IL CONTRATTO

Magda Szabó



(...) Quando parlai con lei per la prima volta mi sarebbe piaciuto vedere il suo viso, e fui in imbarazzo che non mi concedesse la possibilità di farlo. Stava in piedi davanti a me come una statua, immobile, non era dritta sull'attenti, pendeva leggermente da un lato, indovinai la sua fronte a malapena, non sapevo ancora che avrei potuto vederla senza fazzoletto in testa solo sul letto di morte, perché girava sempre con un fazzoletto come se fosse una cattolica molto pia o una donna ebrea durante lo shabbat, cui la fede proibisce di presentarsi al cospetto di Dio a capo scoperto. Era un giorno d'estate, uno di quelli in cui non c'è alcun motivo di ripararsi, eravamo in giardino sotto il cielo del tramonto che virava al viola, e lei sembrava stonata in mezzo alle rose. Di una persona a volte si sente che fiore potrebbe essere se fosse nata sotto forma vegetale: e lei non era sicuramente una rosa, la rosa non è un fiore innocente, offre i suoi petali carminio in modo quasi impudico. Sentii subito quello che Emerenc non avrebbe potuto essere, ma non quello che avrebbe potuto essere, non sapendo ancora nulla di lei.
Il fazzoletto le copriva la testa lasciando in ombra gli occhi, in seguito scoprii che le iridi erano blu. Mi sarebbe piaciuto sapere di che colore fossero i suoi capelli, ma finché rimase se stessa li tenne sempre nascosti. Quel tardo pomeriggio vivemmo momenti importanti, dovevamo decidere entrambe se potevamo accettarci reciprocamente. Mio marito e io abitavamo da alcune settimane nella nuova casa, sostanzialmente più grande di quella dove avevamo vissuto fino allora; per tenere in ordine il vecchio appartamento di una stanza non mi occorreva aiuto, ma le cose erano cambiate anche perché la mia carriera congelata per dieci anni stava per ripartire, nella nuova dimora ero tornata scrittrice a tempo pieno, con maggiori opportunità e numerosi impegni che un po' mi inchiodavano alla scrivania e un po' mi obbligavano a stare fuori casa. Per questo motivo mi trovavo in giardino di fronte a quella vecchia donna silenziosa; era ormai chiaro che se non avessi trovato qualcuno ad alleviarmi il peso dei lavori domestici non avrei potuto pubblicare ciò che avevo creato in anni di silenzio, né dare forma a ciò che ancora mi restava da dire. Appena concluso il trasloco dei libri della nostra biblioteca e dei mobili traballanti che avevano richiesto molta delicatezza, cercai subito di risolvere la questione dell'aiuto domestico. Chiesi a tutte le persone che conoscevo nel quartiere finché un'antica compagna di classe risolse le nostre preoccupazioni: da sua sorella, disse, c'era un'anziana donna che teneva la casa in ordine da parecchi anni, valeva più di qualsiasi giovane, e se avesse avuto del tempo anche per noi me la raccomandava di cuore. Garantiva che la persona in questione non avrebbe incendiato la casa con un mozzicone di sigaretta, non avrebbe avuto storie con uomini, non avrebbe rubato nulla, anzi, se ci avesse preso in amicizia, sarebbe stata lei a portare delle cose perché era di natura passionalmente generosa. Non aveva mai avuto un marito, né figli, riceveva regolarmente le visite di un nipote e di un ufficiale di polizia, e tutti nel quartiere le volevano bene. Parlò di lei con calore e rispetto, aggiunse che Emerenc era anche portinaia, quindi una sorta di autorità pubblica, sperava che ci accettasse perché se non fossimo riusciti a conquistare la sua stima non avrebbe accettato il lavoro per nessuna somma di denaro.
L'avvio del nostro rapporto non fu promettente, Emerenc stessa si dimostrò tutt'altro che affabile quando le chiesi il disturbo di passare da noi alla prima occasione per una breve chiacchierata. La trovai nel cortile dell'edificio in cui faceva la portinaia - viveva vicino a noi, così vicina che potevo vedere la sua abitazione dal nostro balcone. Stava lavando un'immane quantità di bucato con mezzi assolutamente antiquati, bolliva la biancheria dentro un calderone sulla fiamma scoperta, rimescolando le lenzuola con un lungo cucchiaio di legno nel calore atroce. Contornata dai bagliori del fuoco, era alta, ossuta, possente nonostante l'anzianità, non era grassa, ma muscolosa, emanava una sensazione di forza, sembrava una valchiria, e il fazzoletto in testa aveva l'aspetto di un elmo guerriero. Accettò di fare un salto da me, fu così che ci trovammo insieme nel giardino, in quel tramonto. Mi osservò silenziosa mentre le spiegavo l'entità del lavoro da svolgere in casa nostra; parlando mi venne in mente che non avevo mai considerato credibile uno scrittore che in qualche grande romanzo del secolo scorso paragonava il viso di un personaggio a un lago. Mi vergogna, come tutte le altre volte in cui avevo osato dubitare dei Classici: il viso di Emerenc non si poteva paragonare ad altro che a uno specchio d'acqua piatto, immobile, nel chiarore delle prime luci dell'alba. Non sapevo fino a che punto le interessasse la mia proposta perché era chiaro che non le occorrevano né un'occupazione né il denaro, ero io che avevo terribilmente bisogno che accettasse, ma il suo viso simile allo specchio di un lago, sotto l'ombra del fazzoletto che ricordava un indumento rituale, per lungo tempo non tradí alcuna emozione. Emerenc non sollevò il capo nemmeno quando, alla fine, rispose che potevamo eventualmente riparlare della questione perché in una delle case dove lavorava la situazione era diventata insopportabile, marito e moglie si ubriacavano, il figlio ormai adulto era finito sulla cattiva strada, e lei non aveva più intenzione di badare a loro. Se qualcuno avesse offerto garanzie sul nostro conto convincendola che in casa nostra non c'erano attaccabrighe né ubriaconi, se ne sarebbe potuto riparlare. La ascoltai interdetta, era la prima volta che qualcuno pretendeva referenze sul nostro conto. - Io non lavo i panni sporchi al primo che capita, - disse Emerenc. (...)




(Brano tratto dal romanzo La porta, di Magda Szabó, traduzione dall'ungherese di Bruno Ventavoli, Einaudi, Torino, 2007.)


Magda Szabó č nata a Debrecen, in Ungheria, nel 1917. La porta č stato pubblicato nel 1987.




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