NESSUNO
MI VEDEVA PIÙ
– Uno Psicologo dell'Università di San Paolo
si fa passare per spazzino per tracciare un ritratto dell'invisibilità
pubblica. –
Paula Barcellos
Fernando da Costa: è diventato invisibile con la tuta arancione.
Quella
che avrebbe potuto essere soltanto una lezione del corso di laurea in Psicologia
si è trasformata in un progetto di ricerca che dura già da dieci
anni. Nel 1994, l'allora studente della USP 1
Fernando Braga da Costa doveva partecipare alla giornata lavorativa di un gruppo
di “lavoratori manuali”. Il ragazzo non ci pensò due volte: decise di essere
spazzino per un giorno. Le aspettative dell'attuale psicologo clinico e dottorando
in psicologia furono smentite fin dai primi colpi di scopa dati per il Campus:
– Mi
aspettavo qualche espressione sorpresa: “Ma come ti sei conciato?” Invece, neanche
un saluto. Ero invisibile. Dopo
aver provato sulla sua pelle l'umiliazione sociale sofferta dagli spazzini, Fernando
cominciò a incontrare il gruppo una volta alla settimana – “martedì,
giorno di pulizia”- per realizzare una ricerca sul fenomeno dell'invisibilità
pubblica. Questi dieci anni di lavoro adesso possono essere letti in “Uomini invisibili:
cronache di un'umiliazione sociale” (Globo editrice). Ma
l'opera non è soltanto il resoconto di una ricerca. Lo psicologo va oltre
gli interessi accademici e costruisce una sorta di libro-reportage, i cui personaggi
sono quegli spazzini che tutti vedono ogni giorno, ma che nessuno nota mai davvero.
Ed è
stato proprio con questi lavoratori quasi invisibili – nonostante la loro divisa
arancione – che Fernando ha imparato l'arte della sua professione. –
Devo la mia formazione come psicologo molto più a loro che al 90% dei miei
professori. E
non ha perso l'occasione di lanciare una frecciata contro la realtà dell'ambiente
accademico: “ L'USP 1 è una fiera della Vanità. Si salvano in pochi.”
–
Come è nata l'idea di farsi passare per spazzino per sentire sulla sua
pelle la realtà dei lavoratori manuali? –
Fu una richiesta fatta a tutti gli alunni che frequentavano il corso di psicologia
sociale del corso di laurea all'USP. Era un modo per fare esperienza della quotidiano
di questi lavoratori. Ho scelto il mestiere di spazzino perché socialmente
è il più rifiutato. Nessuno vuole fare lo spazzino. È l'ultima
spiaggia per chiunque. –
Da dieci anni lei lavora come spazzino una volta alla settimana all'Università
di San Paolo. Il comportamento nei confronti di questi operatori da parte di chi
passa per il Campus è cambiato? No.
Anzi. Una volta, addirittura, una giornalista molto conosciuta venne a cercare
di intervistare un professore di psicologia e passò molto vicina al nostro
gruppo. Era un martedì, il mio turno di pulizia. Lei fece un'espressione
di disgusto e disprezzo che non scorderò mai. Gli spazzini la riconobbero:
“Non è quella ragazza della televisione?” è stato terribile. Ogni
giorno diventa più evidente l'urgenza di lottare per abolire mestieri come
questo, una specie di schiavitù mascherata da lavoro stipendiato, come
lo sono, peraltro, tutti i mestieri riservati alle classi povere. È necessario
organizzarsi politicamente per incrementare la coscienza che abbiamo rispetto
a tutto questo. Cominciando da lì, e solo dopo che gli spazzini e gli altri
lavoratori manuali ne avranno parlato fra loro, potremo pensare alle possibili
vie d'uscita da questo stato di cose. –
Cosa ha provato a passare completamente inosservato per l'edificio dove studia
e lavora? –
È stato come sparire. Antonio (uno degli spazzini) e io siamo entrati nell'ala
delle aule. Gli alunni stavano facendo un intervallo, fuori dalle classi: nei
corridoi interni, nell'aula degli studenti, nel bar. Conoscevo quelle gente: compagni
di classe, studenti più grandi, compagni della squadra di calcio, partners
di pingpong, professori. Tutti della facoltà di Psicologia. Abbiamo attraversato
il pian terreno da una parte all'altra. Abbiamo salito le scale. Siamo passati
per il piano superiore. Abbiamo sceso le scale. Abbiamo camminato ancora al pian
terreno. Siamo passati davanti al bar. Stavo attento. Cercavo un'espressione di
sorpresa“Ma come ti sei conciato Fernando?”. La mia attenzione è calata
lentamente. Il mio sguardo assumeva a poco a poco uno sguardo meramente strumentale.
Quello che dovevo fare ora, era evitare quelli che non mi vedevano: era a questo
che adesso, frustrato, dovevo fare attenzione. Non mi aspettavo più nessuna
sorpresa da parte degli altri. Avevo smesso di aspettarmi un certo tipo di domande,
ma sarei stato ancora pronto a rispondere a un qualche saluto, a qualcuno che
mi prendesse per uno spazzino, accanto a un altro spazzino. Invece nessun cenno,
neanche discreto. Gli sguardi non mi sfioravano neppure. Ho sentito un malessere
immediato: ero invisibile. E Antonio con me: Antonio era invisibile. –
Come definirebbe quello che chiama il fenomeno dell'invisibilità pubblica
che tratta nel suo libro? –
Nella telenovela Il Clone, per esempio, c'erano cinque attori/personaggi
che convivevano quotidianamente: Neusa Borges, Reginaldo Faria, Vera Fischer,
Giovanna Antoneli e Murilo Benício. Il personaggio di Neusa aveva il compito
di preparare la valigia degli altri quattro, di servire gli invitati ogni giorno,
di occuparsi di tutti i problemi della casa, di rispondere al telefono e al citofono.
Ma qualcuno ha mai visto il suo fidanzato? Qualcuno ha mai visto un qualche dramma
di cui fosse la protagonista? Qualcuno ha mai visto la sua casa, o la sua stanza?
Qualcuno ha mai visto la sua famiglia? No, mai. E non serve la spiegazione superficiale
che si trattasse di un personaggio secondario. E poi, diciamocela tutta, i personaggi
secondari nelle telenovele fanno sempre parte della servitù. Lei era invisibile.
Noi vedevamo, ma in realtà non vedevamo il personaggio di Neusa. Tutte
le sue dimensioni psicologiche sono state soppresse, spente, sono diventate invisibili.
Compariva solo la sua funzione, il suo servizio, non la persona. Tutte le telenovele
fanno lo stesso: tutti i poveri sono resi invisibili o quando è concessa
loro una qualche visibilità è perché sono diventati ricchi
o amici di qualcuno ricco. –
Come hanno reagito i suoi colleghi della Facoltà di Psicologia quando hanno
saputo quello che stava facendo? –
A eccezione di pochi amici totale indifferenza. In alcune situazioni ero addirittura
snobbato. –
Gli spazzini sanno che svolge questa ricerca? Come reagiscono? –
L'hanno sempre saputo, dal primo istante. Avere uno studente fra gli spazzini
li ha incuriositi spesso. Ogni tanto il mio lavoro era interrotto da una serie
di domande sbalordite: perché un alunno della USP è qui? Prende
un salario? Che è venuto a fare? Non di rado per rispondere meglio raccontavo
l'episodio della divisa nell'Istituto di Psicologia. Alcuni ammutolivano, senza
fare commenti, altri non aspettavano neanche che finissi: Lafaiette, per esempio,
rideva di gusto quando dicevo di essermi apettato che qualcuno dei compagni di
corso mi riconoscesse. Tiago ascoltò l'episodio con rabbia, un'espressione
di violenza, gli occhi iniettati di sangue. Anche Josias ascoltò la storia;
stavamo lavorando; quando terminai il racconto pontificò: “Se uno non ti
guarda nemmeno quando sei così, e quando ti cambi i vestiti dice di essere
tuo amico, stai sicuro che non è tuo amico per niente.” –
E loro sono ancora molto umiliati, anche lavorando in un'università, in
un luogo di formazione personale e professionale? –
L'USP socialmente è un ambiente come un altro. Non sono la cultura o un
diploma che insegnano il rispetto. Non è aver frequentato una Facoltà
che insegna l'educazione. L'unico fenomeno in grado di ribaltare questa situazione,
è l'amicizia, o più radicalmente, l'amore. Se ci rispettassimo veramente
l'un l'altro non permetteremmo mai che qualcuno dovesse sottomettersi a lavorare
in eterno, tutti i giorni, tutto il giorno, raccogliendo la spazzatura di altre
persone. Dobbiamo reinventare la società, ridistribuire ii lavori e i compiti
necessari alla nostra comunità. E questo non è possibile né
nel capitalismo, pressoché nel mondo di oggi, né nel capitalismo
di Stato, come succede a Cuba o com'era nell'ex-URSS. Non c'è mai stato
un comunismo di fatto nel mondo. Comunismo e dittatura sono opposti. Ma fa comodo
alle elites e alla classe dominante dire che la Cina è comunista o che
il comunismo ha ucciso milioni di persone nel mondo come fanno quotidianamente
alcuni media. Per questa cricca è sempre tutto fantastico. –
C'è un tipo di umiliazione più ricorrente? Dal
momento in cui si timbra il cartellino all'entrata, fino all'uscita, è
un'umiliazione continua. Sono schiavi, così come le domestiche. Non ci
parlano come se avessero di fronte delle persone, ordinano solo cosa fare e non
fare. Siamo caricati nel cassone degli arnesi del mestiere, come se fossimo arnesi
anche noi. Potrei trascorrere ore a descrivere tutte le umiliazioni che subiamo
quotidianamente. Non si può più fare finta di niente. –
Come sono trattati dai loro superiori? C'è mancanza di rispetto? –
È come nel libro “Casa Grande e Senzala” 2.
Non c'è alcuna differenza. Se ne va la frusta e arrivano lo stipendio misero
e la necessità di sopravvivenza. Finche esisteranno padroni e dipendenti,
sarà sempre così. –
Lei intende continuare a farsi passare per spazzino? Sente ancora oggi il bisogno,
anche inconscio, di vivere questa esperienza? –
È impossibile allontanarsi da loro. A volte capita che passino due o tre
settimane senza che lavori lì, come quando stavo finendo di scrivere la
tesi. Ma faccio sempre un salto, anche solo per il pranzo. Nessuno vuole stare
lontano da dove si sente accolto. Là mi sento come in famiglia, o con i
miei più cari amici. Devo la mia formazione come psicologo molto più
a loro che al 90% dei miei professori. L'USP è una fiera della Vanità.
Si salvano in pochi. –
Quale lezione ha tratto da questi dieci anni di convivenza? –
Finché ognuno di noi non sarà responsabile di lavare il proprio
gabinetto, continuerà a essere falso e perverso dire che viviamo in uno
stato di democrazia e uguaglianza. Il Capitalismo naturalizza tutto questo, perpetua
la disuguaglianza e la schiavitù. La classe dominante cambia tutti i nomi
e i concetti scientifici, ma la verità è che continuiamo a essere
sottomessi a sistemi di dominazione sempre più crudeli. Note 1
Università di San Paolo (Brasile). (N.d.T.). 2
Casa Grande e Senzala : famoso saggio di Gilberto Freyre che descrive il
Brasile schiavista del periodo coloniale. (N.d.T.)
Tradotto
da Julio Monteiro Martins con i suoi studenti dell’Università di Pisa: Elena Borgogni,
Claudia Corti, Sara Del Chicca, Letizia Ioli, Elena Moncini, Rebecca Moretti,
Rebecca Narducci, Martina Orsi, Giada Poggianti, Isabella Razzuoli, Lucio Sancii.
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