisandro quelle cento, duecento volte all'ora, come mi succedeva di
solito. Avevo l'intenzione di lasciare il fantasma del mio ex fidanzato fuori
dalla serata ed entrai da Sharif piena di una strana e perfino eccitata aspettativa.
Questo
nero del Senegal accoglieva i suoi ospiti vestito di un abito con grandi stampe
chiassose, che portate da qualcuno di noi bianchi ci avrebbe trasformati in divani
ma su di lui diventavano capolavori d'arte, senza capire il perché. Compiva
trent'anni. Portavo con me una torta salata come contributo al buffet, e
la depositai sul tavolo accanto agli altri vassoi pieni di cibo afroitaliano,
in particolare lo zighini che è un piatto di pane, ngera
, da riempirsi di carne e verdura, che loro mangiano abilmente con le mani,
piccante. E
quello che apparve ai miei occhi mi sembrò un nuovo Sogno . "Questo
è un posto come Dio comanda Per
le nostre prove. Questo spiazzo erboso Farà
da palcoscenico. Questa
siepe di biancospino da spogliatoio. E
ora reciteremo proprio come davanti al duca". C'era
un prato tagliato di fresco, percorso da donne di ogni tipo che sfoggivano abiti
strani e seducenti, e da uomini bianchi e afri-cani che interpretavano a piacere
la combinazione maglia pantaloni, in mezzo a un tripudio di zanzare. C'erano
tre grandi statue tribali quasi appoggiate agli alberi del giardino, e la musica
era molto ritmata. Guardai tra i cd impilati sul tavolo, Youssou N'Dour, Cesaria
Evora, Fela Kuti, Papa Wemba e altri di cui fino a quel momento non avevo saputo
nulla. Nel patio della casa due cubane strizzate in jeans e top brillanti, una
delle quali era appunto quella sposata al vecchio magro e rugoso che nel
frattempo curava la loro bambina, ballavano con mosse miracolosamente evocate
dalla musica, e gli altri ne erano attirati e allontanati allo stesso tempo, perché
pareva che nessun ballerino potesse eguagliare il loro virtuosismo. Io
in particolare mi sentivo paralizzata sulla mia sedia. Mi sentivo tragicamente
bianca. E nessuno mi aveva dato direttive per recitare la mia parte. Nonostante
avessi tanta voglia di sciogliermi dentro quel giardino, nella musica. Eschedar
partecipava da protagonista, con entusiasmo, rumorosamente, e pretendeva
che ballassi anch'io, ma ogni mossa che il mio corpo sarebbe riuscito a inventare
non era all'altezza, sarebbe impallidito di fronte alla spontanea e allegra abilità
degli africani. Il ritmo sembrava entrare nei loro nervi e scuoterli, picchiarli
come tamburi, e dentro di me, era inutile, non produceva neanche lontanamente
questo effetto. Ero in grado tutt'al più di spostarmi da un piede all'altro
in un modo che fino a quel momentio era stato il mio modo di ballare, ma che ora,
in mezzo a ballerini a una distanza luna-re da me, non sentivo per nulla convincente.
Il ballo
era connaturato al loro corpo come la parola alla bocca. Facile parlare come facile
muoversi a ritmo. Ballando parlavano di amore e sesso e speranza e felicità.
Avevano imparato da bambini e per noi, dico, ormai è troppo tardi. Eschedar
mi spiegò che il loro ballo si chiama iskista . Consiste nel tenere
a freno le anche e muovere su e giù, avanti indietro, le spalle, come sospinti
da una molla prevista solo dalla loro anatomia. Quando
la luce del tardo pomeriggio cominciò a lasciar spazio all'oscurità
fluorescente del tramonto, si formò un cerchio che si muoveva coerentemente
secondo un'altra modalità di danza, che probabilmente era dell'Africa nera:
di volta in volta due danzatori si staccavano dal gruppo e entravano nel mezzo
del cerchio e inventavano movenze sessuali, intrecciando le gambe e dondolando
il bacino in modo da simulare il coito. Questi uomini e queste donne che nella
vita di ogni giorno facevano i magazzinieri, i facchini, gli uomini delle
pulizie, i trasportatori, i camerieri, perfino i vu' cumprà, per mezzo
della musica si trasforma-vano e diventavano principi e principesse di un mondo
antico, dentro la natura, capaci di gesti dal contenuto primordiale, e io ero
sopraffatta dalla loro superiorità, tanto erano espliciti e nello stesso
tempo eleganti. Mi
sedetti da una parte. Ero stanca anche solo per quel quarto d'ora in cui ci avevo
provato, in mezzo alla musica con loro. E fu a quel punto che, alzando gli occhi
dal gruppo che ancora ballava, mi accorsi di lui. Giocava coi bambini. Solo
più tardi si unì a quelli che ballavano. Doveva
esserci stato anche prima, ma io lo vedevo solo a questo punto. Giocava
coi bambini. Poi li lasciò e raggiunse una coppia di etiopi sulla
pista da ballo e quelli gli fecero spazio. Non era alto e nonostante dal modo
di ballare e dai dread si dichiarasse africano, era tuttavia di
pelle abbastanza chiara. Si era tolto la camicia e stava a torace nudo con
un paio di calzoncini corti, e non avrei potuto dire che era bello, ma la sua
faccia mi colpì, senza che potessi trovare un motivo ragionevole al fenomeno.
Succede che a volte in mezzo a una folla un perfetto sconosciuto diventi
familiare. E te ne accorgi solo perché quando lui manca ti senti all'improvviso
incomprensibilmente sola. "Sui
tuoi occhi a te villano Ecco
verso il succo arcano." Lo
persi di vista un attimo. E provai il sollievo di vederlo tornare. Seduta
in un angolo potevo guardarlo senza che nessuno se ne accorgesse. Parlava e danzava
con Eschedar, sembrava che si conoscessero bene. E infatti a un tratto smisero
tutti e due di partecipare al ballo e vennero dalla mia parte dove alcune sedie
vuote aspettavano di venire occupate. Vi si lasciarono andare apparentemente esausti.
Eschedar rideva per qualcosa che lui aveva detto nella loro lingua, l'amarico.
Eschedar si sedette tra noi due. –
My name is Methat – mi disse lui sporgendosi in avanti e avvicinando
la sua mano alla mia. –
Antonia – sospirai io. –
Methat vuol dire colui che appare all'improvviso – suggerì Eschedar. –
Veramente? – chiesi io, e ripetei ancora – Colui che appare all'improvviso? Lui
annuì: –
Like surprise. I come from Addis Abeba. And you? Are you Eschedar 's friend?
–
Yes, I work with her . La
musica a tutto volume ci impedì di scambiare informazioni più precise.
Era il momento di Bob Marley. –
I prefer African reggae – mi urlò Methat. Ora
naturalmente non potevo più guardarlo perché mi sedeva vicino, ma
tra me e me mi interrogavo su quel viso che venendo da tanto lontano mi sembrava
tanto familiare. Immaginavo che da bambino avesse giocato per strada, vestito
così sommariamente come ora. Le gambe erano magre e i piedi erano chiusi
in sandali grossolani. Quando Eschedar se ne andò in cerca di qualcosa
da bere lui mi prese la mano e le fece carezzare le sue gambe sotto il ginocchio.
Erano piene di punture di zanzara. Rideva. Mi fece cenno di chiedermi se poteva
accarezzare le mie gambe. Feci sì con la testa. –
No mosquitos – disse – your blood is not sweet enough. Restammo
in silenzio. Mi godevo la sensazione di sedergli accanto. Mi prese di nuovo
la mano per trascinarmi a ballare con lui. Muoveva le spalle. Mi sentivo come
una studentessa interrogata che fa scena muta. Ci provai vergognandomi molto.
Eschedar ci raggiunse. Si misero dorso contro dorso a seguire il ritmo. Erano
speciali. Li lasciai per tornare a sedermi. Che lo guardassi o meno, ormai
nella festa per me esisteva solo Methat. Mi fece dispiacere che qualcuno si sedesse
accanto a me. La notte era scesa dolcemente facendo filtrare l'oscurità
dovunque, tra i cespugli e i rari alberelli, nel giardino popolato di gente,
anzi, ombre, e solo il patio era illuminato dalle lampadine. Sembrava che
le ore buie infondessero nuovo vigore a tutti, come se ci fosse un acme da raggiungere,
alla maniera dei fuochi artificiali, prima di decidere che la festa fosse
finita. La
musica incalzava, lasciavo che mi sfinisse. Avevo bevuto un pochettino. Per questo
tutto mi sembrava più facile. Farsi venire un'idea. Se ora dicessi a Eschedar...
Ma fu Eschedar a dire a me, avvicinandosi e sussurrandomi all'orecchio: –
Methat è rimasto solo. Suo cugino è già tornato a casa con
la famiglia. Chiede se lo portiamo indietro noi. Potremmo dormire a casa tua stanotte.
– Certo,
Eschedar, va bene. C'è solo che ho bevuto un po'... –
Possiamo far guidare lui. Acconsentii.
Dunque era così facile. Come di cosa decisa dal-l'alto, destino. Methat
ed Eschedar mi vennero accanto e io lasciai scivolare le chiavi nella mano di
lui. Salutavamo tutti come fossero amici del cuore anche se li avevamo visti per
la prima volta quella sera. Methat prese possesso velocemente prima della mia
auto, poi della mia casa. Anche Eschedar a casa mia sembrava la padrona. Andava
ai fornelli, prendeva le pentole, il riso, cucinava quello che aveva voglia. Methat
prese i bicchieri dalla cucina. Lui e Eschedar avevano portato con sé
una bottiglia che conservava ancora un po' di wiskhy e si misero pazientemente
a consumarne il contenuto sdraiati sul divano della mia sala dove il gatto li
aveva raggiunti. Parlavano amarico. E ridevano continuamente. Il suono delle loro
voci non smise di cullarmi mentre mi addormentavo nel mio letto. La
mattina dopo mi svegliai con Eschedar accanto a me. Il suo corpo rotondo si stagliava
immobile accanto al mio. Dunque aveva riso con Methat, ma non aveva dormito con
lui. Mi stropicciai gli occhi. Nella stanza accanto vidi Methat che dormiva
a pancia in giù sul bordo del divano, nel precario equilibrio dei bambini.
Ora potevo preparare tranquillamente la nostra colazione. L'essere
nuovamente innamorata mi riempì subito di energia, passai da un ufficio
all'altro aspirando tutta la polvere del mondo, strofinando le macchie con acqua
e detersivo. Non so se Eschedar si accorse del mio cambiamento, ma non disse nulla.
Avevo una piccola speranza che al momento risultò infondata. Mi sedetti
a una scrivania e composi il numero di casa. Methat non rispose. Chiaro che
era uscito, cosa avrebbe fatto tutto il giorno prigioniero del mio appartamento?
Mi prese forte la nostalgia. Per un momento ebbi paura di averlo perso. Allora
Eschedar, che aveva capito, disse: –
Lo troveremo da suo cugino. Finsi
di preoccuparmi delle chiavi che gli avevo lasciato. Però poi aggiunsi:
– Potrebbe
raggiungerci a casa, a cena o dopo. –
Va bene – disse lei – ma ricordati che non mangia né cavallo né
maiale. –
Come mai? –
Per via della Bibbia – tagliò corto lei. La
sera alle nove eravamo di nuovo insieme. C'era anche il cugino di Methat,
con i dread in testa come lui. Guardavamo un documentario alla
televisione, vi erano spiagge coralline, acque cristalline, palme e vegetazione
lussureggiante. Methat mi chiese: –
Is Italy that? – sorrisi: –
No, Methat, there is not a place like this in Italy . Il
gatto andava e veniva, facendosi accarezzare e a tratti rintanandosi nei
suoi angoli preferiti. Spesso gli etiopi si mettevano a parlare nella loro lingua
e ridevano, ma non riuscivo a sentirmi esclusa. Era abbastanza che Methat fosse
presente. Questo credo sia il primo segnale dell'amore, che si accontenta semplicemente
che l'altro ci sia. E quando l'altro manca il luogo si svuota e diventa lo
spazio dell'attesa. Arrivò
l'una di notte e gli etiopi erano ancora con me. Il ristorante di fronte
aveva spento le sue luci e così anche il gelataio all'angolo. Methat disse
che sarebbe uscito a fare una passeggiata. Dissi che sarei andata anch'io.
Gli altri due ci salutarono tranquillamente e ripresero le loro confidenze intorno
al tavolo. Fuori c'era un vento tiepido e, siccome le automobili si erano fatte
rare, a momenti l'aria intorno riusciva a profumare, o forse ero io che percepivo
per l'emozione qualcosa che non c'era. E una bella luna rotonda e scintillante
ci seguiva come lo spot di un teatro, camminando sopra i tetti, così
sembravamo protagonisti di qualcosa. E nell'attraversare Methat si avvicinava
a me fino a sfiorarmi e a volte mi toccava il braccio quasi fosse preoccupato
che io proseguissi da sola, senza la sua protezione e vigilanza. Parlammo del
fatto che sarebbe presto partito per andare a trovare i suoi parenti sparsi
in giro per l'Europa. Aveva cinque fratelli, di cui uno gemello che abitava
in Svezia (" But he's elegant, and not with my kind of hair "),
e l'unico a rimanere a casa con i genitori era stato lui. Poi all'improvviso mi
chiese di raccontargli di me. —
Tell me your story — mi disse. Lo
guardai dubbiosa perché non capivo cosa significasse, da dove avrei dovuto
cominciare. My story era qualcosa di piuttosto impegnativo. Allora,
intuendo il perché del mio silenzio disse: —
I mean your love story. Everyone has a love story to tell. Okay, una
love story, la numero sette. —
I was an actress — iniziai — I played Puck in Dream... Of Shakespeare
and I fell in love with an actor, Lisandro. But I was afraid he would have fallen
in love with another actress, Ermia, that had a boyfriend, the actor Demetrio,
so happened that I betrayed Lisandro with Demetrio and when Lisandro knew my betrayal,
he really betrayed me with Ermia. And this is all . Sentii accanto a me che
Methat ridacchiava. —
It's a sad story — protestai. —
Oh yes, it i s — si corresse, ma senza impedirsi un sorrisetto agli angoli
della bocca, e continuò — yes, I'm sorry for you, but now you can meet
someone else better then him. —
The problem is not only to find someone else — aggiunsi in un sospiro
— next time I want to be more serious... And you? — voltai pagina
all'improvviso davanti a un'edicola compattamente chiusa — Have you got a
girlfriend in Etiopia? Accennò
un sì ma rimase in silenzio. Teneva la testa reclinata e i dread gli nascondevano
il viso. —
Tell me about her . Percorremmo
un breve tratto senza parlare. Non c'era nessuno. All'improvviso mi prese per
mano e se l'avvicinò alle labbra e me la baciò: —
She was nice. She was eritrean. When the war began she had to go back in Asmara.
She was called at the army. And now even the family knows anything about her.
—
Oh Methat... — mi fermai, sorpresa che questo uomo all'apparenza sereno nascondesse
un segreto così doloroso, grande, per me del tutto inconsueto, forse incomprensibile.
E all'improvviso smise di essere solo Methat. E divenne l'emblema di un mondo
sconosciuto — Do you think she's dead? — chiesi. —
I don 't know. She was nice. I was always looking for her, but now I can'
t ... — mi strinse la mano nella sua. Gli
alberi di città alti e forti allineavano i loro tronchi neri nel buio della
notte. I semafori lampeggiavano la loro luce gialla. Il mondo intorno a noi giaceva
addormentato. Methat si mise a fissarmi dritto negli occhi. Era un effetto
un po' ipnotico, al quale non ero preparata. —
You are so nice too — mi disse. E poi, tornando a sorridere — Your
eyes are beautiful... And your lips... And your nose... And obviously your ears...
All your face and your body... So I have to ask... Silenzio.
— Si?
— Would
you marry me, dear Antonia? Nel
pronunciare questa pazzesca dichiarazione, senza smettere di tenermi gli occhi
addosso, si fermò davanti alla saracinesca chiusa di un meccanico. Accennò
a baciarmi sulle guance, ma nel passare da una guancia all'altra la bocca gli
si fermò sulla mia, mi si strinse addosso, mi appoggiò alla saracinesca,
si adattò al mio corpo. Ci fu la brutalità del suo sesso contro
il mio. La mia mano che lui aveva condotto giù in basso ritornò
al suo posto chiusa in un pugno. E invece gli affondai le dita nei capelli.
Ma subito dopo aver risposto al suo bacio lo allontanai col palmo delle mani contro
il suo petto: –
Wait Methat, please ... Allora
mi mordicchiò le labbra contrariato e si staccò da me. –
Can we make love tonight? – chiese. Ci
baciammo ancora. La sua determinazione mi metteva un po' di paura. Le sue braccia
da sole sarebbero bastate a immobilizzare il mio corpo. E nello stesso tempo
mi sentivo come brilla. –
We can 't make love – dissi tuttavia, nel modo più deciso che
riuscii a mettere in scena. Ci
fu silenzio. Poi: –
Why not? Non
riuscivo a compattare una frase in inglese per rispondergli. –
You mean the condom? – chiese ancora. E allora dissi: –
I mean... I want... Be sure... You really love me... Before... – mi
pareva di non essere me. Riprendemmo
a camminare nel buio tenendoci allacciati. Ci baciammo ancora. Poi
Methat salì a casa a raccogliere suo cugino e Eschedar che ciondolavano
sul divano, gli occhi fissi davanti a sé, apparentemente presi da un insulso
programma della televisione, con in mano due bicchieri vuoti. E se ne andarono
tutti via, lasciandomi sola. Telefonava
da Ginevra, da Parigi, da Stoccolma... –
Remember, I want marry you. Have you bought your ticket to Addis Abeba?
Sentivo la sua mancanza. Sentivo nello stesso tempo la enormità di quello
che stavo facendo. E se da una parte mi spaventava, dall'altra mi sembrava un'occasione
per una vita finalmente avventurosa. –
Ma Eschedar, così all'improvviso... –
Noi viviamo mediamente meno di voi, perciò facciamo in fretta – rise
Eschedar. –
Ma come fa a sapere che gli piaccio? –
Da noi esistono i matrimoni combinati. E così vedi da un momento all'altro
la donna, o l'uomo, che ti sono destinati per sempre – disse Eschedar. Ritirai
quasi tutti i soldi dalla banca e comprai il biglietto, pensando che questo
era il giusto modo di procedere, conoscere tutto di lui, la sua famiglia, i suoi
luoghi, la sua storia e il suo pensiero, come nella matematica che è
una scienza esatta, e prima viene l'uno e poi il due, senza far confusione, ed
ero fiera della mia nuova ragionevolezza, anche se a volte non mi sentivo esente
da preoccupazione. Ad
esempio un giorno, mentre pulivamo un ufficio, mostrai a Eschedar un articolo
del giornale su una strana storia avvenuta a Sharm El Sheik, sul mar Rosso. Una
ragazza italiana ci era andata in vacanza e si era innamorata di un ragazzo egiziano
che faceva il cameriere. La loro storia durava da tre anni, con lei che volava
da lui appena poteva e lui che non riusciva mai ad andare a trovare lei perché
non gli davano il visto. Finché avevano deciso di sposarsi. Era l'unico
modo per riuscire ad aprirgli le porte dell'Italia. La ragazza italiana aveva
preparato in Italia i documenti necessari e li aveva portati con sé al
Cairo, dove, prima di sposarsi, aveva fatto la conoscenza di tutta la famiglia
del ragazzo. Ma all'ambasciata si erano accorti che i documenti non bastavano.
Ce ne volevano altri. Dopo questo shock il ragazzo egiziano aveva
avuto un crollo nervoso. E aveva chiuso a chiave nella sua stanza la ragazza italiana.
Ma la dimostrazione che era fuori di sé e che sragionava viene dal fatto
che le aveva lasciato il telefonino, col quale la ragazza aveva chiamato casa.
Nello stesso tempo il padre e la madre del ragazzo lo avevano fatto riflettere
sulla sua pazzia. E lui si era lasciato convincere a liberarla. Il fratello
di lei era volato al Cairo per riprendersela... –
È solo una storia – disse Eschedar – chi racconta tutte quelle, così
tante, che finiscono bene? Tu li hai conosciuti, bianchi e nere, neri e bianche,
tra i nostri amici ci sono un sacco di coppie felici e, se non un sacco,
almeno quanto quelle di bianchi. Un altro giorno le chiesi di parlarmi della guerra
civile che aveva inghiottito la fidanzata di Methat. Se la sentiva? Eschedar esordì:
– Nessuno
di noi ha voglia di parlarne. Dopodiché
spense l'aspirapolvere e divenne sorprendentemente esauriente come un conferenziere.
– Se
lo vuoi sapere... I primi guerriglieri che si sono organizzati sono stati eritrei,
già al tempo dell'imperatore Hailè Salassiè, per ottenere
l'indipendenza. Ma quando nel '74 è arrivato Menghistu si sono formati
anche gruppi di guerriglieri etiopi di diverse etnie, i tigrini, gli oromo, gli
amara... I tigrini e gli eritrei erano i ribelli più forti, e per qualche
anno hanno combattuto insieme, fianco a fianco. Poi con il declino dell'Unione
Sovietica che appoggiava Menghistu la dittatura è diventata debole, ed
è stata battuta. I ribelli hanno deciso di fare dell'Etiopia una repubblica
federale, con a turno presidenti delle diverse etnie. I tigrini sono andati al
governo per primi. Gli eritrei nel '93 hanno fatto un referendum per decidere
se volevano partecipare alla federazione o formare una propria repubblica
e quest'ultima posizione, favorevole all'indipendenza, fu quella che vinse.
A quel punto gli eritrei mandarono via gli etiopi. Tuttavia per sette anni i due
presidenti, quello dell'Etiopia Melles Zenaui, e quello eritreo Isaias Afeworki,
sono stati in pace. Tra l'altro erano cugini per parte di madre. L'Etiopia mandava
il grano all'Eritrea e l'Eritrea lasciava che gli etiopi usassero liberamente
il loro porto di Assab. Ma a un certo punto l'etnia degli Oromo, che è
la più numerosa dell'Etiopia, fece pressione sui tigrini in modo che gli
Etiopi si decidessero a mandare via gli eritrei che vivevano in Etiopia. In risposta
l'Eritrea ha cambiato la propria moneta: fino a quel momento avevano usato il
birr, come gli Etiopi, ma da quel momento usano il nafka, e fanno pagare salati
dazi doganali per il porto di Assab. Così scoppia la guerra ferocissima,
durata qualche mese, ma di una ferocia che non ti puoi immaginare. Sai che mi
ha confidato Methat? Che ha visto morti uno sull'altro nel campo di battaglia
come spaghetti in un piatto di pastasciutta. Per questo forse vuole venire via.
Ora dov'è? –
L'ultima volta, ieri, mi ha chiamato da Stoccolma, era dal suo fratello gemello.
Lo conosci? –
Si certo, è come Methat ma veste elegante e non porta i dread .
A Stoccolma c'è la sua fidanzata. –
Come si chiama? –
Si chiama Milli, Million, che vuol dire milione. È un nome portafortuna.
– Dopo
la Svezia Methat torna in Etiopia. Mi ha promesso che ci incontreremo all'aeroporto,
mi verrà a prendere ad Addis Abeba. E
poiché avevamo già perso abbastanza tempo, io ed Eschedar ricominciammo
in silenzio a darci da fare con le pulizie. "In
passato, quando gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per nave, il
viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. I panorami scorrevano
con lentezza, la scena del mondo
si spostava di poco alla volta. Un viaggio durava settimane, mesi... Oggi di questa
gradualità non resta più niente. L'aereo ci strappa bruscamente
alla neve e al gelo e il giorno stesso ci scaraventa nell'abisso ardente dei tropici".
Misi
un segnalibro e chiusi Ebano, di Ryszard Kapuscinski, un reporter polacco che
viaggiava come sarebbe piaciuto a me, tra la gente comune. Il giorno dopo sarei
partita e mi sarei incontrata con Methat all'aeroporto di Addis Abeba. E
sarei stata scaraventata con lui in Etiopia. Avevo letto e riletto la Lonely
planet , ma l'Etiopia mi risultava tuttora sconosciuta come uno dei
più lontani pianeti dell'universo. Le guide mentono sempre. Mettiamo
che sei davanti a un paesaggio incantevole, ma hai le vesciche ai piedi per
quanto hai camminato e quindi non te lo godi per niente, e al contrario in un
luogo senza particolari attrattive lui ti dà un bacio diverso da tutti
i baci che hai sperimentato nella vita, e così quel luogo acquista una
magia ineguagliabile. Mi
affidai alla mia fantasia, alla capacità di inventarmi scenari improbabili,
che è il mio unico modo di sopravvivere. Il fantasma di Methat era
sdraiato nel letto accanto a me e mi accarezzava la pelle nuda con la stessa
delicatezza con cui io accarezzo il mio gatto. Mi
accucciai contro di lui e lo pregai: –
Methat, dimmi qualcosa di bello. Nel
mio sogno Methat mi rispose in uno strano italiano, quello che uno straniero usa
dopo qualche tempo che sta nella nuova terra ospitante. –
Bello? – chiese. –
Di te e del tuo paese. –
Io bambino in Addis Abeba. In strada, correre, giocare alla guerra con amici,
piccolo amici. Grandi amici poi è morto qualcuno in guerra vera. Visto
cadaveri, battaglia di Tigrè...No bello, no,
questo terribile. Basta raccontare guerra, dentro me è... Cancellato.
Io bambino era felice. Mia grande città. Mia famiglia – e dopo una pausa
– io continuo, ma tu prima devi baciare. Baciai castamente Methat sulla fronte
e ridemmo insieme. –
Come sono le strade di Addis Abeba? – chiesi. –
Tanta gente, confusione. Ma io tengo tua mano. Non pericoloso. Tu è sicura
con me. Grandi alberghi, palazzi... Fascista? E capanne e macchine e taxi, e bus
e asini e capre su marciapiede. –
Mi piace già. Vorrei andare in un mercato, ma davvero dovresti starmi
vicino, perché mi piace girare senza dover controllare dove sono. Nei posti
che mi prendono di più sono capace di andare in estasi, sai? Perdo
il senso del tempo... –
Cosa estasi? –
Oh non importa. Raccontami... –
Mercato Addis Paterna, the biggest market di Africa orientale. –
Com'è? –
Odore... Pepe...roncino, altri... –
Vuoi dire le spezie? –
Spezie sì. E colori. Stoffe. Vieni qui. Spogliati, io non riesce a te spogliare...
– Non
ci riesci perché io non voglio. Ma dopo lo vorrò anch'io. Dimmi
ancora cosa farei al mercato. –
Banchi... Bancarelle di latte d'olio e gomme cambiate... –
Riciclate vuoi dire... –
Io e te camminiamo. Andiamo a museo di Lucy, scheletro più antico in
the world . Scoperto in lago in millenovecentosettanta. Tre milioni di anni.
Metà donna metà scimmia. Come te, ah ah. Si chiama così per
canzone Lucy in the sky with diamonds . –
La canzone dei Beatles. –
Ora baciami. –
Sì, te lo sei meritato. –
Mio paese bellissimo, dicono "culla di civiltà". –
Però quest'anno ho sentito che in qualche zona c'è carestia... –
Carestia, che vuoi dire? Subito
dopo disse che voleva condurmi a Lalibela, una delle meraviglie del mondo, con
le cattedrali scolpite nella montagna. E non accennò neppure al fatto che
erano abitate da poveri che inseguivano i turisti per chiedere loro denaro. Non
mi disse nulla del fatto che il suo paese fosse uno dei dieci più poveri
del pianeta, perché gli aiuti internazionali venivano trattenuti tra
le maglie della burocrazia statale, mancava l'acqua per gli allevamenti, il crollo
del prezzo del caffè aveva costretto migliaia di persone a emigrare, c'era
stata la guerra... Invece: –
Sentito mai regno di Axum? – disse. E raccontò – Negus, nostri re, vengono
da nostra regina di Saba e re Salomone. Regina va in Israele e Salomone innamora.
Lei torna ad Axum e ha figlio, Menelik. Menelik cresce e torna in Israele e porta
via Arca Santa con tavole di legge di Mosè. Etiopia piena di miniere di
oro. Carovane per tanti paesi. Mio popolo di nomadi, cambiavano accampamenti.
Pastori. Commercianti. –
Tu fai commercio, ma di che cosa? –
Quello che c'è necessità. Vestiti, cibo... Cosa chiede mercato.
In Italia ho cercato automobili usate, ma costose. Io e te in aereo o pullman.
O preferire auto? Noi va da Arborè che coltiva banane e caffè,
bambini fa spaventapasseri vivi. Donne Hamer coperte di gioielli di conchiglie.
Galeb ha capelli con cenere e ocra e vestiti di penne di struzzo. Konso più
bravi agricoltori. Villaggi molto belli. Entri per una porta stretta, tunnel di
tronchi di alberi. Quando il sole scende suonare flauti e tamburi... In
realtà piano piano questo racconto inventato mi portava verso il sonno
e cominciavo a sbadigliare. –
Dove andremmo se fossimo stanchi? –
A New Filwoha Hotel dove acque calde e massaggi. Vuole un massaggio ora? Io bravo.
– Oh
Methat ho letto che l'Etiopia ha perso tanti animali che si sono estinti ma è
rimasto il paradiso degli uccelli – socchiusi gli occhi e mi preparai ad addormentarmi.
– Trampolieri,
cicogne, aironi, pellicani, fenicotteri, falchi, otarde... –
Methat – chiesi – hai mai visto volare gli storni? Volano tutti insieme a creare
nuvole scure nel cielo, che cambiano forma continuamente in mezzo all'azzurro.
Formano queste composizioni perfette senza mai sbagliarsi, senza scontrarsi, però
sono migliaia, in ammirevole armonia, in un equilibrio magico, inspiegabile.
Io penso che il volo degli storni sia la descrizione del paradiso, quando
noi tutti avremo imparato a stare insieme, e ci ritroveremo in modo armonioso
e danzeremo nell'aria e ci vorremo bene senza fraintendimenti e fatica. Lui
disse: –
Cominciamo noi due a volare. Vuoi? –
Sì, ora sì – dissi io, e così dicendo, tirato il lenzuolo
sul mento, felice e contenta mi addormentai. OTTAVO
UOMO Ho
aperto per l'ennesima volta la scatola da scarpe. Sul foglietto numero otto
non avevo molto da scrivere. Ma il numero otto in ogni caso aveva preso forma:
non so nulla di Methat. È un foglio bianco, è una grande speranza.
Come dice Shakespeare: "E
al tuo risveglio proverai
gran piacere nel
rivedere gli occhi del tuo primo amore. E
quel che si dice in campagna: `A
ognuno tocca ciò che gli si deve' sarà
vero al tuo risveglio. Gianna avrà il suo Giannino e
niente andrà male o peggio. Chi l'ha persa riavrà la cavalla ogni
cosa si risistemerà". L'aereo
rollò sulla pista. Dopo vasti cieli di nubi di panna bianca ero finalmente
arrivata. Con gli altri passeggeri ci incamminammo verso le sale dell'aeroporto.
Mi guardai intorno tra la folla in attesa dei viaggiatori. Methat non c'era. Tante
facce diverse, decine che sembravano centinaia tanto mi sembravano estranee,
mancava proprio la sua. Mi guardai intorno ancora. E all'improvviso eccolo! Methat
c'era! Ma
era strano. Un uomo strano. Una bella faccia grande, con i lineamenti marcati
come quelli di una maschera. Occhi intensi. Naso forte. Bocca grande e ben disegnata.
Ma com'è cambiato, com'è diverso. Si è tagliato i dread
e indossa una camicia bianca e pantaloni grigi. Mi vede ma non mi viene
incontro. Allora mi avvicino: –
Methat? – oso sussurrare interrogativamente. Sfodera un timido sorriso e sussurra
lui pure: –
No, I'm Million, Methat 's brother. Non
Methat! Million! Il gemello! Quanto
tempo passa prima che riusciamo ambedue a prendere fiato... Poi
mi dice: –
It's a long story. Methat and my girlfriend in Sweden... I'm going to explain
everything... So I went to Etiopia to meet you... Methat is right, you are really
nice... Tutto a posto? Lets go home, eat something and I'll explain... Seguii
esterrefatta la controfigura di Methat che trasportava con sé la mia valigia
e tutte le domande e mi faceva strada verso l'uscita e la sua auto. Il cielo
era così azzurro, l'aria talmente calda.
(Racconto tratto da Italia ama, Edizioni dell'Arco, Milano, 2007.)
Francesca
Grazzini,
che qualcuno ha definito "giornartista", è redattrice del settimanale
Gioia e si dedica alle arti realizzando opere in legno, lavori su tessuto, illustrazioni
e tele che espone in diverse gallerie a Milano, Roma e Napoli.
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