TRE LETTERE -
Brano del romanzo Lo scommettitore - Remo
Bassini
(
) Nell'arco di tre giorni furono trovate tre lettere anonime. La numero
uno di giovedì, verso le diciassette: in una chiesa, da un prete, dentro
il confessionale. La numero due di venerdì, al mattino: nella cassetta
delle lettere di un integerrimo maresciallo dei carabinieri in pensione. La
numero tre di sabato, nel primo pomeriggio: sotto la porta delle sede di un'associazione
di volontariato, gente che dava una mano alla casa di riposo. I biglietti,
scritti al computer, erano dentro una busta bianca, aperta. Sulle buste, con caratteri
prima ritagliati da un giornale e poi incollati, qualcuno aveva scritto: PER IL
COMMISSARIO ANTONIO DELLA BIANCHINA. E, su ogni busta, il relativo numero:
UNO, DUE, TRE. L'estensore delle lettere anonime le aveva preannunciate telefonicamente
al quotidiano Cronaca Nuova, precisando che i messaggi erano destinati al commissario
di polizia Antonio Della Bianchina. La sua volontà fu rispettata, e il
pomeriggio di un sabato freddo e bigio le tre lettere si ritrovarono ordinatamente
disposte nell'ordinatissima scrivania del commissario Antonio Della Bianchina.
Erano lì, la uno, la due e la tre, una sopra l'altra come un letto a castello,
a tener compagnia alla foto della moglie e delle tre figlie del commissario, a
un quadretto raffigurante la Madonna di Fatima, al solito calendario da tavolo
della polizia e, naturalmente, al computer d'ordinanza. La prima lettera, la
numero uno, era tutta stropicciata. Questo perché don Alberto, dopo averla
letta e riletta, al punto che la sapeva quasi a memoria, l'aveva appallottolata
e messa in tasca, impregnandola così del suo sudore, indeciso sul da farsi:
perché doveva prendersi il mal di pancia di chiamare la polizia? Chi era
mai il commissario Della Bianchina? Non era meglio custodirla da qualche parte,
magari in cantina, insieme a un vecchio, ben nascosto e ben conservato calendario
Pirelli? Quando era stato raggiunto da due telefonate, la prima di un
giornalista di Cronaca Nuova: È vero che nel suo confessionale ha trovato
una lettera anonima indirizzata al commissario Della Bianchina? La seconda dello
stesso commissario, l'aveva tirata fuori e ripiegata alla bell'e meglio. Rileggendola
per l'ennesima volta, don Alberto pensò che se avesse potuto avrebbe fatto
bene a fotocopiarla, ma non c'era tempo per studiare il modo di mandare qualcun
altro, poteva mica andare lui in copisteria. Non era roba da prete perbene. Lui
non lo era, un prete perbene. Piccolo, grasso, vicino ai settanta, aveva ancora
una voglia matta di donne. Certo, ne aveva una, ma troppo in là con gli
anni, solo cinque meno di lui. Don Alberto avrebbe dato chissà che per
una bella trenta-quarantenne. Anche il quadro di valore, di artista ignoto ma
di epoca rinascimentale, unica cosa degna di nota in quella chiesa scalcinata:
tanto poi avrebbe detto che erano stati i ragazzi dell'oratorio, che non sopportava,
a rubarglielo. Con la sua quasi coetanea, poi, era una cosa penosa, e tanto. Doveva
ricorrere al Viagra e a dosi massicce di fantasia. Per questo la lettera gli era
piaciuta così tanto. Perché, miracolosamente, gli aveva provocato
un rigonfiamento, per di più naturale, che per lui non era certo cosa da
tutti i giorni. Leggere che l'avvocato penalista più famoso della città
lega la moglie al letto, nuda, col sedere che dà verso l'alto dei cieli,
e che quel sedere, bene in mostra a tutti i santi del paradiso grazie a due cuscini
sotto la pancia della signora, viene trafitto dal manico di una scopa, a don Alberto
provocava una sorta di preorgasmo. Che aumentava, leggendo di frustate e sputazzate
sulla schiena della signora, lei sì bella e, da quanto ricordava, sui trentasei-trentasette,
massimo trentotto anni. Era un'immagine sacra, da tenere a mente, in vista della
prossima penosa puntata con la quasi coetanea. Poi ideologicamente don Alberto,
più per invidia che per altro, non sopportava l'alta borghesia, gente che
va a messa in pelliccia e poi ti fa un'offerta di cinque centesimi: così,
ripiegati il foglio e la busta per la consegna (a malincuore) all'agente che Della
Bianchina gli aveva inviato come messo, si augurò che il fottuto avvocato,
con villa più piscina più Porsche ultimo modello più moglie
pervertita o comunque accondiscendente più cameriera cubana (pure quella,
che però non aveva mai visto) fosse sputtanato sulla pubblica piazza, dal
momento che i giornali sapevano. Il vecchio maresciallo invece, il giorno seguente,
venerdì, non lesse il contenuto della lettera anonima numero due: dopo
aver sbattuto il telefono in faccia al giornalista, perché lui coi giornalisti
non aveva mai parlato in tanti anni di onorata carriera e non aveva intenzione
di farlo da pensionato, obbedì di buon grado alla telefonata del commissario:
Vada un po' a vedere se nella sua cassetta delle lettere c'è una busta
piccola, indirizzata a me. Vide la busta e la consegnò, di persona. A
sua disposizione, signor commissario. Quando la lesse, a Della Bianchina, che
stava sorseggiando il suo caffè purtroppo d'orzo causa tachicardia, restò
la tazza in mano.
L'avvocato
Giorgio Toscani, grazie alla complicità del pubblico ministero Carmelo
De Carmine, ha insabbiata un procedimento di usura contro Franco Cavezzan, proprietario
del night BellaGenova. L'ultima
lettera anonima, la numero tre, fu trovata da una volontaria della casa di riposo
il giorno dopo, sabato pomeriggio: qualcuno l'aveva infilata sotto la porta dell'associazione.
La donna, curiosa, lesse, un po' capì e un po' non volle capire (Possibile?
N000), tornò a casa, mostrò la lettera alla figlia, che lesse e
capì (Bella roba) e che ebbe il compito di portare la lettera in questura. Dal
momento che quell'associazione di volontariato non aveva un telefono, quando il
giornalista di Cronaca Nuova arrivò - era partito a razzo appena ricevuta
la solita telefonata anonima - non trovò nessuno. Con il cellulare chiamò
in questura chiedendo del dottor Antonio Della Bianchina. Che in quel preciso
istante, seduto davanti alle lettere anonime uno, due e tre, non poteva rispondergli
perché stava già telefonando: cercava, senza fortuna, di rintracciare
il questore oppure un vice oppure il capo della squadra mobile, che però
non gli piaceva perché era giovane, gasato e pure un po' maleducato. Nel
terzo biglietto c'era scritto: Due
mesi fa, il 15 dicembre, al pronto soccorso si è presentato un uomo, un
nigeriano. Lamentava forti dolori al petto e al braccio sinistro. Dopo una visita
sommaria, uno dei quattro medici di guardia, facilmente identificabile perché
figlio del primario di Neurologia, lo dimetteva, senza motivo se non quello dell'odio
che il suddetto medico prova per le persone di colore. La notte stessa il nigeriano
è spirato nella sua abitazione. Alcuni giorni dopo un'infermiera del pronto
soccorso, testimone della dimissione immotivata, avendo saputo della morte dell'extracomunitario
ha sporto denuncia alla procura della Repubblica. Il giovane medico, difeso dall'avvocato
Giorgio Toscani; interrogato, ha confutato quanto raccontato dall'infermiera.
La pratica è stata così archiviata. Il medico non ha ricevuto neanche
un richiamo verbale, l'infermiera invece è stata trasferita ad altro reparto. Della
Bianchina, è arrivato il questore, disse l'ispettore Mariano Santapaola
entrando. Finalmente, rispose il commissario. Quel Finalmente continuò
a restargli impresso come una litania. Finalmente c'è qualcuno che li sta
mettendo in croce, quei bastardi di Toscani e De Carmine. A lui non erano mai
piaciuti. Sapeva che andavano insieme nel night BellaGenova, luogo di ritrovo
anche per alcuni suoi colleghi, oppure a pescare, e che poi nell'aula del tribunale
facevano finta di scannarsi quando in realtà si erano già messi
d'accordo. Sapeva che l'avvocato Toscani era uno degli uomini più potenti
della città, e che godeva di protezioni "in alto". Quello
che non riusciva a immaginare, Della Bianchina, era l'uomo che aveva indirizzato
le lettere a lui. Ne aveva passate in rassegna tante di facce e di persone con
molti validi motivi per odiare Toscani, ma più ne passava in rassegna e
meno gli tornava una cosa: perché era stato scelto lui come destinatario
delle tre lettere anonime? Dio santo, poteva essere la moglie dell'avvocato,
la signora Lucilla: chi meglio di lei avrebbe potuto essere al corrente di tante
notizie riservate? Le porcate del marito non soma le altre sono da verificare,
Cavezzan è un lercio, pensava Della Bianchina. Ma perché cavolo
avrebbe dovuto indirizzarle a me quelle tre lettere? Mentre lui la conosceva di
vista - come non notare una bionda così bella e svampita? - e di fama -
più giovane del marito di quindici anni, si diceva che collezionasse giovani
stalloni - la signora Lucilla di sicuro non conosceva Della Bianchina né
di fama né di vista, perché di cinquantacinquenni alti un metro
e settanta con pancia e doppio mento il mondo è pieno. Della Bianchina,
sbrigati, il questore ti aspetta. Momento! Mentre scioglieva in acqua un'aspirina,
la sua testa, malandata e vicina al cortocircuito, continuava a tormentarlo: Metti
che sia lei, le telefonate anonime al giornale chi le avrebbe fatte? Un suo spasimante?
E adesso il questore che farà? Appena uscito vide che il collega e amico
lo stava aspettando: Santapaola, eccomi, dov'è il questore? Della Bianchina,
ma quando fotti, almeno alla fine la dai un'accelerata o no? Andiamo, ci aspetta
nel suo ufficio, è incazzato nero, gli hai interrotto l'aperitivo del sabato
con i suoi amici del Rotary. La
lettera anonima numero tre, quella che accusava il medico di omissione di soccorso
nei confronti dell'extracomunitario e del successivo ricatto subito dall'infermiera,
arrivò anche alla redazione di Cronaca Nuova la sera di sabato. Nella busta,
sempre con la tecnica del collage di lettere di giornale, c'era scritto: PER
IL DIRETTORE. Sotto, l'indicazione: TRE. A differenza delle altre, recapitate
e ora a disposizione della questura, era in una busta chiusa. Cardoni,
che come al solito si trovava da solo nel suo ufficio, la lesse, dopo averla aperta
con un vecchio affilatissimo tagliacarte, regalo di suo padre. Il vai e vieni
di una volta se l'era dimenticato: ora pure lui scriveva gli ordini di servizio
utilizzando la posta elettronica. Non sempre, però. Il giornale, erano
le sette di sera, ormai era definito, e in prima pagina c'erano alcune notizie
interessanti, altre meno. Si trattava dunque di decidere se toglierne una per
sostituirla con un articolo sulla terza lettera anonima. Ma in che modo? Pubblicarla
così, integralmente, non era possibile: come minimo lo avrebbero querelato
in tre, con conseguente richiesta di danni: l'avvocato Giorgio Toscani, il sostituto
procuratore Carmelo De Carmine e pure il medico, se lui avesse riportato il particolare
che ne avrebbe facilitata l'identificazione: e cioè che era figlio del
primario di Neurologia. Telefonò al suo amico Della Bianchina, Può
rivelarmi il contenuto delle altre due lettere anonime? avrebbe voluto domandargli. Il
commissario, che stimava Cardoni e si fidava di lui, stavolta appena alzata la
cornetta del telefono aveva giocato d'anticipo: Dottore, mi chieda tutto quello
che vuole ma non mi parli delle tre lettere anonime. E Cardoni, che stava per
dirgli: Una l'ho letta, mi dica un po' delle altre, preferì non insistere. Era
indeciso, non sapeva che fare. Ma in quei casi, di estrema delicatezza, non voleva
chiedere consiglio a nessuno. Non era sua abitudine. Aveva comunque una certezza:
che sarebbe uscito dal suo ufficio e, rivolgendosi a un redattore, avrebbe chiesto
trenta righe scritte in un certo modo. Uscì, cercò con gli occhi
Giulia Malcontenti, la intercettò con lo sguardo, e un po' gli spiacque
nel sorprenderla mentre stava bisbigliando qualcosa nell'orecchio del caporedattore,
noto cacciatore di donne. Le fece leggere la lettera, poi, con la sua voce
forte, un po' nasale, le disse: Scriva trenta righe e racconti, senza fare nomi,
cosa c'è in questa lettera anonima. Scriva che noi vogliamo e pretendiamo
di sapere se corrisponde a verità che un essere umano è stato praticamente
ucciso, o se invece l'autore anonimo di queste missive è un folle. Vada
a scrivere il pezzo nel mio ufficio, così si potrà concentrare meglio,
e poi mi riporti la lettera. Ma mi raccomando, signorina Malcontenti, quei nomi
devono restare nella sua testa, solo nella sua testa. Ora vada che è tardi. Mentre
quella si apprestava a eseguire come una scolaretta diligente e onorata, Cardoni,
rivolgendosi al caporedattore, che non sembrava troppo contento di non essere
stato messo al corrente, disse: Stravolgiamo la prima pagina. Voglio che sia fotografata
e che si veda bene la busta con la scritta PER IL DIRETTORE. Scommettiamo che
domani divento famoso? Mentre gli altri, ad eccezione del caporedattore, ridevano,
perché si ride sempre quando il capo fa lo spiritoso, Cardoni si mise in
bocca la pipa, con tanta voglia di fumarla. Non poteva: aveva dato disposizioni
tassative contro il fumo. In quel momento se ne penti. Il mattino successivo,
domenica, in prima pagina, firmato da Giulia Malcontenti, uscì il primo
di una serie di articoli dal titolo Lettere anonime, accuse o veleni? Mica
vero che la legge italiana è lenta, pachidermica, poco elastica. Quella
domenica, mentre Della Bianchina stava per andare alla messa delle nove con moglie
e una delle figlie - le altre due, frequentatrici del centro sociale, manco più
sapevano cosa fosse un'ave maria - fu raggiunto da una telefonata del questore. Ha
letto l'articolo di Cronaca Nuova? Non ancora signor questore, proprio ora
stavamo... Bene, lo legga e alle quattordici in punto mi raggiunga in prefettura.
C'è una riunione a cui lei deve partecipare, ma mi raccomando: non ne faccia
parola con nessuno, né con sua moglie né con altri, siamo intesi?
E sia puntuale. Neanche un saluto, un Ci vediamo, un Mi passi a prendere che
andiamo insieme. Ti venissero le emorroidi sanguinanti, che impazzisci
se non ti gratti il culo, pensò Della Bianchina, con nelle orecchie quel
fastidioso E sia puntuale. Lo fu come sempre: e alle due del pomeriggio, spaccate,
anziché assaporare crostata di mele e caffè con moglie e figlie,
si ritrovò, con la digestione in corso, seduto all'immenso tavolo della
sala riunioni della prefettura. Oltre a lui c'erano il questore, il comandante
della stazione dei carabinieri, il colonnello della guardia di finanza, e anche
il sindaco. Manca il vescovo, pensò Della Bianchina, che restò di
sale di pepe e di origano quando vide, sottobraccio al prefetto, entrare nientemeno
che il presidente del tribunale, un sardo sfaticato: La vergogna della Sardegna,
pensò Della Bianchina. Che a quel punto capì d'esser l'unico fesso:
nessuno banfava e tutti, era chiaro, aspettavano ancora qualcuno. Vuoi vedere,
pensò, che adesso arriva quel coglioncello di Grandini con un elenco di
sospettati. Il grande capo della squadra mobile, giovane, gasato e stronzo. Sempre
profumato e con la testa impataccata di gel. Finalmente il continuo scrutare
ora la porta ora orologi e cipolle - quella del presidente del tribunale aveva
pure un carillon quando si apriva - cessò. Eccolo arrivato, l'ultimo ospite.
Quasi quasi vomito, pensò Della Bianchina, che avrebbe preferito dover
sopportare l'insopportabile boria del capo della mobile Grandini piuttosto che
alzarsi per stringere la mano all'avvocato Giorgio Toscani. Non ebbe nemmeno
il tempo di riprendersi, di fare il conto di quanti, fra i presenti, erano iscritti
alla stessa loggia massonica odi dire a se stesso che non vedeva l'ora di andare
in pensione, che il prefetto, guardandolo con aria semischifata gli ordino: Ci
racconti, Della Bianchina, dall'inizio. Aveva poco da raccontare, lui. Oddio:
che il giorno precedente avesse chiesto al suo amico Santapaola di prendere tutte
le informazioni possibili sulla signora Toscani, Lucilla Vivantini - la sospettata
numero uno era lei - mica lo poteva dire, eppoi le indagini non erano cosa di
sua competenza, perché il questore aveva incaricato il capo della mobile,
il giovane, stronzo, borioso e incapace Grandini. Riferì così
quanto sapeva, Della Bianchina, nulla insomma che gli altri non sapessero già. Le
chiedo una cortesia, commissario, gli disse il prefetto, quantunque l'indagine
sia stata affidata ad altri, lei, nell'ombra, dia una mano a risolvere questo
caso. Confidiamo molto nella sua esperienza. E adesso raggiunga pure la sua famiglia,
si goda la domenica. grazie. Si alzò, intuendo che per le successive
deliberazioni lui era di troppo. Meglio, pensò; ma perché cavolo,
si disse sentendosi osservato da tutti mentre guadagnava l'uscita, non mi hanno
chiesto se ho dei sospetti? Appena uscito sentì alle sue spalle il rumore
della porta chiusa con troppa veemenza. Era stato sbattuto fuori, poco rispettato,
poco protetto dal suo questore. L'usciere della prefettura, però, di quel
botto non se n'era nemmeno accorto perché era lì, davanti a lui,
seduto dietro la scrivania, con la testa ciondoloni e la bocca aperta, a russare. Della
Bianchina non riuscì a resistere alla tentazione: fece due passi indietro
e appoggiò l'orecchio alla porta della sala riunioni, alla faccia della
tachicardia. Sentì solo due frasi, brevi. Il prefetto che diceva:
Come rispondiamo a quell'articolo di giornale? Con il silenzio, rispondeva
Toscani. Avrebbe dato chissà che cosa per restare: quelli, di sicuro,
un elenco di sospettati ce l'avevano, ma se ce l'avevano, era chiaro, non volevano
che lui sapesse. Appena in strada telefonò a Santapaola: Saputo qualcosa
sulla signora? Sì, che la storia che si fa sbattere da ragazzi giovani
è campata in aria. Tutti l'hanno sentita ma nessuno ha la minima prova. Di'
un po', chiese Della Bianchina: sai per caso se la signora lavora? Eccome,
fa shopping, va in palestra, va a farsi massaggiare le cosce, fa la lampada, va
a cena fuori col marito. Fa la bella vita, dunque. Non sempre, perché
ogni tanto va in giro con un occhio nero, il che potrebbe voler dire che magari
lei è un po' mignotta e l'avvocato un po' cornuto, disse Santapaola. O
magari no, disse Della Bianchina. O magari no, gli rifece il verso Santapaola,
per innestare immediatamente la retromarcia. No Tony, dai retta a me: lei è
mignotta, basta guardarla in faccia, e lui, che ha il cervello e magari la minchia
fuori fase, la pesta. E lei si è vendicata, fila tutto, no? Della Bianchina
non commentò. Gli sarebbe piaciuto avvicinare la signora Lucilla, capire
se aveva paura, perché non si può non averne con un marito così.
E se ha tagliato la corda e nessuno dice niente? pensò. La sua testa
intanto ululava, un male boia e nemmeno un'aspirina. In tasca aveva solo del Maalox:
la cucina di sua moglie, la domenica, prevedeva fritture e grassi in eccesso che,
associati a quella convocazione improvvisa, gli avevano fatto salire alle stelle
l'acidità di stomaco. E poi aveva sottovalutato l'esito della riunione:
si era arrabbiato, e lui, quando si arrabbiava, soffriva di emicrania. Ma perché
cavolo mi hanno convocato? E che ci faceva lì il sindaco, uno di sinistra,
amico delle masse lavoratrici e che sta pure simpatico alle mie figlie perché
durante la campagna elettorale è andato al centro sociale? Ci arrivò
solo dopo aver preso l'aspirina, un'ora più tardi: avevano invitato il
sindaco perché tutti i presenti - incluso lo stesso commissario Della Bianchina,
che era l'ultima ruota del carro - si ficcassero bene in mente un concetto: che
non erano ammessi colpi di testa. Cosa che, in passato, qualche volta si era verificata. Per
la verità il commissario sperava, e molto, in un nuovo magistrato, chiamato
da poco alla guida della procura. Sarebbe toccato a lui valutare il fascicolo
delle lettere anonime, il presidente del tribunale non avrebbe potuto interferire.
Aveva voglia di andare in pensione, lui. Santapaola, invece, nonostante fosse
suo coetaneo, si stava esaltando. Lo raggiunse al bar per comunicargli, trionfante,
che aveva un paio di cosette interessanti da raccontargli: sull'infermiera del
pronto soccorso, che prima aveva accusato il medico della morte del nigeriano
e che poi aveva ritrattato; e sulla cameriera cubana a servizio dall'avvocato
Toscani. Comincia dalla cubana, vai. Sei un porcone, lo sapevo, disse Santapaola. Non
mi va di scherzare, dài, racconta. (C'era un patto non scritto, tra
loro: in servizio il commissario si chiamava Della Bianchina e di fronte a lui
non erano ammesse parole sconce; fuori servizio diventava Antonio, e tutto era
permesso.) E vabbè, facciamo i seri. Di' Antonio, ma tu come te le immagini
le cubane? Non me le immagino. Va bene, ho capito, ho capito. La cubana,
dunque. La cubana non è una cubana di quelle, come dire, sul brasiliano. Mi
sembri scemo. Comunque ho capito, vuoi dire che non è una con cui andarci
a letto, quindi non è l'amante dell'avvocato. Che altro sai di lei? Poco,
è una ex mignotta che ora non si farebbe neanche mio nonno e che sembra
vada molto d'accordo con la signora. Chi te l'ha detto? Una che ha una boutique,
le due ci vanno insieme. Altro sulla signora Toscani? Per chi mi hai preso,
sono mica bravo come Grandini. Dimmi dell'infermiera, allora. Si è rimangiata
tutto perché il direttore generale dell'ospedale, che è amico degli
amici, ha minacciato di licenziarla e quella non è messa bene: ha due figli
che studiano e il marito che non ha voglia di lavorare. Povera donna, disse
Della Bianchina. Poveri noi, disse Santapaola. Perché poveri noi? Perché
questa è mafia. È merda, Santapaola, è un mare di merda.
(Brano tratto
dal romanzo Lo scommettitore, Fernandel editrice, Ravenna, 2006.)
Remo Bassini è nato nel 1956 a Cortona
(AR). È direttore del periodico "La Sesia" di Vercelli. Ha pubblicato i romanzi
Il quaderno delle voci rubate (La Sesia, 2002) e Dicono di Clelia
(Mursiam 2006)
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