FRENO AI DENTI
Miriam Mambrini
Prima, immagini indistinte nella nebbia. Poi le nuvole si diradano e vedo mia
madre su un cavallo marrone dalla lunga criniera. I suoi capelli sono spettinati.
Una crocchia un po' sfatta lascia sfuggire delle ciocche, che formano dei ricci.
L'animale, irrequieto, tenuto a freno con difficoltà, scava il terreno
con le zampe anteriori. All'improvviso morde il freno e parte al galoppo. Mia
madre non cade; al contrario, si assicura alle staffe e piega il corpo in avanti
come se fosse un fantino, dando più velocità all'animale. Questo
avrebbe dovuto sorprendermi, dopo tutto lei non ha alcuna familiarità con
i cavalli, ma sto sognando, so che sto sognando, e, nei sogni, tutto può
succedere. L'ultima cosa che ricordo sono i suoi capelli completamente sciolti
che le ondeggiano sulle spalle con lo stesso ritmo della criniera del cavallo
marrone. A quel punto mi sveglia lo squillo del telefono. -
Ângela, vieni? - Chi parla? - Gilda. Ti sei scordata dell'appuntamento? La
mia voce è roca a causa delle lunghe ore di sonno. Mi schiarisco la voce
prima di chiedere: - Che ore sono? - Le nove e mezza. Io sono già
pronta. Resto in silenzio tanto a lungo da far pensare a Gilda che la chiamata
sia finita e da farle dire pronto. - Sei sicura che lei mi ha chiamato? -
Sì che ti ha chiamato. Non smette di chiamarti. La
macchina di Gilda ha un odore che mi dà il voltastomaco, come se qualcuno
avesse sentito la stessa nausea in un altro viaggio su quella strada piena di
curve. - Ci ha per caso vomitato qualcuno qua dentro? Lei mi guarda con
la coda dell'occhio, senza distogliere l'attenzione dalla strada. È sempre
stata molto prudente. - No. Apro il finestrino per vedere se l'odore va
via. - Vuoi che mi fermi? - chiede, preoccupata. - Mi viene in mente ora che
ti sentivi sempre male con queste curve. - No, vai pure avanti. Ma Gilda
si ferma poco più avanti, dove c'è un baracchino rustico, con caschi
di banane appesi ai pali di legno che sorreggono il tetto della veranda. Deve
aver paura che le vomiti in macchina. - Ascolta, è meglio che tu ti
prepari - dice, mentre prendiamo un caffé troppo dolce. - Lei è
cambiata molto. È molto invecchiata, capisci? Quanto tempo è che
non la vedi? Gilda
è sempre stata vicina alla mamma, loro due si capivano benissimo, sceglievano
i vestiti insieme, insieme andavano al supermercato, si scambiavano ricette e
magari confidenze, frequentavano il resto della famiglia, Marcos, la moglie e
i bambini, le sorelle di papà, le cugine ricche e tutte quelle persone
che facevano parte della nostra infanzia. A volte penso che tutto ciò che
avrei voluto dalla vita era essere rimasta insieme a loro, non essere stata costretta
ad andarmene e ad arrangiarmi da sola. Quando penso a mia madre, di solito la
ricordo come più di una volta l'ho vista nella mia infanzia, vestita per
andare a qualche festa, i capelli castani ben pettinati, alla paggio. I capelli
alla paggio, come quelli delle attrici di Hollywood che le piacevano. Le ciglia
erano lunghe, le piegava con una specie di forbicine che incurvavano le ciglia.
Ogni volta che le usava, avevo paura che le pungessero l'occhio. Dopo che si era
sistemata, non si sedeva per non sgualcire il vestito. - Ai miei tempi c'era
un'attrice chiamata Veronica Lake che lasciava che i capelli le cadessero sul
viso. Era così bello, misterioso
Lei voleva essere come Veronica
Lake, misteriosa. L'espressione pensierosa, come se fosse un po' distratta, aiutava
a creare il mistero. Quando si sentiva un po' a disagio, perché era in
un ambiente estraneo, perché era vestita in modo inappropriato, o per aver
detto qualche sciocchezza, accentuava quell'espressione assorta. Il mistero faceva
calare un velo tra lei e il mondo, e la nascondeva alla vista degli altri. Per
le feste, si dipingeva le unghie di rosso, erano bellissime le sue unghie, a forma
di mandorla. - Mi piace il colore di questo smalto. Quello che Rita Hayworth
ha usato in Gilda doveva essere simile. Peccato che il film fosse in bianco e
nero. Quando mio padre la lasciò, trovai molto strano che lui avesse
il coraggio di abbandonare una donna con le unghie di Rita Hayworth e i capelli
di Veronica Lake per stare con una ragazza bassina, con i capelli corti e il naso
schiacciato.
Di
solito non mi ricordo dei sogni, a meno che al risveglio non faccia uno sforzo
per fissare le immagini. Ma stavolta il sogno rimane nitido mentre affronto le
curve nella macchina puzzolente di Gilda. Il cavallo, la criniera che ondeggiava
al galoppo, i capelli che uscivano dalla crocchia e sbattevano sulle spalle. Mamma
non era il tipo di donna da andare in giro con i capelli spettinati. Se per caso
(ed era un caso molto improbabile) avesse deciso di andare a cavallo, avrebbe
raccolto i capelli in una crocchia stretta ed elegante, come, diciamo, Grace Kelly
nel ruolo di una principessa a cui piaceva andare a cavallo. L'amazzone che monta
in sella al cavallo del sogno e galoppa libera non ha niente a che fare con le
eroine dei film di Hollywood. Guardo Gilda aggrappata al volante della macchina,
gli occhi fissi sulla strada. La linea della bocca è dura, il volto più
allungato di quello di nostra madre, il naso più largo. Tuttavia ha lo
stesso aspetto curato, soignée, come mamma diceva nel suo francese imparato
al collegio delle suore. Il vestito sembra sempre appena stirato, i denti vengono
lavati dopo ogni pasto. Deve usare la lacca, dato che il vento non le scompiglia
i capelli. Tutto in lei è sotto controllo. O quasi tutto. -
Come sta Paulo César? - domando. Una contrazione agli angoli della bocca
precede un sorriso forzato. - Bene. Lavora molto, torna tardi a casa. Il
loro rapporto deve essere travagliato, mia sorella gelosa da morire della donna
di turno, perché c'è sempre un'altra donna, reale o immaginaria,
quando la moglie è una come Gilda. Ed è proprio su di lei che mia
madre ha scommesso dandole il nome della "donna indimenticabile". Mia
sorella cambia discorso: - La malattia, come sai, si è aggravata molto
negli ultimi mesi. Quando sei venuta qui l'ultima volta, stava ancora relativamente
bene. - Io l'ho trovata confusa. Ha scambiato il nome dei miei figli, non si
ricordava più dove abitavo. - Forse perché ha pochi contatti
con voi, a quel tempo si ricordava ancora le cose. - È per questo che
trovo strano che, come dici tu, lei mi chiami in continuazione. Proprio me? Dice
il mio nome? - Lo dice. Continua a ripetere: dov'è Ângela? Quando
nacqui, dopo Gilda e Marcos, lei guardò il mio volto di neonata e pensò
che somigliassi ad un angelo. Per questo mi mise nome Ângela. Più
tardi, quando erano già passati diciotto anni da quello sbaglio, mi disse
che ero angelo solo di nome. O meglio, ero l'angelo caduto, l'angelo delle tenebre. Leo
iniziò a frequentare casa nostra circa due anni dopo che nostro padre si
era risposato. Aveva dieci anni meno di lei, ma nessuno l'avrebbe detto, o lei
diceva che nessuno l'avrebbe detto. Il fatto è che era ancora molto bella,
e ogni volta impiegava più tempo e più attenzione a sistemarsi.
Leo sapeva di tabacco da pipa della migliore qualità, un tabacco dorato
che custodiva in una borsetta di pelle. Anche lui era dorato, i capelli, le sopracciglia.
Mia madre ci disse che Leo non sarebbe venuto ad abitare da noi a causa nostra,
lei aveva deciso così per rispetto a noi, ma era come se fossero sposati. -
Sarà un matrimonio moderno. Un sorriso imbarazzato. Poi, si chiuse nel
mistero, l'espressione assorta: ora basta, vi ho raccontato di Leo e sono scomparsa
alla vostra vista. Era difficile per una donna cresciuta in un collegio di suore
negli anni 40, attaccata ai suoi principi e alle convenzioni, vivere un matrimonio
moderno con un uomo di dieci anni più giovane, negli anni 70. Ma lei era
innamorata. Leo
mi passa una mano tra i capelli, che sono sempre spettinati. - Lei doveva essere
uguale a te alla tua età. Leo è sempre allegro, gli piace lo
sport, nuota, gioca a tennis, e faceva surf quando era più giovane. Ora
fuma quella pipa profumata. - Non le somiglio mica. - Solo il naso, la forma
del viso e
fammi vedere
il colore degli occhi. Quando è che
ho iniziato trascurare i capelli e a mangiarmi le unghie fino a farle sanguinare?
Quando ho iniziato a masticare la scingomma, ad indossare jeans e maglietta? Quando
ho smesso di voler somigliare a lei? La mano insiste nella carezza. - Lasciami,
Leo. I capelli continuano ad essere quelli di qualche attrice americana, forse
Jane Fonda o Farah Fawcett, dato che è cambiata la pettinatura, e Veronica
Lake è solo un lontano ricordo della sua adolescenza. Le unghie rosse spuntano
tra le dita di Leo, che s'intrecciano con le dita di lei. -
Ti ricordi ancora la casa? Abbiamo percorso questa stessa strada molte volte
per trascorrere l'estate in montagna, nella casa che mamma ha ereditato dai nonni.
Mi viene sempre la nausea a causa delle curve. Mio fratello e mia sorella si spazientiscono,
perché Leo deve fermarsi due, tre volte per farmi vomitare. Mamma assume
un'aria assente, è molto imbarazzante dover costringere l'amante a quelle
soste e alla puzza che proviene da me e che impregna la macchina, una puzza uguale
a quella che sento ora. Leo ed io passiamo ore in piscina, siamo quelli a cui
piace di più l'acqua. Gilda nuota un po' ed esce subito, Paulo César
viene a prenderla, si stanno già frequentando, e la sua famiglia ha una
casa in campagna qui vicino. Marcos non c'è quasi mai a casa. In camera,
lei si sistema i capelli, si mette la crema sul viso e si fa le unghie per andare
a cena fuori più tardi. Leo è seduto sul bordo della piscina.
Ho voglia di tirarlo dentro per le gambe, per scherzo o per qualche altra ragione
che non mi è molto chiara e su cui è meglio non indagare. Lui sembra
aver capito, si tuffa nell'acqua e cammina verso di me. Vado sott'acqua e passo
vicino a lui sinuosa, per emergere dall'altra parte, da dove gli sorrido. Quando
torno indietro, sempre sott'acqua, lui mi prende e mi tira su. Ci ritroviamo molto
vicini, ansimanti, i corpi che si strusciano, solo le teste fuori dall'acqua,
i capelli appiccicati al viso e al collo. - Ângela, non mi provocare! -
Io? Cosa ho fatto? Di
notte, escono molte falene, che svolazzano pericolosamente intorno alle lampade
del soffitto della veranda. Mi sporgo dalla balaustra e guardo le stelle, per
cercare di dimenticare le falene che si bruciano nel loro volteggiare inesorabile.
Penso ai gatti in calore con i loro estenuanti mugolii. Penso allo stallone che
galoppa nel prato e alla cavalla agitata, rinchiusa nella sua stalla. Penso che
mia madre comincia ad appassire, che in lei non c'è più niente di
così fresco e bello come quando aveva i capelli alla Veronica Lake. Tranne
le unghie rosse, che di notte si conficcano nella schiena di Leo. Il mio pensiero
si fissa dove va quasi sempre: sul corpo di Leo, coperto di peli dorati. Il corpo
bagnato dall'acqua della piscina. Il corpo che s'incolla al mio e mi riscalda
nonostante il freddo dell'acqua. - Ângela, mi fai impazzire! - Sei
tu che mi fai impazzire, Leo. All'inizio, cerchiamo di controllarci, ma arriva
il momento in cui non è più possibile. Il nostro amore è
un'esplosione. Stiamo per morire, il cuore che batte all'impazzata, l'aria che
manca nei polmoni. Ci amiamo in posti scomodi, lo stanzino dove il giardiniere
tiene gli attrezzi, il prato dietro il muro dell'orto. - Non sarà mica
incesto? - Ma che dici Ângela? Perché incesto? Tu non sei mia
figlia. Nonostante
tutte le precauzioni, mia madre ci sorprende insieme. Stiamo avvinghiati dentro
la piscina. Sentiamo i suoi passi e ci stacchiamo. Lei non deve aver visto molto,
ma l'ha intuito, ha già dei sospetti. - Ângela, vieni qui un secondo. Sembra
molto naturale. Per mascherare l'imbarazzo, mi mostro scocciata. - Non puoi
aspettare un attimo? Il tono è quello degli ultimi tempi, aggressivo,
arrogante. - Dobbiamo parlare. Lei torna verso casa, camminando piano. Esco
dalla piscina sollevando il corpo con le braccia, mi avvolgo nell'asciugamano
ed entro gocciolando nella veranda. Lei mi aspetta in piedi. Dice che non mi vuole
più vedere. Che devo cercare mio padre e trovare una soluzione per la mia
vita ben lontano da lei e dal marito. Sono
passati talmente tanti anni che non so nemmeno quanti, la maggior parte di essi
passati a Roma, dove papà volle mandarmi a vivere, visto che aveva una
parente là, una sorellastra nella cui casa rimasi per un po', prima di
trovare un lavoro e poter pagare l'affitto di una stanza dove vivere. Quando
mi sposai per la prima volta, la invitai al matrimonio su insistenza della madre
del mio fidanzato. Lei venne in Italia e svolse con grande eleganza e compostezza
il ruolo di madre della sposa. Si era già separata da Leo. Prima di andare
in chiesa, le chiesi se mi aveva perdonata. Lei mi disse che non era il momento
di parlare di queste cose. - E se ti dicessi, Gilda, che non ho voglia di
vederla? - Che c'è, Ângela? Lei sta male e ti ha chiamato. Tu
parti tra qualche giorno. Con che coraggio vai via senza salutarla? Sarà
l'ultima volta. - Avrei preferito che non l'aveste portata sulle montagne. La
casa è vecchia, il giardino trascurato e la piscina senza acqua. La trovo
in salotto accanto a una badante. È seduta su una poltrona dai braccioli
grandi, che fa sembrare il suo corpo ancore più piccolo. I capelli non
sono tanto lunghi e pettinati alla paggio come quando ero piccola. Solo che ora
sono parzialmente tinti di biondo. Gli occhi sono diventati più tondi.
Sono gli occhi di un uccellino, inseriti in orbite di carta velina stropicciata.
Due rughe le scendono dal naso fino agli angoli della bocca e sembrano tirare
verso il basso il volto flaccido. Più che mai, ha un'espressione assente. -
Mamma, guarda chi c'è qui - dice Gilda. Lei sorride educatamente. -
Come sta, signora? - È Ângela, mamma. Lei fa ah, scuote la
testa e sorride di nuovo nella stesa maniera formale. Avvicino
una sedia alla sua poltrona e mi siedo. Parlo dei miei figli, della mia casa in
un paesino a ottanta chilometri da Firenze, racconto che mi sto per sposare per
la terza volta e ora spero finalmente di essere felice. In silenzio, lei guarda
assorta nel vuoto, in un punto qualsiasi dall'altra parte della sala. Non so nemmeno
se ha capito quella tiritera sulla mia vita in Italia. All'improvviso, mi
torna il ricordo del sogno. Non sono più sicura che sia lei la donna che
galoppa sul cavallo marrone dalla lunga criniera. Potrei essere io, in fondo siamo
molto simili. Quando vado via, mia madre mormora qualcosa che non so se ho
capito bene. - Cosa hai detto? Lei si mette diritta, gli occhi le si accendono
di un bagliore fino a quel momento nascosto sotto l'opacità della cataratta,
e ripete con voce ferma: - Non ti ho perdonato.
(Tradotto
da Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi dell'Università degli
Studi di Pisa Claudia Corti, Elena Borgogni, Letizia Ioli, Giada Poggianti, Isabella
Razzuoli, Lucio Sanciu, Romina Tuffarini, Elena Moncini. Tratto dalla raccolta
30 Mulheres que estão fazendo a nova literatura brasileira, Editora Record,
Rio de Janeiro, 2005, organizzato da Luiz Ruffato.)
.
Precedente Successivo
Copertina
|