IN ATTESA Svetlana
Araki
15 ottobre 2006
Stanotte
ti ho sognato. È la prima volta da quando sei partito, tanto che credevo
fosse una specie di sogno premonitore. Arrivavo in fabbrica e tu eri là,
dietro la tua macchina, che mi sorridevi. E nel giro di un istante il mio cuore
faceva due capriole e mi finiva in gola, ma il mio viso, a parte un gran sorriso
e un "bentornato", non tradiva emozione. Ero felice di vederti finalmente
in Italia e arrabbiata perché non mi avevi avvisato del tuo arrivo. Quando
mi sono svegliata ho creduto veramente che ti avrei trovato al lavoro stamattina.
E non ho potuto evitare un po' di delusione quando sono arrivata e tu non c'eri. Tornerai?
Quando? Tutti gli anni la stessa storia. Vivo una vita a metà. Per dieci
mesi è completa, poi per gli altri due è azzerata. Ogni settembre
arriva l'orribile giorno in cui mi dici: - Tra un paio di settimane torno a
casa. È una doccia fredda, mi si ghiaccia il sangue. Perché è
un film che ho già visto, che mi fa stare male da morire. Perché
tu "a casa" hai un'altra famiglia, un'altra donna, tua moglie... La
vita che vivi con "lei", per quegli unici due mesi l'anno, è
completamente opposta a quella che vivi con me, qui. Con lei parli la tua lingua,
con lei mangi i frutti della tua terra, con lei conduci una giornata non stressante
tra i giochi con i bambini e le visite ai parenti che non vedi da un anno. Con
me tutto questo è un sogno, mangiamo surgelati quando va bene e lavoriamo
come due schiavi dieci ore al giorno per pagare le bollette a fine mese. Usciamo
insieme spesso, e passiamo serate a parlare che finiscono inevitabilmente sul
divano del tuo monolocale o la mattina dopo a casa mia. Non possiamo permetterci
di andare spesso fuori a cena, nessuno di noi due beve quindi non ha senso andare
per locali. No, noi passiamo il tempo a chiacchierare, il dove non importa. Facciamo
progetti, facciamo sogni che non diventeranno mai realtà. Una casa nostra,
cene con amici, vacanze in posti esotici, magari figli. Ma abbiamo due stipendi,
bassi, e metà del tuo vola per l'Africa tutti i mesi. Però bastiamo
a noi stessi, siamo felici ed è questo che conta. Finché non
arriva settembre... Una delle tue vite non può esistere senza l'altra,
per te sono complementari e necessarie. Per stare bene con te stesso e con me
devi prenderti questi due mesi di stacco e respirare. Anche se non ti rendi conto
che togli l'aria a me. Poi però qui ci torni sempre, non puoi stare senza
di me, perché io sono la tua donna bianca, la tua toubab, il sogno
di ogni africano, il trofeo di uomo realizzato da esibire con gli amici, e io
non riesco a capire se stai con me per questo o perché mi ami sul serio.
Non ci penso, perché se ci pensassi davvero non vivrei. So che mi ami,
anche se all'inizio non ci credevo, me lo dicevi così spesso! Però
a modo tuo mi ami, come può amare un africano. Non che gli africani amino
con meno intensità degli italiani, è semplicemente un modo diverso.
Ho imparato a conoscere questo modo con il tempo, mi sono arrabbiata per certe
cose all'inizio, che poi ho accettato. Che tu mi hai aiutato ad accettare, con
pazienza e affetto. È difficile convincere la donna italiana media che
se anche non la chiami tutti i giorni le vuoi bene lo stesso... È difficile
convincerla che forse non è il caso che partecipi agli incontri di preghiera
con i tuoi amici... È difficile convincerla che non si può mai andare
via per il fine settimana perché devi mandare i soldi in Africa, che devi
lavorare tutta l'estate per accumulare i giorni di ferie necessari per tornare
a casa. Nessuno in fabbrica sa che stiamo insieme. Il perché non me
lo ricordo più. I motivi del nostro segreto iniziale, ironia, disapprovazione,
mi sembrano superati, ma ormai stiamo bene così, tra un bacio rubato quando
non ci vede nessuno e un sorriso malizioso che sappiamo interpretare solo noi. Noi
non abbiamo figli, e nemmeno con "lei" hai figli. E quando sei da "lei"
io prego che non rimanga incinta, perché allora potrei non vederti più
tornare. Il tuo "torno a casa" potrebbe diventare definitivo. Vorrei
che la lasciassi, e che stessi sempre qui con me, ma so che non sarebbe giusto,
e mi sento in colpa per questo pensiero egoistico. Vorrei che mi sposassi,
ma non puoi farlo perché sei già sposato con lei. Allora vorrei
che divorziassi da lei, sposassi me, e poi se proprio è necessario risposassi
lei in modo che in Italia risulti io tua moglie e a casa tua entrambe. Ma poi
io diventerei la prima moglie, e non ho il diritto di chiederti questo. Perché
la seconda moglie deve rispettare la prima. Potremmo sposarci in Africa e poi
rientrare in Italia da coniugi, in modo da aggirare la legge italiana che vieta
la poligamia. Peccato che in Africa io non ci sia mai stata. Nonostante la mia
voglia di andarci e nonostante le tue promesse, non ci sono mai stata. Ogni anno
mi dici "l'anno prossimo vieni con me" e poi puntualmente al momento
di partire la cosa non è possibile. Quando ti deciderai a raccontare a
tua moglie di me? Perché il vero motivo è questo, nonostante tu
ti inventi ogni volta qualcosa di diverso. 23
ottobre 2006
Quest'anno
le cose sono cambiate; tu sei partito e io ho scoperto di essere incinta. Non
ho mai avuto un ciclo regolare, quindi all'inizio non ci ho pensato, anche perché
siamo sempre stati abbastanza attenti. Al terzo mese in cui ho "saltato"
mi è venuto il sospetto e ho controllato. Tu non lo sai, quindi continui
in questo gioco al massacro di fare il prezioso e sparire per giorni "perché
hai da fare" o "perché credi che sia facile chiamare in Italia?"
Anche quest'anno non fa eccezione. Mi chiami poco, e le telefonate sono sempre
brevi, insoddisfacenti. Appendo la cornetta con la sensazione che ci siano cose
non dette. Come ieri. Mi hai chiamato dicendomi che stavi fuori casa per una settimana
perché accompagnavi un amico all'interno del paese con un camion a prendere
del materiale edilizio per la sua azienda. Ti sei creato l'alibi per sparire ancora
per giorni. E ti ho salutato con una stretta al cuore. Perché adesso c'è
veramente qualcosa che ti devo dire, un non detto molto importante, che starà
qui dentro di me finché non torni. Una volta ci era già successo,
di credere di poter aver concepito un figlio. All'epoca non eravamo assolutamente
pronti, ti ricordi? Quando ci si è rotta la protezione io ho avuto una
specie di reazione isterica che ha stupito soprattutto me. Nella settimana successiva
tu mi hai dimostrato chiaramente che se fossi stata incinta non ti sarebbe dispiaciuto
affatto, anzi, e io mi sono chiesta se non fossi matto. Stavamo insieme da pochi
mesi, mi sembrava decisamente prematuro. Poi così non è stato, e
quando te l'ho detto quasi ci sei rimasto male, ti stavi abituando all'idea. Ti
ho visto spesso con i figli degli amici, sei nato per fare il papà, impazzirai
dalla gioia quando ti dirò che ora ci siamo, che finalmente potrai inondare
d'amore una piccola vita, una tua piccola vita. Certo, sempre che tu ti muova
a tornare, altrimenti se fai passare ancora un po' di tempo non dovrò dirti
niente e te ne accorgerai da solo. E mentre sono sdraiata su questo lettino,
mentre guardo le prime immagini del nostro bambino che tu ti stai perdendo, penso
a noi e ricordo. Penso a come eravamo all'inizio, ai miei dubbi, alle tue pressioni
e a come ogni cosa, alla fine, mi abbia portata qui, verso il compiersi del mio,
del nostro destino. 29
ottobre 2006
Sto
cercando di capire quando è iniziato tutto. Quando ci siamo accorti che
avrebbe potuto esserci dell'interesse? Una volta te l'ho chiesto, ma tu hai glissato
sull'argomento. Mi hai detto di avermi guardato con occhi diversi quando mi hai
sentito parlare con un nostro collega di poligamia e del fatto che spesso gli
africani in Italia cercano una seconda moglie. Io facevo quella di larghe vedute,
dicevo che è un concetto che magari non condivido appieno, ma che posso
concepire. Che non sapevo come mi sarei comportata all'interno di una situazione,
ma che per lo meno ci avrei potuto pensare. Che stupida... Cosa credevo di dimostrare?
Ora che mi ci trovo mi rendo conto che è molto più difficile di
quanto immaginassi. Ma tu sei la mia anima gemella, la mia metà della
mela come ti ripeto sempre: ma petite pomme. Io mi ricordo esattamente il momento
in cui ho capito che saremmo stati insieme, prima o poi, per sempre. Ci hanno
mandato a un'orribile fiera di settore per stare nello stand della fabbrica a
dimostrare il funzionamento di un macchinario e abbiamo passato la giornata insieme.
La nostra prima, lunga e intensa chiacchierata. La prima di una serie. Stavo così
bene, ero così a mio agio. Quel giorno ho anche scoperto che eri sposato,
non lo sapevo e, mentre mi convincevo che potevi potenzialmente essere l'uomo
della mia vita, si ingigantiva nella mia mente il principale ostacolo alla nostra
felicità. E di questa contrapposizione non mi sono ancora liberata oggi,
dopo anni. E sì che fisicamente non sei proprio il mio tipo; di solito
mi piacciono gli uomini molto alti e slanciati, e non disdegno i biondi. Tu ovviamente
non sei biondo, e nemmeno molto alto; ma hai uno sguardo che mi ha conquistata. Da
quella volta ci hanno sempre mandato insieme alla fiera, e nonostante nessuno
dei due lo amasse particolarmente, abbiamo sempre passato delle fantastiche giornate,
perché eravamo soli e liberi. Tra due mesi ci sarà ancora la fiera,
il capo reparto mi ha già detto di prepararmi perché ci saremmo
tornati. Me lo aspettavo. La mia pancia però inizierà tra poco a
vedersi e dovrò dirlo a tutti. Vorrei tanto che tu fossi qui quando lo
farò. Diventeremo ufficiali. Anche tu meriti tutte le congratulazioni che
ci saranno. Non lasciarmi sola ancora a lungo. 5
novembre 2006
La
prima volta che siamo usciti insieme era la vigilia di Natale. Dopo due settimane
di pressioni ho dovuto per forza dirti di sì. Mi venivi vicino al lavoro
e mi chiedevi quali caratteristiche dovesse avere un uomo per piacermi. Poi mi
chiedevi di uscire con te e io ogni volta cercavo di inventarmi una qualche scusa
per dirti di no. Che poi alla fine la verità era molto più semplice;
non mi sembrava il caso di uscire con un collega, per di più africano e
sposato. Il 23 dicembre mi hai chiesto di vederci il giorno dopo. A me sembrava
che quella volta la scusa delle 13 persone a cena a casa mia e del dover aiutare
mia mamma a preparare per tutti potesse reggere bene, invece mi hai spiazzato
con un: - Beh, a mezzogiorno dovrai pur mangiare qualcosa... Mangiamo insieme? Che
poi, conoscendo le cene della vigilia di Natale della mia famiglia, avresti capito
benissimo che mangiare a mezzogiorno non è proprio una necessità.
Ma al momento ho preferito sorvolare. Così alla fine ho detto di sì. Io
ero imbarazzatissima, non so nemmeno il perché. Ci siamo dati appuntamento
davanti alla fabbrica e siamo andati in un bar lì vicino. Hai ordinato
quello che ho ordinato io, una piadina alle verdure. Non mangio mai piadina alle
verdure, ma mi sembrava poco carino essere a pranzo con te e ordinare qualcosa
al prosciutto, mi sarei sentita "impura" ai tuoi occhi. Non ne sapevo
niente di Mouridismo, sapevo solo che era simile all'Islam, e che non si poteva
mangiare maiale. Così, per evitare di offendere in qualche modo la tua
religione, ho mangiato verdure. Tu sei partito sparato con una dichiarazione in
piena regola, spiazzandomi un pochino. Io ho iniziato a elencare i vari motivi
per cui non avremmo potuto stare insieme: il lavoro comune, la moglie, le difficoltà
culturali. È andata bene quel giorno, tu hai capito che io non ero ancora
pronta e mi hai proposto la tua amicizia, pregandomi però di pensarci. Così
abbiamo iniziato a uscire insieme ogni tanto, senza aspettative o secondi fini.
Non che la cosa avesse un gran senso in realtà, però è andata
bene così, per un po'. 12
novembre 2006
Ieri
seratona con le mie donnine. Per il suo compleanno Federica ha organizzato di
andare a ballare. Le ho riunite tutte e a fine serata ho annunciato che diventeranno
zie tra cinque mesi. Loro sanno della nostra storia, lo sanno da subito. Hanno
sempre vissuto con me tutti i patimenti e le gioie. Hanno sempre cercato di capire,
di capirci, anche se non so quanto realmente ci siano riuscite. Certo, nessuna
sospettava niente. Per ora il mio pancino sembra solo un appesantimento, sono
abituate alle mie continue oscillazioni di peso. Sono rimaste sconvolte al momento,
ma sono bastati pochi minuti e alla fine erano tutte eccitatissime. I primi
tempi siamo stati a ballare un paio di volte. Non so come hai fatto, ma una sera
mi hai convinta ad andare al Matisse. Quando io facevo le scuole medie, era un
luogo super pericoloso aperto per i ragazzini la domenica pomeriggio. Adesso pare
sia un covo di africani, soprattutto il venerdì perché si entra
gratis. Al Matisse, una volta superato lo choc di essere l'unica donna bianca
sotto i trenta in un marasma di omaccioni tutti neri, cercavo di evitare sguardi
e disagio e di "confondermi" nella massa. Certo che la cascata di capelli
biondi sciolti sulle spalle, l'altezza abbondante aiutata dai tacchi, e la canottierina
verde acido quasi fosforescente che indossavo non mi aiutavano molto. Mi sono
messa tranquilla chiedendomi di che cosa mai avremmo parlato o che cosa avremmo
fatto in questo posto e mi sono accomodata su un divanetto, con te di fronte. Sembravi
essere diventato timido, mi rivolgevi appena la parola, e nemmeno io sapevo di
cosa parlarti. Esauriti gli argomenti standard su come era andata la giornata
e qualche pettegolezzo sui colleghi non ci rimanevano molti argomenti di conversazione.
Eppure non abbiamo mai avuto problemi di conversazione! Certo, quello è
stato un primo appuntamento in piena regola, probabilmente il motivo era questo.
Allora abbiamo cercato di rompere il ghiaccio ballando. Io mi sentivo una vera
idiota, non avevo nel sangue quella musica così particolare. A parte quel
po' di hip hop che conoscevo e che cercavo di ballare sculettando, quando partiva
qualche pezzo "locale", di cui provvedevi a comunicarmi provenienza
e anno, lì sì che non sapevo davvero da che parte cominciare. Tutti
voi vi agitavate incredibilmente muovendo braccia e ginocchia a un ritmo forsennato
che nessun bianco sarebbe stato in grado di tenere. Certo che siete davvero belli,
tutti uguali e a tempo! Poi a un certo punto è partito un lento, o qualcosa
del genere. Magari è stata una mia impressione, magari è stato tutto
frutto del luogo comune sul fatto che ai neri piacciono le bionde e le donne in
carne, come me, ma mi sono sentita addosso una marea di occhi neri che mi si spogliavano
con gli occhi. In ogni caso non sono stati pochi quelli che mi hanno chiesto di
ballare, nonostante la mia incapacità e nonostante io fossi lì evidentemente
accompagnata. Accetta un ballo e ti ritrovi stretta in un abbraccio che non lascia
dubbi sulle intenzioni. Poi in realtà non ti fanno niente, è solo
un diverso concetto di ballo. Ho rifiutato gentilmente tutte le proposte e ho
ballato solo con te, ma ho preteso che tenessi a posto le mani. La seconda
volta è andata un po' meglio: latino americano. Ho fatto una battuta
con altri colleghi in una pausa caffè sul fatto che mi piace ballare latino
ma non so mai con chi andare. Così mi hai stressato per dieci giorni per
andarci insieme. Ho cercato di assicurarmi che fossi in grado di ballare salsa
e merengue, ma mi hai sempre liquidato con il fatto che sei africano, che hai
il ritmo nel sangue e che sai quindi ballare qualsiasi cosa. Io non sono brava
a ballare latino, se anche il mio partner non lo è non andiamo molto lontano.
Comunque mi sono fidata... Ho recuperato un'amica e tu dei tuoi amici, e siamo
usciti in cinque o sei. Ovviamente tu non avevi la minima idea di come si ballassero
salsa e merengue ed è stato tutto un pestamento di piedi e testate reciproche
per controllarli. Ma quanto eri carino nel cercare di farmi ballare. Si vedeva
che non te ne fregava assolutamente nulla di quel posto e di quella musica, ma
eri con me e questo bastava. Il fatto che fossimo imbranati totali ci ha anche
permesso di farci quattro risate e stemperare la tensione. Che comunque rimaneva
alta. È pazzesco quanto si stia in tensione nelle uscite in cui ti aspetti
qualcosa, ma non sai se lo vuoi, e poi non succede. 19
novembre 2006
Questo
pomeriggio sono uscita a fare una passeggiata con la mia mamma. Siamo andate a
Lecco, sul lago. È pazzesco: da quando sa che sono incinta, ogni domenica,
nonostante il freddo, mi trascina in una serie di posti a suo dire "naturali"
per farmi respirare aria buona che fa bene al bambino. Sul lungolago osservavo
le famiglie e le coppiette che passeggiavano. Un miscuglio di colori e di età:
dalla coppia di anziani che contempla il panorama seduta su una panchina alla
vociante famiglia sudamericana con tre bambini uno più paffuto dell'altro.
Molti ragazzini particolarmente affettuosi con i loro partner. Poi ho visto una
coppia che potevamo essere noi, ma al contrario. Un ragazzo italiano con una ragazza
africana. Non riuscivo a capire da dove venisse: poteva essere senegalese, o nigeriana,
o ghanese. Non sono ancora in grado di distinguere la nazionalità dall'aspetto.
Si tenevano per mano, erano molto teneri. Tu non mi tieni quasi mai per mano.
Questo perché da te non si usa, è considerato sconveniente esibire
dimostrazioni d'affetto in pubblico. Sono cose che si limitano all'intimità.
Anch'io non sono un tipo particolarmente estroverso in situazioni pubbliche, però
diciamo che ogni tanto mi piacerebbe ricevere un gesto d'affetto da parte tua,
anche in casi in cui qualcuno possa vederci. In fondo, quei due ragazzi non facevano
niente di male, stavano solo mano nella mano. Noi ci siamo messi insieme a
cavallo di uno dei tuoi periodi "a casa". Non so nemmeno io perché
quella sera prima che tu partissi mi sono lasciata baciare. Ero così confusa,
lo volevo e non lo volevo nello stesso tempo, lo volevo con il cuore e non lo
volevo con il cervello. Ovviamente alla fine, come sempre, ha vinto il cuore.
In macchina, sotto casa mia, nella più classica delle situazioni, ti ho
permesso di superare la distanza minima tra i nostri volti sotto la quale è
automatico poi baciarsi. E mi sono lasciata andare. Al momento non ho pensato
ad altro, ho pensato che in fondo quello era esattamente ciò che volevo
da mesi e che non sarebbe successo niente di strano. I primi giorni è
stato bellissimo, eravamo così carini, un po' imbarazzati. Peccato che
una settimana dopo tu sia partito per "casa". La nostra storia era così
fragile, era passato così poco tempo. Non so nemmeno se fosse corretto
definirla storia. Ero sicura che al tuo ritorno si sarebbe rotta. Non sopportavo
i tuoi silenzi, la monotonia delle giornate tutte uguali. In realtà non
ero neanche molto convinta di te, di noi. All'inizio mi dicevo: "Beh, vediamo
di non chiudere gli occhi alla vita: continuerò a guardarmi intorno e non
mi precluderò eventuali altri incontri". Poi le settimane passavano,
nessun incontro si rivelava mai abbastanza interessante da giustificarne un secondo
e ogni volta che tu ti facevi vivo mi rendevi felice per giorni. Quindi in sostanza
sono stata qui ad aspettarti e al tuo ritorno mi hai ritrovata esattamente nel
punto in cui mi avevi lasciata. Esattamente come poi sarebbe successo ogni volta,
nonostante le mie idee progressiste e di indipendenza. 26
novembre 2006
Mercoledì
scorso è stato il nostro anniversario. Ero arrabbiatissima perché
non ti ho sentito. Non ti sei mai dimenticato il nostro giorno! Ho provato a chiamarti
ma non mi hai risposto. Quindi mi sono chiesta se fosse successo qualcosa. Poi
giovedì mattina è arrivato il fiorista. Interflora non ha confini!
Un bellissimo mazzo di margherite bianche e gialle, i miei fiori preferiti, con
un favoloso bigliettino. Quanto vorrei ringraziarti di persona. Mi manchi tantissimo,
sento un dolore quasi fisico quando ti penso. Quando penso al tuo viso, tondo
e nerissimo, e ai tuoi profondi occhi neri. Penso a te, sento il tuo forte abbraccio
che mi stringe, e immagino di posarti la testa sulla spalla annusandoti il collo,
come faccio sempre. In realtà annuso i fiori, e sento il profumo acre della
tua pelle. Mi rendo conto che non arrivano esattamente dalle tue mani e che probabilmente
li avrà composti il fiorista sotto casa, ma mi piace pensare che tu li
abbia scelti personalmente. Poi finalmente ci siamo sentiti ed è stato
bellissimo e crudele: mi hai detto che tornerai prima di Natale. Ho un bellissimo
regalo per te quest'anno. Qualche settimana dopo il tuo ritorno mi facesti
vedere le foto dei tuoi nipotini. Sul piccolo schermo della macchina digitale
facevi scorrere le immagini molto velocemente per fermarti su quelle di cento
bellissimi bambini figli di mille parenti tuoi. Tra tutte le foto passate velocemente
donne e donne bellissime, una più frequente delle altre, in tutte le posizioni
ed espressioni. Non ti sei soffermato su quelle foto, non mi hai detto chi fossero
quelle donne (a parte una foto di tua sorella, che mi hai mostrato con cura e
dovizia di particolari) e mentre scorrevano io sentivo una stretta allo stomaco
che saliva. Perché non c'era bisogno che mi dicessi tu chi erano, chi era:
tua moglie. In un paio di foto eravate insieme, abbracciati, e il mio pensiero
è stato: ma che cosa ci faccio io qui? Che cosa ci faccio con lui? Al momento
non ti ho detto niente, tu non hai detto niente a me, sono stata tre giorni a
ripensare a questa cosa, poi alla fine ho avuto il coraggio di affrontare l'argomento. "Affrontare"
è una parola un po' grossa, diciamo che ho cercato di dirti che mi ha fatto
male vedere quelle foto. Tu mi hai detto che te ne eri accorto, che lo sapevi,
ma che non te la sei sentita di dire niente, al momento. Certo; che cosa puoi
dire? Non c'è niente da dire; è un dato di fatto. Lei esiste, nonostante
io faccia finta che non sia così. Relego il pensiero a un angolo della
mia testa e non lo tiro fuori, se non per autoconvincermi e convincere le persone
che ho vicino che per me non è un problema. Non posso essere gelosa di
qualcuno che esisteva da prima di me. Ha una specie di diritto di precedenza,
no? Una volta mi hai detto che se mi avessi conosciuto qualche anno prima non
ti saresti mai sposato. Facendo due conti avrei dovuto conoscerti che ero praticamente
ancora un'adolescente. Bella frase, ma purtroppo inutile. Faccio già fatica
a vivere così, se mi ci metti anche i tuoi se... 3
dicembre 2006
Il
primo anno, all'avvicinarsi dell'estate, c'è stata tra noi una conversazione
molto interessante, che ha dato inizio alla mia vera consapevolezza riguardo al
nostro rapporto. - Quest'anno hai in programma di andare in Africa? - No,
non credo. Vuoi che ci andiamo insieme? - Sì. Ma alla tua famiglia come
mi presenti? - Come quello che sei. - La tua amante? - La mia toubab. -
E tua moglie cosa dirà? - Non sarà contenta. - Dovresti dirglielo
prima, prepararla. Non farmi piombare lì a sorpresa. - Probabilmente
non mi parlerà per un po', ma poi lo accetterà. - Ma sei innamorato
di lei? - Sì. - Come è possibile voler bene a due persone
allo stesso modo nello stesso momento? - C'è sempre qualcuno a cui si
vuole più bene. Ho avuto paura a chiederti quale fosse delle due questo
"qualcuno". Tu non me l'hai detto. Questo mi ha lasciato quindi supporre
che non fossi io. Ovviamente è solo una supposizione. Si dice sempre che
le donne sono mentali ed elaborano qualsiasi parola o gesto provenga dagli uomini
e che loro invece sono più semplici: quello che pensano dicono e non ci
sono significati reconditi. Voglio affidarmi a questa teoria e pensare che se
non mi hai detto niente semplicemente non c'era niente da dire. Non hai ritenuto
necessario rassicurarmi sul fatto che sono io quella a cui vuoi bene di più. Mi
hai detto che siete stati fidanzati per anni prima di sposarvi. Mi hai fatto male.
Mi hai tolto una delle poche speranze che mi erano rimaste. Che lei ti fosse stata
in qualche modo imposta dalla tua famiglia. Invece no. L'hai scelta e ti sei preso
un impegno con lei, deciso e convinto di quello che facevi. Non potevo fermare
le lacrime che scendevano silenziose dai miei occhi. Lasciavi ogni decisione in
mano mia, ero io quella che doveva accettare la situazione. E se io non fossi
in grado di accettarla? Io farò fatica a mia volta ma accetterò
la tua decisione, mi hai detto. Dici che mi vuoi sposare e creare una famiglia
con me, che il tuo matrimonio non è un problema, che non inficia la legalità
di un ipotetico matrimonio celebrato in Italia. Io ti ho detto che non voglio
fare la seconda moglie. Mi hai chiesto se cambierebbe qualcosa se fossi la prima.
No, non cambierebbe. Io sono cresciuta concependo l'unione tra due persone come
monogamica. Come faccio a pensare che stai bene con un'altra, che vivi con lei,
che fai l'amore con lei? Come posso convivere a vita con questi pensieri? Tu non
mi aiuti per niente, mai una rassicurazione, mai una forma di comprensione. Sembra
quasi che tu nemmeno ti accorga della difficoltà. Ti ho chiesto di pensare
al nostro rapporto a parti invertite e l'unica cosa che sei stato in grado di
dirmi è che hai la testa piena di pensieri e che sono così veloci
che non riesci a tradurli in parole. La nostra conversazione mi ha lasciata
con una certezza: tu non la lascerai mai e se io avessi voluto stare con te avrei
dovuto solo accettare questo piccolo dettaglio. Avrei dovuto dividerti con lei,
e con eventuali altri figli che avresti potuto avere con lei. Adesso, con la
gravidanza, una nuova consapevolezza si fa strada nella mia mente. Dovremo
vivere insieme? Ogni tanto ci hai provato a convincermi a convivere, ma io
sono sempre stata restia. Ho faticato così tanto per ottenere l'indipendenza
dalla mia famiglia, che volevo godermi un po' questo periodo da sola prima di
affrontare di nuovo la vita con qualcuno. Che poi in realtà hai ragione
quando dici che è stupido buttare due affitti e poi passare la maggior
parte del tempo comunque insieme. Potremmo pagarne uno solo metà ciascuno
e nella nostra vita cambierebbe poco. Adesso forse dovrò rivedere questa
mia fissazione. Forse questa è l'occasione giusta per trovare il coraggio
di fare una cosa che avrei dovuto fare già molto tempo fa. Sono io che
ho sempre cercato di tenere a freno la tua voglia di impegno. Fosse stato per
te saremmo andati a convivere dopo due mesi e ci saremmo sposati dopo sei. Ora
sono passati tre anni e tra poco saremo in tre: è ora. Un passo alla volta,
ma è ora di fare sul serio. Incha Allah. 10
dicembre 2006
Ho
parlato con diverse donne sperando che potessero aiutarmi a capire: una donna
africana che ha sposato un connazionale qui in Italia ed è la sua terza
moglie, una donna italiana sposata con un africano che ha già un figlio
in Africa, un'altra italiana sposata con un africano con due bimbi. Ognuna di
loro mi ha raccontato la sua esperienza che, per quanto simile, non può
essere veramente assimilata alla mia. La prima è cresciuta in una società
in cui queste situazioni sono all'ordine del giorno quindi, per quanto difficile,
ha comunque meno reticenze ad accettare altre donne. Le altre due non devono fare
i conti con mogli precedenti. Ma tutte e tre comunque mi hanno chiaramente fatto
capire che se scegli un africano lo scegli in toto, non puoi pensare di cambiarlo
o di farlo cedere. Sei tu, donna, che ti devi adattare a lui e modellare su di
lui. E io che speravo invece che loro mi servissero una soluzione perfetta su
un piatto d'argento. Ma che soluzione volevo? Non c'è una soluzione. O
accetto o non accetto. E se accetto lo faccio interamente, se no rinuncio a questa
storia definitivamente. Lui non è disposto a scendere a compromessi. Forse
sono io che non sono in grado di prendermi un impegno con qualcuno. Non ho mai
avuto storie talmente importanti da anche solo lontanamente farmi pensare a un
impegno duraturo. Ora che mi ci trovo, forse sono talmente terrorizzata che uso
la prima difficoltà per avere un pretesto per tirarmi indietro. Nel frattempo
i giorni sono passati, io non sono stata in grado di prendere nessuna decisione,
ho preferito nascondere la testa sotto la sabbia e far finta di non vedere il
problema. In fondo, quante "amanti" tradizionalmente intese vivono con
il loro uomo una relazione che dura tutta la vita? Il vantaggio nel mio caso è
che posso averlo anche la domenica e nelle feste comandate, posso anche viverci
insieme. Devo solo cercare di limitare la sofferenza in quegli orribili due mesi
l'anno. E non è affatto facile. Perchè questa volta due mesi
stanno diventando quattro, e sei ancora su un altro continente mentre io inizio
già a gonfiarmi come una palla. Domani ho un'altra ecografia, la seconda.
Sarebbe importante che tu ci fossi, ma non sarà così. La data precisa
del tuo rientro è ancora un mistero. Dici che il tuo soggiorno si è
prolungato perché la tua mamma non si sente bene. Mi dispiace molto. È
solo che non riesco a non essere un po' egoista: sei via da quasi quattro mesi
in un momento in cui ho bisogno di te. 13
dicembre 2006
E
alla fine, lo sai bene, ho scelto: ho scelto di accettare tutto questo. Ho scelto
di vivere la vita a metà, pur di stare con te, pur di vivere il rapporto
più completo e appagante di fronte al quale la vita mi abbia mai messa. Ma
non per questo non mi faccio più nessuna domanda. Anzi, mi faccio tantissime
domande, ogni giorno. Non è facile ottenere risposte da te. Ogni volta
che succede qualcosa di nuovo rimetto tutto in discussione, figurati adesso con
questa gravidanza scoperta mentre tu sei lontano. E avrei voglia, come ogni volta,
di chiederti di scegliere, o me o lei, o me e il nostro bambino o lei e la possibilità
di averne un altro, o me e il nostro futuro o lei e il tuo passato. Ma sono terrorizzata,
perché se ti metto davanti a una scelta potresti anche scegliere "casa",
e "casa", per te, nonostante i miei sforzi, le mie speranze e le mie
convinzioni, non è qui. E se per me puoi essere un compagno a metà,
vorrei che non fossi per mio figlio un padre a metà. Stamattina mi hai
telefonato, il tuo volo atterra alle sette a Malpensa. Stai arrivando, finalmente. Chissà
se sei cambiato. Chissà se io sono cambiata. Eccome. Penserai che sono
ingrassata improvvisamente o capirai subito? Non volevo che lo sapessi così,
immaginavo di dirtelo in intimità, magari con una cenetta romantica, come
se fosse un regalo. Invece lo saprai in aeroporto, in un luogo che detesto
e amo, il luogo da cui mi lasci e il luogo in cui torni da me. Così
l'anno prossimo, quando partirai ancora, saranno due le donne che lascerai in
Italia ad aspettarti. Sì, perché avremo una bambina. Milano,
15 aprile 2007
Caro
Babacar, il tempo passa e le ferite, piano piano, si rimarginano. Mi manchi,
questo sì, ma ora ho capito che sopravviverò, cosa che non credevo
possibile. È la nostra bambina che me l'ha fatto capire. Portare una vita
dentro di me mi ha fatto cambiare la prospettiva. Lo dicono tutti i genitori,
ma finché non si prova non lo si capisce. Solo che io lo sto capendo prima
di te, tu lo capirai probabilmente quando terrai in braccio tuo figlio. Il
figlio che avrai in Senegal, il maschio sta per darti tua moglie. Spero che tu
stia bene e che sia ancora convinto della scelta che hai fatto quattro mesi fa.
Quando mi hai detto che tornavi a casa perché tua moglie era incinta e
il tuo posto era vicino a lei. Grazie per la piccola porzione di vita che abbiamo
passato insieme, grazie per avermi regalato un grande amore, il grande amore.
Se può esserti fonte di gioia sappi che io, ora, sto bene. E ti aspetto,
ancora, per presentarti tua figlia, Maryam, che è nata ieri, sta bene,
e porta il nome di tua madre. Con affetto, Araki
(Racconto tratto
da Italia ama, Edizioni dell'Arco, Milano, 2007.)
Svetlana Araki (svetlana.araki@hotmail.com) è nata nel 1980 sulla
sponda sbagliata del Mediterraneo, a Milano, dove tuttora vive e lavora. Appassionata
di Africa, pur essendo bianca fuori, è nera dentro, come le dicono i suoi
amici senegalesi. Alla sua prima pubblicazione, scrive come un griot racconterebbe
una storia, di getto. Non è mai stata in Africa, ancora...
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