CARLOTA


Rubem Fonseca

 



Ancora a letto, vidi dalla finestra che fuori pioveva.
E ora come faccio? Vagare di casa in casa, con l'ombrello aperto trascinando la borsa pesante piena di cosmetici, nella speranza di trovare qualche quarantenne interessata alle creme e agli altri prodotti di bellezza e che potesse pagarmi subito in contanti?
Basta con gli assegni postdatati, non ho più nemmeno il coraggio di avvicinarmi alla banca, so che gli assegni, che, stupidamente ho accettato la settimana scorsa, sono stati respinti.
Ora mi ricordo, è finito il caffè. E come posso alzarmi senza prendere una bella tazza di caffè?
Devo andare dal dottore, per farmi dire che cos'è questo dolore che sento nell'addome, nella parte sinistra. Che cosa c'è nella parte sinistra della pancia? Lo stomaco? Ma non è lo stomaco, è più su, più a lato. Ma cosa c'è quassù, da questa parte? Il fegato, la cistifellea?
Vivo sola. Ormai sono zitella. Mia madre, che è malata di Alzheimer, vive con mia sorella rimasta vedova, che ha i mezzi per prendersi cura di lei e abita in una casa più grande del loculo dove risiedo. Ogni domenica vado a trovarla, ma, oramai, non mi riconosce più. Poverina! Pensandoci bene, la poverina è mia sorella, è lei che soffre.
Mi alzai e senza la tazza di caffè mi sentivo come uno zombie.
Non avevo neanche al forza di farmi un bagno. A dir la verità, prima io facevo il bagno tutti i giorni, a volte anche due al giorno, uno al mattino e uno prima di andare a letto. Dopo ho iniziato a fare un bagno al giorno, e ultimamente faccio un bagno un giorno sì ed un giorno no e una volta rimasi tre giorni senza farmi il bagno, lavandomi nel bidet e lavando le ascelle con la spugna, dandomi il deodorante.Non posso mica puzzare, suonare il campanello della porta e dire, signora vuole comprare creme, profumi e altri prodotti di bellezza?
Ebbi difficoltà nel sistemare i prodotti nella borsa.
Come ho fatto a scordarmi di comprare quel maledetto caffè?
Frugai negli armadi per vedere se ne trovavo almeno un pacchetto, ma ho solo due armadi, fu facile vedere che non avevo caffè in casa.
Abito in un monolocale, che non ha neanche la cucina, apro lo sportello dell' armadio e là c'è un fornellino alimentato da una bombola, dove preparo il mio caffè. Nel bagno c'è una doccia elettrica, la compagnia del gas dice che il mio appartamento non ha la ventilazione adeguata per avere l'impianto del gas. Mi sono stufata di chiederlo.
Finalmente riuscii a vestirmi. Trascinarsi un ombrello e una borsa pesante piena di vasetti e altre confezioni di varia misura non è facile.
Quando fui in strada notai che non avevo preparato il mio giro di visite. Mi mancava il caffè, ero ancora piuttosto intontita. Dovetti tornare a casa mi levai l'impermeabile, mettere l'ombrello che gocciolava nel bagno e sedermi nel letto, aprire il mio taccuino e scrivere su un foglio il mio giro di visite della giornata. Dopo averlo fatto, uscii un' altra volta.
Aspettai l'autobus per andare in quella zona della città che dovevo coprire.
Abito in un quartiere vicino alla favela, il quartiere stesso si sta favelizzando, ma io non posso mica permettermi un affitto più alto e così devo starci per forza. Nelle vicinanze c'è solo una bettola, sudicia e malfamata, evitavo di metterci piede. Ma quel giorno o prendevo un caffè o crollavo per terra.
Mi decisi a entrare. Come sempre, c'erano un sacco di tipi loschi; alcuni prendevano caffelatte con pane e burro, altri bevevano cachaça. Non so come questi soggetti riescano a bere di prima mattina.
Ordinai una bella tazza di caffè nero. Mi aspettavo che servissero un caffè schifoso, come quelli che dicono che è allungato con la cicoria, invece il caffè era fantastico. Non avrei mai pensato che un postaccio come quello, dove il barista aveva un grembiule immondo, potesse fare un caffè così gustoso. Il piacere che provai annullò l'odore di quel posto e mi fece dimenticare la presenza di quegli ubriaconi e di quei balordi, che prendevano caffelatte con pane e burro. Avrei voluto un'altra tazza, ma temetti che non fosse buona come l' altra e guastasse il gusto che la prima mi aveva lasciato in bocca.
Pagai il caffè, presi l'ombrello, ma quando cercai la borsa era scomparsa. Chiesi al barista della mia borsa. Egli mi rispose che non ne sapeva nulla; io ero arrivata lì senza nessuna borsa. È arrivata con una borsa questa ragazza? Gli ubriaconi e i bevitori di caffelatte con pane e burro dissero che ero arrivata senza borsa. Dissi che li avrei denunciati alla polizia. Vada pure, mi rispose il barista, e tornò a servire gli altri clienti.
Rischiavo di perdere il lavoro e quello mi fece talmente arrabbiare che urlai, ci sono solo ladri in questo paese, qualcuno ha rubato la mia borsa. Ladri, gridai, ladri.
Mi faceva male il lato sinistro della pancia. Cominciai a piangere.
Un tizio, che era vicino a me con un alito pesante di cachaça che mi entrava nel naso come il trapano del dentista, disse calma signora non si disperi, tutto si aggiusta.
Schifata, mi allontanai da quel tipo e uscii correndo, salii le scale del mio palazzo, lì non c'è l'ascensore, ed entrai ancora piangendo nel mio appartamento, lasciai l'ombrello gocciolante nella sala e mi sedetti nell' unica poltrona che c'era.
Quando mi asciugai gli occhi vidi che, appoggiata alla parete c'era la mia borsa. Corsi fino a là, guardai, l'aprii. Dentro c'erano tutti i miei prodotti. Ma io ero uscita con la borsa, l'avevo lasciata per terra nel bar, ne ero sicura. È stato un miracolo o sono io che comincio a dare i numeri?
La prima cosa che faccio quando esco è comprare due chili di caffè.



(Racconto tratto dalla raccolta Ela, Casa Editrice Companhia das Letras, São Paulo, Brasile, 2006. Tradotto da Julio Monteiro Martins, insieme ai suoi allievi del 3° anno di Lingue dell'Università di Pisa Claudia Sgadò, Simona Bruno, Francesca Riccarelli, Nunzia De Palma, Laura Marletti e Maria Teresa Marè.)


Rubem Fonseca


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