RIONE
KURDISTAN Sarah
Zuhra Lukanic
1. La Palla
Rossa È l'alba nel nostro campo profughi. Fa freddo. Il moccio
si ghiaccia sotto le narici dei miei giocatori. Il vento gelido che sferza i pascoli
d'alta montagna sulle sponde di Zagros, ci costringe a scaldare i nostri polpacci.
Nessuno assiste alle nostre partite nel campo profughi, anche se tutti cerchiamo
di fare una bella figura. Io conosco appena le regole del gioco; le leggi ce le
spiffera Abdullah mano a mano. Lui viene nel nostro campo con suo zio per prendere
le mandrie di bufali. Si vanta come tutti quelli di Kirkuk. Lui ha la televisione.
Tutti i Turchi hanno la televisione. A noi c'è andata male. Malissimo.
Siamo nel 2002 e ci sono i Campionati del mondo di calcio. In Corea e Giappone.
A volte non capisco come vanno le cose e questa volta non ne ho capite due di
cose; la prima: com'è possibile che il campionato del mondo si svolga in
ben due nazioni? La seconda: non avevo la più pallida idea che quelli con
gli occhi a mandorla sanno tirare il pallone. Ma i tempi cambiano, questo mi dice
spesso Abdullah; anche il calcio cambia. Solo per noi curdi, paradossalmente,
non cambia nulla. Nulla. Siamo nel 2002. Ma a volte, nel nostro campo profughi
sembra il 1660, il 1899, il 1998
Il Kurdistan non giocherà mai ai
Campionati del mondo del pallone? Il Brasile ci gioca, mi ha detto Abdullah; qualche
volta lui racconta di paesi che a me paiono molo più sfigati di noi, ma
che, stranamente, hanno una loro patria. Lui racconta, intanto per noi non cambia
nulla. Nulla. Né ieri, né oggi. A volte vedo gli occhi delle capre
e delle pecore che mi fissano. Ma forse fissano solo la palla rossa, oggi l'unica
cosa macchia di colore nel nostro campo. La partita comincia all'alba, mentre
i radi raggi del sole sbucano timidamente tra gli altipiani anatolici e sciolgono
il nostro orto del gioco, ghiacciato e bianco. La nostra palla rossa l'ha fatta
Abdullah, con gli avanzi di lana di capra che i nostri uomini utilizzano per fare
le tende usate come abitazioni estive. Abdullah ci ha promesso che quando suo
zio venderà una parte della mandria di bufali a Kirkuk, ci porterà
un pallone, quello vero. Ma Abdullah non mantiene mai la parola, fa sempre
di testa sua, sia ieri sia oggi. Alcuni sparlano dicendo che non è un vero
curdo; sua madre era russa, ma è morta. Anche la grande Russia è
morta, si è spappolata dentro una brodaglia. Cavolo, tutto ciò ci
costerà caro, carissimo, ne sono sicuro. Guarda, mio nonno materno Rahid
aveva fatto dei calcoli dove risultava che quando la grande Russia avrebbe avuto
la sua fine, poco dopo saremmo finiti noi tutti. Cavolo, non si sarebbe giocato
più. Tutti in panchina. Tutti squalificati. Ma mica solo noi curdi, questa
volta proprio tutti tutti. Turchi e russi compresi. Nessuno escluso. Secondo
altri, la madre di Abdullah l'hanno fatta fuori; questo è il nostro diritto
alla vendetta. Io non credo molto alla gente che viene da quelle parti; spesso
dimenticano gli odori del miglio e li confondono con quelli dei pozzi petroliferi.
Abdullah è uno di loro. Ma la palla rossa l'aveva fatta a mestiere e per
questo io gli perdono tutto, ieri e oggi. Di mattina il nostro campo di calcio
è un grande quadro spennellato da un manto di brina bianca, dove nel centro
c'è la nostra palla rossa. Mi pare la grande bandiera nipponica che mi
saluta. Il calcio è pulito come la neve che si scoglie inesorabilmente
tra le mie mani, dentro il nostro campo da gioco. Improvvisato. Ma vale uguale. Sogno
i Campionati del mondo anche qui da noi, i mondiali tra gli altipiani anatolici,
e perché no, cari miei? Proprio qui, in mezzo alle greggi di capre e di
pecore che ci guardano e alle nostre madri che ci sgridano. A volte, le nostre
ginocchia sanguinano e le croste delle cicatrici sui gomiti grattugiati fanno
arricciare il naso alle donne del campo. È la sola volta che sento le voci
di quelle donne minute e piegate, mentre formano i mattoni crudi con i quali gli
uomini, durante l'inverno gelato, cercano di fare le costruzioni per sopravvivere
fino alla primavera. La mattina mentre si sbrina il nostro campo da gioco,
io fisso la mia palla rossa. Ogni quarantacinque minuti mi domando: che ci faccio
qui? Come so che passa proprio questo tempo? A volte conto dentro di me. Quarantacinque
minuti più quarantacinque minuti. Uguale novanta minuti. Da qualche parte
del mondo è finita un'intera partita. Poi, ancora una e ancora una. Ma
non per la gente del mio campo. No, non per noi. Ci hanno squalificato a vita.
Tutti i campionati finiscono così. Interi mondiali di calcio io li vedo
contando il tempo e fissando la mia palla rossa. Abdullah a volte dice che
il calcio è un attimo, dura quanto una bella sbronza o magari una succulenta
scopata. Ma io non conosco nessuno che è stato appiccicato a una donna
per novanta minuti interi. Abdullah dice che nell'occidente è tutto diverso.
A me pare che l'unica cosa buona di quel loro occidente sia solo il pallone. La
partita di calcio, ieri e oggi. Il giorno dopo ne parlano tutti, due giorni dopo
ne parlano pochi, tre giorni dopo non se ne ricorda più nessuno. Abdullah
racconta un sacco di balle. Ieri mi stava dicendo che pare che la Turchia abbia
vinto una partita importante e che si trovi nella semifinale dei mondiali. Ragazzi!
Ecco dove mi deformo dalla rabbia: se solo facessero entrare noi curdi per giocare
i mondiali! Altroché mamma li Turchi, come spifferano da anni in occidente.
Ma che! Mamma li Curdi! Dico io: fateci giocare, poi magari rimaniamo qui
nel campo buoni buoni, non daremmo fastidio a nessuno. Fateci uscire allo scoperto
ogni vigilia del mondiale. Noi intanto ci alleniamo per quello di Germania, che
sarà nel 2006. Mi domando, come si può arrivare fino in Giappone
per giocare? Forse arrivare alla porta di Brandeburgo, per noi curdi, sarà
molto più semplice. Basta che ci mettano dentro un treno. In giugno non
ci sarà più neve nel nostro campo profughi, non ci sarà più
neve nel nostro campo di calcio. La mia palla rossa rossa sarà ben asciutta
e pronta per essere calciata in alto. Goal! Partire per i mondiali
Io
potrei stare in piedi durante tutto il viaggio. Basta che ci facciano giocare.
Infine forse, per la partecipazione, ci potrebbero regalare un pallone vero. Se
vincessimo una medaglia ci potrebbero dare una nuova patria. Mi sembra giusto.
Avete vinto. Ed ecco il premio per voi. Il pallone mi fa sognare. Mentre calcio
la mia palla rossa rossa penso alla nostra rivincita. Il nostro campo abbracciato
in mezzo alle montagne di Zagros mi pare la nostra Copacabana. È la
mattina del 30 giugno 2002 e mi sono svegliato presto. Non riuscivo più
rimanere sotto la mia copertina ruvida; durante la notte mi scuotevo spesso, barcollando
sotto quel panno zigrinato che mi si attaccava addosso come un fastidioso sciame
di vespe. Non c'è da meravigliarsi, perché quella coperta mio nonno
la stendeva sopra il suo unico cavallo Pashà. Due anni fa Pashà
è morto, un mese dopo abbiamo sepolto anche il nonno e io ho ereditato
quella coperta. La notte stessa mio nonno mi è venuto in sogno. Gridava
gridava, c'entrava anche il pallone e mi sembra che nel sogno avevamo giocato
insieme a calcio. A questo ho pensato svegliandomi di colpo. È la
mattina del 30 giugno 2002 e sono uscito per allenarmi da solo. Mi sono messo
la maglietta che mi ha portato Abdullah, è quella di Baggio, un calciatore
italiano, che dicono essere in gamba. Per me tutti i calciatori lo sono. Ho detto
ad Abdullah che tifo per l'Italia ai mondiali. Lui ha storto la bocca, non condivide
mai quello che dicono gli altri, anzi, ha aggiunto che l'Italia sta giocando male.
Ma a me frega ben poco di quello che dice Abdullah. Mica devo sempre essergli
grato perché ci ha sistemato il pallone. A me l'Italia sta simpatica, una
volta ha anche ospitato il nostro Ocalan, lo Zio Apo. Ho rimproverato Abdullah,
dicendogli che gli amici non si devono scordare mai; lui mi ha risposto che quando
si tratta del pallone mi devo dimenticare di tutto, soprattutto dell'amicizia.
Ho storto la bocca rimanendo in silenzio. I veri calciatori fanno così.
Ma si sarebbe meritato un pugno secco, dentro quel campo, ve lo giuro. Le carogne
come Abdullah non devono toccare il pallone. Per nessuna ragione. Il campo
è ghiacciato e la mia palla rossa sembra una gigantesco fungo disteso sulla
sua superficie. L'unica mia gioia dentro quel campo profughi fottuto. La mia palla
rossa rossa
la mia maestra
la mia madre
la mia amata
il mio
figlio che forse non arriverà mai
quanto sono scemo così da
solo. Ha ragione Abdullah! Piove. Ho giocato tutta la mattina da solo. Gli
altri facevano i vaghi. Mia madre mi ha lasciato stare e io le sono grato perché
sa quanto il pallone sia importante per me. Nel pomeriggio è tornato Abdullah.
Mi ha detto che la Turchia ha vinto quella partita ai mondiali; ecco perché
mi era venuto nel sogno mio nonno Rahid, ho pensato, qualcosa non doveva andare
per forza e mi è scappato un sorriso sotto i baffi. Abdullah ha mantenuto
la parola, ci ha portato il pallone, quello vero. È bianco e si confonde
con il nostro campo pieno di brina. È un po' duro e quando lo calci fa
male. Qualche volta anche le carogne mantengono la parola; mi domando cosa ci
sia sotto. Mia madre ha lavato la mia palla rossa. Per asciugarla ci ha messo
quasi due settimane. Ha perfino acceso il fuoco per seccarla meglio. Sono rimasto
attaccato al fuoco perché avevo paura che qualcuno ce buttasse dentro.
Anche nel campo profughi si fanno gli sgambetti, eccome. Grazie mamma perché
hai asciugato il mio dono d'infanzia più bello. Hai prosciugato le mie
lacrime, dentro quel campo profughi, confuse con il sudore che mi gocciolava nel
campo di pallone. La mia palla rossa la uso come cuscino sotto la mia testa.
I veri calciatori fanno così, dormono con i loro ricordi. Ho ancora la
maglietta di Baggio. Mi alleno per i mondiali. Nel mio sogno gioco con nonno e
nel nostro campo profughi conto le partite che giocano gli altri. 2.
Panda 30CL Sono partito dal nord della Turchia nel novembre del 1999, non
mi ricordo il giorno esatto; ma mentre mi lasciavo alle spalle i campi profughi
dei curdi sparsi sugli altipiani della frontiera, sentivo dalle radio locali che
la gente di tutto il mondo si preparava per i festeggiamenti del millennio che
stava per arrivare. Ho passato quasi due settimane nascondendomi di giorno e camminando
di notte; appena eravamo raggiunti dalle prime luci dell'alba, ci portavano in
un rifugio, che ci attendeva preciso come un cronografo svizzero. Dentro svariate
catapecchie eravamo accolti da anonime donne con qualche pietanza calda. Non pensavo
a nulla, volevo solo nutrirmi nel silenzio assieme agli altri sciagurati di questa
avventura. Nelle montagne Zagros ho lasciato il vento amico che spazzava via
il malodore di gente che non aveva possibilità di lavarsi; un freddo che
prepotentemente entrava sotto i maglioni usati fatti di lana di capra, la stessa
che i nostri vecchi utilizzavano per costruire le tende nere che servivano come
abitazioni estive. Tenevo stretta la pasmia che mi regalò nonna
Aza; ma la nascondevo con il maglione, perché mi vergognavo a morte del
suo colore rosa pesca, mi sembrava da femminuccia; ma con il passare del tempo
quel colore rosa, quasi sbiadito del tutto, ha perso la sua brillantezza, diventando
opaco e insignificante come il nostro viaggio. Mettevo la mia pasmia coraggiosamente
davanti alla bocca, per non far spezzare le mie labbra dal vento gelido e nemico
della montagna. Assieme ai baffi, tenuti rigorosamente da noi tutti come fa
Apo, nostro zio Ocalan, recentemente arrestato in Kenya, mi sono lasciato
crescere la barba. Per un oscuro motivo, ognuno di noi aveva una qualche fiducia
nell'Italia, la nuova patria che ci attendeva
sperando di non fare la fine
dello zio. La mattina, nei villaggi dei profughi che ho lasciato, gli uomini
puntualmente si radevano; nelle bacinelle d'alluminio, oramai usurate e deformate
dai viaggi e dalla cattiva manutenzione, scioglievano la neve per farne acqua
tiepida; davanti a loro usualmente mettevano un bambino, meglio se era grandicello;
insomma, il più obbediente, che gli serviva per tenere i pericolosi e spigolosi
pezzi di specchio che essi usavano per vedere bene dove si radevano. Non era difficile
trovare nei campi bambini con le manine fasciate dalle garze di lana, che restavano
immobili per sostenere quei pezzi di vetro, e qualche volta, tutto il rituale,
durava ore. Sinceramente era facile trovare dei bambini disposti a questo sacrificio,
e per me aveva dell'incredibile l'accorgermi che dei piccini messi in quelle disagiate
condizioni, ammassati con i resti delle mandrie di bufali e con gli sparsi greggi
di capre e pecore, riuscivano ancora a sorridere; io mi sentivo scomodo. Loro,
dentro quel quadruccio di crudeltà da campo profughi, avevano gli occhi
lucidi per la commozione quando venivano scelti per tenere lo specchietto ed erano
perfetti e in orario; quelli che non erano scelti, si mettevano silenziosamente
in disparte a osservare i più fortunati. Nel campo ho imparato a non
avere fretta e per un tipo nevrotico ed esaltato come me, trovarmi in quelle condizioni
sapeva di una condanna a morte quotidiana; come dicevo, ho imparato a respirare
lentamente, a sentire piacere accorgendomi dei rari raggi di sole che arrivavano
verso mezzogiorno, asciugando i miei vestiti inumiditi dalla neve fresca. Si parlava
poco; piuttosto ascoltavo i rumori. Qui a Roma mi mancano
quelli mattinieri,
tra i quali prevaleva il tonfo secco del rasoio dentro la bacinella d'alluminio.
Quelli del pomeriggio, dove i ragazzi improvvisavano una partita di calcio con
la palla fatta con la rossa lana di capra, e quando il fagotto s'inzuppava troppo,
ne preparavano un'altra; qualche volta le donne li sgridavano, perché bisognava
risparmiare su tutto. Di sera cessava tutto; potevo solo ascoltare la gente che
russava, ma era un russare da sfinito operaio del campo, anche se gli abitanti
del campo profughi, non si muovevano più di qualche metro al giorno; ma
nonostante quel piccolo spostamento da qua a là, la stanchezza arrivava
eccome
lì
dentro sono stato battezzato assieme alla stanchezza di vivere. Mangiavamo sempre
una specie di brodaglia, una pappa preparata in abbondanza, perché di rado
vedevo che qualcuno desiderava il bis di un piatto; strano, in fin dei conti la
fame era tanta. Probabilmente era l'aspetto della pappa raffreddata; bastava un'occhiata
a quel sego anomalo che si formava in superficie, somigliante alla palude marrone
del vecchio grasso di qualche officina, per sentirsi sazi. Tra una cucchiaiata
e l'altra, in quel silenzio, mi accorgevo degli sguardi; avevo sempre l'abitudine
di contare le persone, mi preoccupavo che il numero fosse quello giusto. Mi ricordo
di quegli sguardi proprio adesso ed è una cosa alla quale mi posso aggrappare
nella speranza che domani possa cambiare qualcosa per me e per la mia giusta o
ingiusta causa. Mi sembra che nel frattempo si siano aperte delle altre voragini,
e noi siamo finiti per tutti nel dimenticatoio, anche tra noi stessi. Adesso,
ho bisogno di altro coraggio per affrontare la tappa seguente, senza maglia rosa,
con la pasmia regalatami da nonna, anch'essa rosa, e il nostro giro dal
Kurdistan a Roma è terminato per sempre. Sono passati quasi quattro
anni dal mio arrivo, vivo in una Panda 30CL; l'ho ereditata da un rumeno che ho
conosciuto alcuni mesi fa. Faceva il parcheggiatore abusivo nei pressi di Piazza
Navona; con i pochi risparmi accumulati, ha comprato questa Panda da una studentessa
calabrese, che a quanto so io, aveva bisogno di comprarsi un paio di scarpe di
marca nuovo. Il mio sciagurato amico rumeno si chiamava Domenico, dico chiamava,
perché durante una lite con un suo connazionale è stato accoltellato;
è morto mentre lo trasportavano in ospedale. Dopodiché, non ne ho
saputo più nulla. Alcune settimane fa ho incontrato un suo amico, mi sembra
che si chiami Rosan; gli ho chiesto per la mia Panda. Lui mi ha guardato con gli
occhi stanchi, come quelli nei nostri campi profughi curdi. Mi ha detto: -È
una brutta faccenda! Ma fregatene, tieniti la machina; anche Domenico ti voleva
bene. Ti chiamava il gallo, perché diceva che ti alzavi molto presto. È
vero?- Non avevo voglia di ascoltarlo, e tra l'altro era munito di un alito
che sapeva di qualche birra di troppo, di aglio; puzzava anche di sudore
e
qui a Roma non c'era il vento proveniente dall'Anatolia a spazzare via tutto.
Quella mattina ho avuto la mia Panda per sempre, la mia casa per sempre. Mi
viene in mente che noi curdi siamo stati gli unici che abbiamo sconfitto i Mongoli,
nella battaglia d'Erbil nel 1257; ma a questa gente che calpesta i sampietrini
come me, interessa ben altro. 3.
La Barca Rossa Oggi
mi accontento della mia cena. Ieri era importante mangiare e bere. Quanto bastava
per affrontare il viaggio. Eravamo stati messi dentro quella stiva puzzolente.
Noi, sistemati come le acciughe sotto il sale, strette strette. Noi, nella pressa
che sprigionava un odoraccio disumano. Noi, anime cancellate di una storia che
tagliava le nostre vite. La mia vita vale 1000 dollari americani. La mia vita
vale un versamento di 900 euro. Siamo scomodi come le fogne otturate. Ma presto
ti abitui alle gocce di sudore che inumidiscono i corpi di pelle scura. E più
il viaggio andava avanti e più la nostra carretta lasciava qualche spazio.
Tra i corpi asciugati e dimagriti a vista d'occhio e qualche anima che si era
trasferita al di là, restava parecchio campo per la puzza. Passavano le
speranze smarrite dentro la corsa che non lasciava nessuna altra scelta. Hanno
deciso per noi gli altri, per 1000 verdoni americani, più di 900 euro.
Noi siamo oramai al di là. Per noi la corsa è finita qua. Traditi. La
barca era rossa. Quello me lo ricordo bene. Aveva il colore dei tappeti che le
nostre donne facevano nel nostro campo profughi. Mio padre e lo zio avevano portato
un telaio. Mia madre era la migliore tessitrice del campo. Sulla mia barca rossa
potevo sognare la vibrazione dei fili di lana, tessuti nel vento confidente. Quel
miraggio mi faceva compagnia durante il viaggio. Smarrivo l'idea del tempo. Il
buio scandiva il nostro camino. E più mi allontanavo e più ero scaraventato
nella nostalgia del mio fazzoletto di terra profuga curda. Il rosso carminio.
Come il colore della barca che ci aveva sbarcato. Avevano smaltito un muro maledetto
dentro l'Europa per farne degli altri. Alcune lezioni di storia non servono a
nulla. Quello penso con rabbia. Ieri e oggi. La Mellila era un serpente di filo
spinato lungo 11 chilometri. Il nuovo muro d'Europa, pronto a dare il benvenuto
alle zattere di fortuna. Della merce buona e paziente. Mellila mi suonava
come il nome di una donna dolce e accogliente. Invece si era rivelata una traditrice
spettinata, con gli artigli pronti e affilati per lasciare graffi nemici sui nostri
visi stanchi e zuppi di salsedine. La Guardia Civile spagnola insieme alla polizia
marocchina, dall'altra parte, giocavano con noi una partitina di pallavolo. Ecco,
io volevo immaginare quella griglia spinata come una rete da gioco. Il viaggio
massacrante ti fa passare tutte le cattiverie. All'improvviso ti trovi spalla
a spalla con i fratelli del Mali, della Mauritania, del Camerun. Compagni di cammino
arrivati da terre deserte e lontane. La nostra gita finisce qua cari miei amici
d'avventura. Le nostre scale di fortuna erano cosparse dei getti d'acqua e del
pepe per fermare qualche sciagurato che pensasse a una ipotetica fuga. Io pensavo
alla mia barca rossa. Io pensavo alla nostra zattera buona e paziente. Volevo
che mi riportasse nel mio campo profughi. Oggi mi trovo in Italia. Vivo a
Badolato, un paesetto arroccato nella Calabria, sulla statale 106 ionica. Alcuni
la chiamano la strada della morte. Per me è la strada della luce. La vita
è incantevole anche per questo. Spesso mi viene in mente la mia barca rossa.
Specialmente quando tira il vento. Mi domando chi porta adesso. Voglio immaginare
che è diventata un peschereccio fortunato. 4.
La Biro Rossa A
volte, si sente il bisogno di raccontare quello che ti circonda per non nascondere
i musi infelici. Probabilmente uno di quei bronci è proprio il tuo. A volte,
il bisogno di raccontare ti fa passare per quella strettoia che ti aiuta ad aggrapparti
a qualsiasi ponte, per portare i tuoi pensieri in una tregua pallida. Ma noi profughi
non viviamo un tempo normale. Il nostro essere è un tempo di sosta. Che
cosa potrebbe significare la parola tempo nel dizionario di un profugo come me?
Nulla ed ecco le mie prove. È solamente un non esserci per nessuno. Noi
viviamo senza quel vostro tempo vissuto; il nostro invece, rimane in sospeso e
il tempo, nel campo dei rifugiati, toglie di continuo la speranza. Il nostro essere
si scioglie presto, così come i grossi cumuli di neve grigia e sudicia
addosso al portone dell'unico edificio del nostro maledetto podere. Il nostro
campo diventa un immenso guazzo, che come uno stiletto insidioso minaccia il nostro
respiro. Ecco, in questo posto il tempo è un soffio e si scioglie veloce,
veloce. Un profugo come me, cosa chiede alla vita? Nulla. Io consumo ossigeno,
ascolto i battiti del mio cuore e sussurro la mia libertà al vento amico.
Così anche respirare ha delle difficoltà nel nostro fottuto recinto. Mi
alzo la mattina presto, prima di tutti. L'alba sa di pesca acerba e rosea. Il
cielo sopra di me è bianco e luminoso; è ingannevole e mi promette
una giornata migliore di ieri, e forse una migliore dell'altro ieri. Io lavo i
denti con la neve sciolta nella bacinella d'alluminio e ingoio le speranze che
mi regala l'alba nel mio recinto. La giornata passa lenta lenta nell'immaginare
porte chiuse dappertutto. All'improvviso spunta una biro rossa. Somiglia a un'ampolla
di sangue appoggiata sulla neve. Forse è scivolata involontariamente a
qualche volontario. Una freccia rossa rossa pronta a prendersi cura di me, per
scrivere i miei appunti dal campo profughi. Un invito a mollare qualche traccia
di noi. Siamo vivi gente! Abbiamo le mani conserte e i pugni chiusi, e gli occhi
stretti senza nessuna luce. Siamo troppo piccoli e fieri per raccogliere gli spiccioli
che ci avete destinato. La biro rossa ha acceso la mia immaginazione. La mia
Biro Rossa. Anche il respirare diviene più bello. Posso, assieme a lei,
sradicarmi dalla rete e, come un pesce scampato alla mattanza, aprire il mio giardino
segreto. Come un tubero che finalmente ha qualche speranza di spuntare fuori.
Il mio orto magico si apre come un tulipano chiuso. Comincio a scrivere sui fogli
che i volontari lasciano, per chissà quale motivo, quando ogni due sabati
visitano il campo. Sono previsti nella dotazione umanitaria. Finalmente hanno
il loro giusto uso. Uno sposalizio fortuito e felice con la mio biro rossa. Posso
scrivere; e finalmente respirare diversamente.
Sarah Zuhra Lukanic è nata a Spalato (Croazia) nel luglio del 1960.
Dopo gli studi superiori, si è laureata in Letteratura all'Università
di Fiume, con una tesi sulla regia teatrale. Negli stessi anni, ha collaborato
con il Teatro di Spalato e con alcuni quotidiani jugoslavi. Nel 1987 si è
trasferita in Italia, a Roma, dove ha lavorato come barista per sedici anni. Dal
giugno 2004 ha cominciato a scrivere in lingua italiana. Finalista e menzionata
in diversi concorsi letterari, tra i quali il "Premio Umberto Saba-Trieste
Scritture di Frontiera 2005" con la raccolta di racconti Ciacole Triestine,
nel settembre del 2006 ha vinto il "Premio Giornalistico Letterario Mare
Nostrum-Viareggio 2006" con la raccolta di racconti Rione Kurdistan.
Nel gennaio del 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo Le Lezioni di Selma
per le edizioni Libri Bianchi di Milano.
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