STORIA E GUERRE DEL MIO POPOLO
Ferreira
Gullar
Accanto
alla vecchia staccionata crescevano le erbacce come un incendio, di fuoco morbido
e feroce: l' intero cortile era illuminato dal chiarore delle foglie, tra le quali
passavano le galline, come grifoni di oggi, trascinando vive, sotto una domesticità
quotidiana, le furie della propria origine. Famiglia di distratti, la nostra.
Il cortile era un inferno che ardeva in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti,
e noi non lo sapevamo. Nello sfarzo diurno dell' estate, i fiori accesi nell'
aria, rossi e neri, e un rituale che attraversava le notti, non mi lasciava dormire.
Mi svegliavo, mi alzavo e andavo alla festa di silenzio e luce. Insetti azzurri
mangiucchiavano le foglie; una tensione quasi insopportabile di sacrificio e barbarie.
Ogni essere, ogni pianta o animale, ronzava nella sua combustione solitaria ma
felice, e sotto il carbone si sentivano i gorgheggi di un' unica e allucinante
allegria. In seguito, iniziava la metamorfosi dei colori e dei movimenti: tutto
emanava un calore estremamente puro, che si alzava subito all' alba come colonne
in cui il sole si frantumava. Nei pomeriggi, sdraiato sulla mia amaca, e il
mio odore, il profumo maledetto dei venti intestinali, della bava della fame,
del sesso trasudato da ogni parte del corpo, che il cotone custodiva e diffondeva
in continuazione come un lume nella tranquillità della casa; già
allora sapevo quello che diceva la Storia, e l' ascoltavo, divorato dalle formiche,
le belve della sera nate dal midollo di ogni fiore, portatrici del proprio fuoco
iniziale, paglia nelle proprie ali, diaspro nel gancio della sua meccanica mezzo
vegetale, mezzo algebrica. Le pieghe della mia pancia erano luminose perché
stavo diventando un animale d' oro. In aprile, il sole aperto sulle corolle
dell' inferno, gli aromi furiosi, ardenti mi bruciavano il viso, i capelli. Ogni
stelo di vetro reggeva un fascio dove la vita scoppiava impazzita, suicida, vera.
Il corpo di Ranara, bianco, si intravedeva tra la vegetazione, nell' amalgama
delle sue risa, e lo scintillio dei denti che si indovinava dalla terra. Vedevo
il vento e pensavo ai suoi frutteti, dove soffiava. Le parole, che un giorno le
cose mi avrebbero richiesto, si muovevano, pura materia calcica, sotto la mia
epidermide. La gioia della sua evidenza saliva come un brodo fino alla mia gola,
mi stringeva le ghiandole. La voce di mia madre risuonava da molti secoli nella
casa, nelle stanze dei morti, e io cominciavo a singhiozzare fissando questo giardino
di furie. Il funzionamento del cortile, le banderuole, la cosmogonia, la botanica,
non mi interessavano più. La mia testa pendeva fino alla polvere più
intima, le formiche salivano, verso i miei occhi, mi invadevano dalle orecchie,
dalle unghie, rodevano e bucherellavano le mie dita. La voce di mia madre
penzolava ora impigliata nelle ragnatele, nell' alto di ogni tetto con solaio,
nelle stanze vuote, la sua voce, invecchiata dal tanto chiamarmi, imprigionata
come una mosca. I ragni arrivavano e cominciavano a divorarla: le loro bocchine
si doravano nel luminoso lavorio di consumare il verbo affettivo, l' amore materno,
puro verbalismo. Il corpo di mo padre, steso sul pavimento, marciva e si disintegrava
in milioni si soli minuscoli. Arrivò l' inverno: le acque cadevano
troppo vecchie per quel tempo, come lingue di chiarore sui vetri; e i soli lì,
nella polvere, esatti e impersonali. Tra loro, qualche dente rimasto immune all'
alchimia. Nel cortile, la pioggia inzuppava il mio corpo; gli uccelli sbattevano
le ali quasi senza rumore, in quella notte di temporale. Tra i fili traslucidi
di quell' inverno inaspettato, ogni foglia, ogni fiore, sosteneva la sua bellezza.
Io ridevo, guardandoli. Mi vendicavo della mia luce così precaria, del
mio corpo di ossa bruciacchiate. Le acque scavavano quella notte, facendola sempre
più profonda, di tenebre. Pensavo a quell' acqua che inondava il contorno
del pianeta, e cadeva nell' abisso cosmico in movimento. Le gocce incessanti mi
riempivano la bocca spalancata, cantavano nella mia gola come in una brocca, e
scorrevano dagli angoli come se io veramente ridessi.
Dopo quella stagione, il sole arrivò torrido. Un vento aspro e insistente
sollevava la polvere da terra. Il cortile, deserto di ogni forma di vita - né
piante né galline -, sembrava disfarsi ad ogni soffio del vento maledetto.
I miei vestiti, incollati al suolo, si consumarono, si confusero nella terra:
la mia pelle cominciò a sgretolarsi come carta rinsecchita. Demoni diurni,
con le loro vesti di vetro, passavano ridendo fragorosamente per il cortile, e
ad una velocità allucinante. Uccelli strani iniziarono ad apparire, sempre
a mezzogiorno, grossi e rossi, puzzando di angelo, si posavano sulla terra assolata
del cortile, e cominciavano a rodere i petali assassinati, le foglie defunte,
il cui brillio e profumo avevano bevuto loro stesse fino all' ultima goccia, prima
di arrendersi a quello sterminio. Nel frattempo, il mio corpo marcio e rinsecchito
si fondeva con la terra. Più tardi, il vento soffiava libero nello stesso
luogo dove stavano le mie ossa. Le stesse ossa che erano già diventate
il vento che soffiava lì. Gli uccelli rossi si impadronirono del cortile.
In quel campo di aridità vivevano e si amavano. Il loro canto terribile,
a poco a poco, demoliva la nostra casa. Non ci fu più né pioggia
né notte. Nel profondo di quella terra, però, la mia immaginazione
si organizza, prepara un' invasione e una strage generale. Forse ci vorrà
molto tempo, forse mi scoccerò e non farò niente. Ma, per il momento,
questa è la verità. L'originale
in Portoghese: HISTÓRIA
E GUERRAS DE MEU POVO
Junto à cerca velha cresciam as ervas como um incêndio, de fogo macio
e feroz: todo o quintal era iluminado pelo clarão das folhas, entre as
quais passavam as galinhas, como grifos de hoje, arrastando vivas, debaixo de
uma domesticidade cotidiana, as fúrias de sua origem. Família de
destraídos, a nossa. O quintal era um inferno ardendo em pleno dia, à
vista de todos, e não o sabíamos. Na pompa diurna de cada verão,
as flores acesas no ar, vermelhas e negras, e um ritual que atravessava as noites,
não me deixava dormir. Eu acordava, erguia-me, vinha para a festa silenciosa
e feérica. Insetos azuis roíam as folhas; uma tensão quase
insoportável de sacrifícios e barbárie. Cada ser, cada planta
ou bicho, zunia na sua combustão solitária, mas feliz, e sob o carvão
se ouviam os gorgeios da única e alucinante alegria. Depois, principiava
a metamorfose das cores e dos movimentos, tudo jorrando de si uma claridade extremamente
pura, erguida logo ao amanhecer como colunas onde o sol se esfacelava. Nas
tardes, deitado em minha rede, e o meu cheiro, o perfume maldito dos ventos intestinais,
da baba da fome, do sexo porejado por todas as partes do corpo, que o algodão
guardava e expunha permanentemente como um lume na tranqüilidade da casa;
já então eu conhecia o que dizia a História, e a ouvia, devorado
pelos formigões, as feras vesperais nascidas do miolo de cada flor, condutoras
do próprio fogo inicial, palha em suas asas, jaspe no guincho de sua mecânica
meio vegetal, meio algébrica. As dobras de meu abdômen eram luminosas
porque eu me ia tornando um bicho de ouro. Em abril, o sol aberto sobre as
corolas do inferno, os aromas furiosos, ardentes, queimavam-me o rosto, os cabelos.
Cada haste de vidro segurando um facho onde a vida rebentava desvairada, suicida,
verdadeira. O corpo de Ranara, branco, era visto nos claros da vegetação,
na mistura de seu riso, e o brilho dos dentes que se adivinhava dentro da terra.
Eu via o vento, e pensava nos seus pomares, donde ele soprava. As palavras, que
um dia as coisas reclamariam de mim, moviam-se, pura matéria cálcica,
sob minha epiderme. A alegria de sua evidência subia como um caldo até
minha garganta, engatava-me nos gânglios. A voz de minha mãe soava
há muito séculos dentro da casa, nos aposentos dos mortos, e eu
começava a soluçar fitando esse jardim de fúrias. O funcionamento
do quintal, as flâmulas, a cosmogonia, a botânica, já não
me divertiam. Minha cabeça pendia até o pó ínfimo,
as formigas subiam, para os meus olhos, invadiam-me pelos ouvidos, pelas unhas,
roíam e brocavam os meus dedos. A voz de minha mãe balançava
agora presa nas teias de aranha, no alto de cada teto com forro, nos aposentos
vazios, a sua voz, envelhecida de me gritar, aprisionada como uma mosca. As aranhas
vinham e começavam a devorá-la: suas boquinhas douravam-se no trabalho
luminoso de consumir o verbo afetivo, o amor materno, puro verbalismo. O corpo
de meu pai estendido no assoalho apodreceu e desintegrou-se em milhões
de sóis minúsculos. Veio o inverno: as águas desciam
muito velhas para aquile tempo, como línguas de claridade pelas vidraças;
e os sóis ali, na poeira, exatos e impessoais. Entre eles, alguns dentes
que não lograram a alquimia. Lá no quintal a chuva ensopava meu
corpo; os pássaros moviam quase sem rumor as asas, naquela noite de temporal.
Entre os fios translúcidos daquele inverno inesperado, cada folha, cada
flor, sustinha a sua beleza. Eu ria, espiando-as. Eu me vingava de minha luz tão
precária, de meu corpo de ossos chamuscados. As águas iam cavando
aquela noite, fazendo-a mais e mais funda, de ténebras. Pensava naquela
água jorrando pelo contorno do planeta, caindo no abismo astral e móvel.
As gotas sucessivas enchiam-me a boca escancarada, cantavam na minha garganta
como dentro de uma bilha, e se derramavam pelos cantos como se eu realmente risse.
Depois dessa estação, o sol veio tórrido. Uma ventania áspera
e insistente voava com o poeirame do chão. O quintal, deserto de toda vida
- nem as plantas ne mas galinhas -, paremia se desfazer a cada sopro do vento
maldito. As roupas de meu corpo, coladas no chão, poíram-se, perderam-se
na terra: minha pele começou a se partir como papel ressequido. Demônios
diurnos, com suas vestes de vidro, passavam gargalhando sobre o quintal, e numa
rapidez alucinante. Pássaros estranhos deram de aparecer, ao meio-dia sempre,
vermelhos e grandes, fedendo a anjo, pousavam no chão assolado do quintal,
e começavam a roer as pétalas assassinadas, as folhas defuntas,
cujo brilho e perfume elas mesmas beberam até a derradeira gota, antes
de se renderem àquele extermínio. Enquanto isso, meu corpo podre
e ressequido ia se fundindo à terra. Mais tarde o vento passava livre pelo
lugar onde estiverai meus ossos. Mesmos ossos que eram já o vento que corria
ali. Os pássaros vermelhos se assenhorearam do quintal. Naquele campo de
aridez viviam e se amavam. Seu canto terrível foi aos poucos demolindo
nossa casa. Não houve mais chuva nem noite. No fundo daquela terra, porém,
minha imaginação se reorganiza, prepara uma invasão e um
morticínio geral. Talvez demore muito, talvez eu me aborreça e não
faça nada. Mas, no momento, esta é a verdade.
(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi dell'Università
di Pisa Sara Barboni, Serena Benassi, Milena Bertelli, Ilaria Biagi, Barbara De
Cagna, Elisa Del Cesta, Angela Masotti, Aurora Simoni.)
Ferreira Gullar è probabilmente il più importante poeta brasiliano vivente.
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