ROSE
Evelyn Lau
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Lo
psichiatra entrò nella mia vita un mese dopo il mio diciottesimo compleanno.
Ci entrò con indosso una cravatta di seta, gli occhi scuri seminascosti
dalle rughe. Portò con sé uno spiccato accento dell'alta borghesia,
un insulso senso dell'umorismo e libri per educarmi, Lolita, Histoire d'O. Aveva
labbra sottili, ma quando le presi tra le mie si gonfiarono e mi riempirono la
bocca di un dolce sapore sconosciuto. All'inizio mi adorava perché non
poteva toccarmi, poi perché poteva toccarmi soltanto se pagava per farlo.
Compresi che senza le foglie d'autunno, senza i toni bruni dei biglietti da cento
e i rossi accesi di quelli da cinquanta, il piedistallo di marmo su cui poggiavo
avrebbe cominciato a erodersi. Le prime due settimane furono piene di tenerezza.
Diceva di adorare il mio corpo infantile, il viso senza trucco, i lunghi capelli
lisci. Promise di prendersi cura di me, di amarmi senza riserve. Mi avrebbe fatto
da padre, amico, amante: e se uno era assente, gli altri due bastavano a colmare
il vuoto lasciato dal primo. Fece entrare dalla mia porta il profumo misterioso
e pulito della pioggia; inoltre possedeva gli strumenti necessari: campioni di
pillole minuscole come semi e una pala d'oro. Il mio corpo si arrese alle sue
mani che lo scorticavano a poco a poco. Mi procurava la droga perché,
diceva, mi amava. Recuperava le pastiglie nel suo studio, tintinnanti nelle boccette
di plastica riempite di cotone fino all'orlo. Le mettevo sotto la lingua e ne
succhiavo il gusto dolce di saccarina, per poi imparare che solo quelle forti
sapevano di caramella, le altre erano gessose o amare. Mi amava al di là
di ogni moralità. Le piante che portava ogni volta che veniva a trovarmi
- una gipsofila, una dieffenbachia, una crassula - iniziavano a morire non appena
oltrepassavano la soglia di casa mia. Dopo ventiquattro ore le foglie si increspavano
e si attorcigliavano fino a formare fitti grovigli oscuri che ricadevano a terra.
Non si sviluppavano, anche se le innaffiavo, le esponevo alla luce del sole e
le potavo. Era come se fossero state avvelenate dal contatto con lui o con l'ambiente
in cui vivevo. Mentre le guardavo morire, mi ero ricordata del racconto del suo
arrivo in Canada, quando all'inizio della carriera aveva lavorato per due anni
in uno dei nostri peggiori istituti psichiatrici. Una notte avevo raggiunto a
piedi il complesso, addentrandomi fin dove riuscivo ad avventurarmi su per i pendii
erbosi, tra le siepi di sempreverdi. Era un solido edificio beige, non sembrava
così terribile dall'esterno. Comunque nella mia mente lo vidi come qualcosa
di diverso. Nella mia mente c'era una serie di fotogrammi di un film in bianco
e nero: una faccia guardava fuori da una finestra con le sbarre. Il viso apparteneva
a una donna con i capelli arruffati e con indosso una camicia da notte. Mi tappai
le orecchie per non sentirne le grida. Quando mi raccontò di quel luogo
mi immaginai lui nel film, con la donna che lo graffiava nei corridoi grigi e
in sottofondo il suono tagliente della latta e del metallo. Da bambina, nelle
notti in cui mio padre visitava il mio letto, giacevo sveglia e immaginavo scene
in cui lui era terrorizzato, soffriva e non poteva reagire. Qui era lo stesso.
Sentivo l'odore delle macchie di sangue che i guardiani non avevano ancora strofinato
via dal pavimento. Sentivo il tanfo degli escrementi umani e vedevo le mani annaspare
verso di lui, mentre passava per ogni cella e per ogni stanza. Le mani si agitavano
incorporee nell'aria, pallide e supplichevoli e, allo stesso tempo, spaventose. Mi
raccontò che quando era ancora sposato con la prima moglie, un giorno lei
era andata a fare alcune commissioni, così aveva dovuto portare il figlio
con sé nel giro di visite all'ospedale. "Quando arrivai non sapevo
dove lasciarlo" disse. "Allora lo misi nel cestino della carta straccia."
Al suo ritorno, trovò il bambino in lacrime che aveva capovolto il cestino,
era strisciato fuori gattoni, e lo fissava rabbioso. "Non avevo scelta"
disse, infilò una mano nella tasca dell'impermeabile e mi diede una boccetta
di pillole. "Ti amo" disse "ecco perché lo faccio." Credevo
che solo qualcuno con un amore infinito potesse mettere il figlio nel cesto dei
rifiuti, il faccino contratto in una smorfia e la bocca spalancata in un grido
di sgomento. Solo una persona del genere poteva lasciarlo avvolto in pezzi di
carta sgualciti per andare a prendersi cura dei suoi pazienti. Non riuscivo neppure
a concepire la vastità dell'amore che stava dietro a quegli occhi, occhi
che divenivano trasparenti come vetro nel momento dell'orgasmo. Ieri ha comperato
una maschera in un negozio di oggetti giapponesi. Aveva una massa di capelli umani
aggrovigliati che lui ha lavato con uno shampoo antiforfora e poi ha spazzolato
con cura in modo da non strappare le ciocche. Non aveva pupille, le cornee erano
dischi di osso. L'ha portata a casa e durante un temporale è rimasto a
fissarla per mezz'ora, paralizzato dalla paura. La maschera ricambiava lo sguardo.
Ha detto che avrebbe dovuto mettere in fuga la sua collera. Dopo due settimane
la sua tenerezza ha seguito la strada delle piante: ha iniziato a incresparsi,
è rinsecchita e si è definitivamente esaurita. A letto ha smesso
di toccarmi ma è diventato assetato come terra riarsa. Ho cominciato a
tenere gli occhi aperti quando ci baciamo e a chiuderli in tutti gli altri momenti,
come le numerose volte in cui mi ha spinto la mano o la testa tra le gambe. Ha
continuato a portarmi libri e riviste, ma sono stati eclissati dalle parti del
corpo che voleva che gli toccassi. Certi giorni non ce la facevo proprio. Pensavo
che fosse più che sufficiente ascoltare le sue storie. Fantasticavo di
essere il suo psicanalista e di non lasciargli vedere il viso, per avere quel
genere di controllo su di lui. L'avrei fatto distendere sul divano con la luce
negli occhi, mentre io rimanevo nell'ombra, dove non poteva toccarmi. Il suo
ultimo regalo, una sansevieria, sembra un grappolo di coltelli o di lance verdi.
La terra è talmente asciutta che la innaffio in continuazione, ma l'acqua
scorre rapida attraverso il vaso senza, apparentemente, lasciare traccia di sé:
alla fine si riversa sul tavolo e tra le mie mani. Stasera pensavo che non
ce l'avrei fatta a toccarlo. Gli ho chiesto di picchiarmi, piuttosto, convinta
che quell'esile corpo pallido si sarebbe ritratto al solo pensiero. Invece si
è sfregato contro le mie cosce, pieno di desiderio. Gli ho detto che il
dolore non mi eccita, ma era troppo tardi. Ho avvolto le lenzuola intorno al mio
corpo nudo nel tentativo di chiudermici dentro, come un fiore si rifugia tra i
petali quando scende la notte. Prima mi ha fatto stendere sulle sue ginocchia
e ha incominciato a sculacciarmi. Mi sono docilmente dimenata sollevando il sedere
in aria, come piaceva a mio padre. Poi è risalito lungo il corpo, per tempestarmi
la schiena di pugni. Uno è stato così doloroso che ho visto le stelle
anche con gli occhi aperti; mi ha inondato il corpo come un fuoco d'artificio.
E stato come contemplare un tramonto e avvertire uno spasmo nel petto davanti
alla sua straziante bellezza, il genere di dolore che ti lascia senza fiato. L'eco
degli schiaffi è risuonata sempre più intensa nel minuscolo spazio
dell'appartamento, come il rombo del tuono. In quel momento mi sono chiesta se
il mio volto assomigliasse alla maschera giapponese. Il dolore mi ha ripulito
la mente fino a farla respirare, come le strade di una città dopo una bella
pioggia lucente. Ha lavato via la sporcizia dentro di me. Vedevo i canali di scolo
spalancarsi per inghiottire carte di caramelle, pagine di giornale e mozziconi
di sigaretta portati dall'ondata in piena. Ho visto, come se non li avessi mai
notati prima, ogni crepa e ogni rientranza sulla parete dietro al letto. Dopo
di che ha preteso di più e io ho lottato, vagamente sorpresa di scoprirlo
debole. Come attraverso l'occhio di una cinepresa ho visto un groviglio di cosce
e braccia bianche, l'incavo di una spalla, il pendio di una schiena. Gli ho graffiato
la pelle con le unghie. Non ho provato un sentimento di paura consapevole perché
ero la ragazza dietro alla cinepresa, che zoomava alla ricerca di un primo piano,
di un'inquadratura ravvicinata o di un'angolazione interessante. Arti come di
marmo sul letto sfatto. La sua faccia stravolta per lo sforzo. Respirava a fatica,
mentre io non respiravo del tutto. Sapevo che se gli avessi toccato i capelli
mi sarei bagnata la mano, non con il sudore gradevole di quando si fa sesso, ma
con qualcosa di diverso, qualcosa che puzzava d'ospedale, un ospedale senza disinfettante
per camuffare gli odori. E quando mi ha schiacciato la faccia contro le cosce,
è stato stranamente piacevole, anche se quelle cosce appartenevano al corpo
che cercava di picchiarmi. Ho respirato il delicato profumo di sapone della pelle
e la sua mano mi ha trafitto la schiena; la stessa mano che consolava pazienti
in lacrime, che prendeva appunti sui loro progressi nella terapia, che quando
mi toccò per la prima volta strinse timidamente la mia. Il suono dei ceffoni
risultava amplificato nella stanza illuminata dalle candele. Niente era mai risuonato
così forte, così strano nella sua risolutezza. Non mi ero mai sentita
tanto distante da me stessa, neppure con le pillole. Sono lontana e la coscia
contro la mia guancia è sabbiosa come la superficie di una spiaggia. I
rumori si fondono come oro, come pigre domeniche pomeriggio. Penso ai gatti e
al pianoforte a coda per bambini nel foyer della casa di mio padre. Penso alla
pioggia che scorre lungo i tubi di scarico fuori dal bagno di mio padre a tarda
notte, quando le cose stanno per accadere. Penso alle note nere dal tratto eccentrico
ed elegante sui fogli di musica per piano. Una gran luce si diffonde dalle finestre
e io sono una bimbetta con un nastro rosa tra i capelli e un vestitino sgualcito. Mi
siedo sulla panca del piano e mi metto a suonare, le falangi delle dita che si
piegano sui tasti d'avorio e d'ebano. Mi guardo i piedi fasciati da ballerine
rosa premere di tanto in tanto sui pedali. Da brava bambina di papà, eseguo
il pezzo seguendo le sue indicazioni. Quando la lotta è finita, ha accarezzato
la paura che mi inondava le mani di sudore freddo. Ha detto che mentre combattevamo
il mio volto esprimeva odio e un'assoluta freddezza. Ha detto che picchiandomi
è guarito dalla sua ossessione per me, mi ha spogliato del mistero che
mi avvolgeva. Con una raffica di ceffoni mi ha reso una comune mortale. Ha detto
che la mia paura lo sconvolgeva. Era assetato del sudore che mi inumidiva i palmi
e disposto a fare qualsiasi cosa per procurarsi altro nettare e leccarlo e placare
così la sua sete. Ho capito che quando al primo pugno non è uscito
sangue, il suo amore si è trasformato in odio. Ho realizzato che se fossi
davvero stata preziosa e fragile mi sarei spezzata, mi sarei dischiusa come una
sottile conchiglia sprigionando il colore dolce e intenso delle rose. Prima
di andarsene mi ha premuto le labbra sulla bocca. Aveva gli occhi spalancati quando
ha detto che se lo avessi raccontato a qualcuno non avrebbe avuto altra scelta
che uccidermi. Ora che se ne è andato, osservo tra i miei seni un altro
fiore che sboccia: un'eruzione di puntini color lampone, come piccoli semi. Mi
chiedo se è così che si scarica la paura quando usciamo dal corpo
nei momenti di dolore. Lo psichiatra, quando venne la prima volta, mi promise
un giardino di rose e domani mattina allo specchio ne leggerò le conseguenze
sul mio stesso corpo. Mi prenderò cura dei suoi bouquet prima che torni,
gli occhi annebbiati dalla paura e dalla libidine. Poi ascolterò le note
liquide che si diffondono compiacenti nel foyer inondato di sole, e sorriderò
perché da qualche parte, in lontananza, mio padre applaude.
(Tratto
dalla raccolta di racconti Ragazze, Marco Tropea editore, Milano, 1998.
Traduzione di Giuditta Ghio.)
Evelyn Lau è nata a Vancouver, Canada, nel 1971, da genitori cinesi.
Ha raccontato la sua drammatica adolescenza nel romanzo autobiografico Ho vissuto
in un mondo di plastica con fiocchi color cocco. Il successo ottenuto con
questa opera prima l'ha confermata nella sua vocazione di scrittrice.
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