ONESTI LAVORATORI


Marco Battista





Si presentarono in forma smagliante, tutti uguali, sulla cinquantina, calvi, sorriso a trentadue denti, denti bianchi, profumati di pulito e di dopobarba, nella loro impeccabile salopette di jeans. Era una domenica mattina, una di quelle domeniche a cavallo fra inverno e primavera, l'aria tersa e cristallina, sole ovunque, monti innevati in lontananza. Avrei potuto andarmene quando volevo, nessuno mi avrebbe trattenuto, ma nessuno si aspettava che io me ne andassi, tutti si aspettavano che io sarei rimasto, ed io ero rimasto, infatti, non li avevo delusi. Dovevano conoscermi molto bene. Ero lì che aspettavo, con angoscia, non avevo dormito. Quando entrarono in casa mia con tutti i loro attrezzi, la loro gentilezza, i loro materiali, mi sentii violato, umiliato, calpestato. Ciò non ostante fui cortese, feci loro strada, offrii loro un caffè (che rifiutarono con garbo: etica professionale). Entrarono in casa mia e mi investirono coi loro modi affabili, coi loro sorrisi. Mi sedetti in disparte, in salotto, mentre gli onesti lavoratori erano intenti alla loro opera. Seghe, martelli, cacciaviti, chiodi. Il sole illuminava obliquamente la stanza e si fondeva al brusio di tutta quella laboriosità, mi ricordai di quando da bambino ascoltavo il brusio della gente, in strada, i giorni di mercato, tutto quel vociare, quel battere, quel muovere. Prendevo la mano di mia nonna e mi facevo portare fuori, in quella marea umana, gli occhi grandi, curiosi, stupefatti, incantati. Stavo davanti al banco del pesce ed ero come rapito dentro una fiaba di pescherecci, di cuoche, di uomini, di colori, di amore. Stavo seduto in disparte, nel mio salotto, e, ricordando con commozione profonda queste sensazioni, capii che qualcosa mi stava suggerendo come un senso di piacevolezza in quello che mi stava accadendo, la laboriosità degli operai, il loro brusio, ma io rifiutai seccamente quel qualcosa e lo maledii. Avrei potuto andarmene, anche allora, ma stavo lì, fermo. Li guardavo mentre costruivano la loro opera, sudavo freddo, eppure con gesto meccanico raccolsi addirittura il martello caduto a un operaio e glielo porsi, sorridendo. "Grazie, lei è molto gentile" mi disse l'operaio investendomi di denti bianchi, dopobarba, dentifricio.
Poco prima di mezzogiorno il patibolo era pronto. Bello, di un bel colore mogano chiaro, stagliato contro la finestra, su invito degli operai salii gli scalini e vi montai sopra, complimenti, buon lavoro ripetevo, notai che i miei piedi erano all'incirca all'altezza del davanzale, guardai fuori ed era bellissimo, non avevo mai visto tanta luce entrare da quella finestra. Avrei dovuto pensarci prima. Avrei dovuto costruirmi un piccolo soppalco e godermi quello spettacolo, in santa pace, da solo o con Emilia, nei giorni felici, e invece me ne stavo lì, rincoglionito, a guardar fuori gli alberi e i campanili dalla stessa pedana che fra qualche ora sarebbe stata il palcoscenico della mia impiccagione. Avevano fatto davvero un buon lavoro.
Cominciai a sentir male allo stomaco, avevo freddo, sudavo. Gli operai mi dissero che era normale, che non dovevo preoccuparmi. Mi fecero un tè.
Ebbi uno scatto d'ira e urlai "Andiamo! Fate presto! Che cazzo stiamo aspettando?" Volevo sputargli in faccia e infilare la mia testa di cazzo in quel fottuto cappio, guardarli negli occhi mentre crepavo e tirare le cuoia senza dar loro la minima soddisfazione, con disprezzo. Con grande tempismo si strinsero attorno a me, tecnicamente molto preparati, mi bloccarono, mi calmarono, mi spiegarono che sarebbe dovuto arrivare il pubblico, e che avremmo dovuto attendere anche le autorità di condominio.
Qualcosa si era rotto dentro di me, non ero più la stessa persona di prima. Avvertii come una frattura, spezzatura di ossa, come una consapevolezza che restava tuttavia vaga, aveva delle implicazioni, avrei dovuto capire tutte le conseguenze di quella frattura, sudavo, probabilmente avevo la febbre, eppure ero lucido, maledettamente lucido, ma non avevo tempo. Risi pensando che sarei morto proprio quello stesso giorno. Ero cambiato per sempre il giorno della mia morte, della mia esecuzione. Che cazzo me ne facevo di quel cambiamento? A che cazzo sarebbe servito comprenderlo, capirlo appieno? Ma ero ancora vivo, e quel pensiero mi teneva ancora in vita, mi avrebbe tenuto in vita ancora per qualche ora. Una parte di me, molliccia, era già morta, stava già morendo.
Un furgone posteggiò sotto casa mia e gli operai cominciarono a portar su sedie, sedie e poi ancora sedie. Bianche, di legno, del modello che si usa per i tavolini da mare. Le ordinarono in cinque file, ci saranno stati, credo, cinquanta posti.
La gente cominciò ad arrivare. Erano gentili, mi salutavano. Anch'io ero gentile. Salutavo tutti, signori e signore. Ma qualcosa era davvero cambiato in me, lo sentivo ormai perfettamente. Ma che cosa? Febbricitavo, ansavo, sudavo freddo. Una vicina di casa mi pose amorevolmente sulla fronte un asciugamano bagnato, fresco. Ancora mi ricordo il suo profumo di bucato. Fu a quel punto che ebbi un lampo di genio. Fu davvero un lampo di genio, lo dico senza presunzione, un vero lampo di genio. Dissi "Abbiate pazienza, scendo un minuto in strada a prendere un po' d'aria, sono certo che mi riprenderò subito." Ottenni sorrisi e rassicurazioni in cambio, e nessuno si oppose.
Scesi in strada e respirai profondamente. Nessuno si preoccupava, nessuno faceva troppo caso a me. La gente continuava ad arrivare, mi salutava. Gli operai portavano su le ultime cose, un paio di luci, qualche altra sedia nel caso servissero.

Avevo come intuito il significato di quella frattura che era avvenuta in me. Non c'era niente da ridere. Quella frattura avrebbe potuto salvarmi la vita. Altro che un inutile cambiamento in punto di morte.
Tornai a casa, quasi perfettamente tranquillo, e anzi con la mente già rivolta al futuro. Nella confusione generale, salutando ancora questo e quello, riempii una borsa di libri ed effetti personali. Presi con me un po' di soldi e scesi di nuovo in strada.
Doveva essere quasi l'ora, sentivo il brusio come comporsi, forse erano arrivate le autorità di condominio, forse era arrivato il boia.
Ripetei mentalmente il mio ragionamento per l'ennesima volta, come a cercare riprova del fatto che avrebbe potuto funzionare. Salii in macchina e me ne andai, senza voltarmi indietro. Ero libero.



Marco Battista è nato a Livorno nel settembre 1965 ma ha vissuto prevalentemente a Lucca dove risiede la sua famiglia. Dal 1986 scrive soprattutto in versi. Negli ultimi anni sente l'esigenza di una comunicazione più diretta e pragmatica e comincia a scrivere in prosa. Attualmente vive a Lucca.





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