Talor,
mentre cammino per le strade Della città tumultuosa solo, mi dimentico
il mio destino d'essere uomo tra gli altri e come smemorato, anzi, tratto
fuor di me stesso, guardo la gente con aperti estranei occhi. M'occupa
allora un puerile, un vago senso di sofferenza e d'ansietà come
per mano che mi opprima il cuore. Fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi
di bimbi, facce consuete di nati a faticare e a riprodursi, facce volpine
stupide beate, facce ambigue di preti, pitturate facce di meretrici, entro
il cervello mi s'imprimon dolorosamente. E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega sul loro labbro, le speranze sempre deluse, e
l'inutilità della lor vita amara e il lor destino ultimo, il buio. Chè
ciascun di loro porta seco la condanna d'esistere: ma vanno dimentichi di
ciò e di tutto, ognuno occupato dall'attimo che passa, distratto
dal suo vizio prediletto. Provo
un disagio simile a chi veda Inseguire farfalle lungo l'orlo D'un precipizio,
od una compagnia Di strani condannati sorridenti. E se poco ciò dura,
io veramente In quell'attimo m'impauro A vedere che gli uomini son tanti. L'angoscia,
il timore e l'ansia dell'essere umano di esistere, o meglio, forse, di sopravvivere
in una società che di umano non ha più nulla, che va verso un futuro
totalmente preda delle macchine, accanto all'estraneità e all'alienazione
da quella massa informe e incosciente che è la folla, questi i temi che
vagavano come ombre corvine in mantelli vermigli nei pensieri di un poeta di inizio
Novecento, oggi forse tristemente dimenticato, Camillo Sbarbaro. Ha senso parlare
oggi di questo illustre fantasma? In un mondo che è talmente impegnato
a guardare al futuro che scorda il passato, le sue liriche non possono che confermare
l'affermativa risposta alla sovracitata domanda. Camillo Sbarbaro viene inserito
nel gruppo di quegli intellettuali che si raggruppavano intorno al giornale di
Prezzolini-Papini "la Voce", i cosiddetti "vociani", fra i
quali figurano nomi quali Clemente Rebora, Dino Campana, Giuseppe Ungaretti e
molti altri. Si è soliti parlare di lirismo autobiografico per la poesia
di Sbarbaro, ed è possibile vedere la sua poetica come un superamento del
crepuscolarismo verso una dimensione ancora più intima, nella quale i temi
siano trattati con la stessa dimissione, ma non con lo stesso tono colloquiale
che era tipico di poeti quali Corazzini o Gozzano. Indubbiamente il movimento
crepuscolare ha influito in maniera notevole su Sbarbaro, difatti sia gli argomenti
da lui trattati, sia le conclusioni alle quali perviene, potrebbero essere iscritte
nel modus operandi dei crepuscolari, ma il suo stile risulta essere privo di quell'ironia
che caratterizzava le opere di Gozzano, mirando piuttosto a una riduzione all'essenzialità
della parola, che si fa nella sua unicità, spia della condizione esistenziale
dell'individuo, ponendosi sulla linea di quel linguaggio che poi Montale chiamerà
"scabro ed essenziale". Una reazione dunque alla modernità,
ad un progresso che arreca sì benessere, ma che allontana sempre più
l'uomo dal suo simile, che fa sentire in maniera maggiore la differenza e, conseguentemente,
la solitudine. Alla vigilia della Grande Guerra, che stroncherà una generazione
di uomini, Sbarbaro ci mostra dal suo osservatorio umano ligure una massa informe
che vive senza averne coscienza; a volte può giungere in questo grigio
panorama un raggio di luce, ma estremamente fugace e caduco, che riesce solo a
mostrare quanto sia forte il contrasto fra la Vita e la vita degli esseri umani;
è probabilmente da intendersi il "talora…" con il quale molte
poesie di "Pianissimo" iniziano come spia di questo barlume di luce
evanescente. Nell'epilogo della sovracitata lirica in pariticolare, passa
a descrivere le sensazioni che, come lo definirebbe Balzac, la "commedia
umana" suscita in lui: due similitudini ci mostrano efficacemente lo sconforto
del poeta, che dovrà continuare a fingere, poiché deve vivere in
quella società, ma, in quell'attimo nel quale lui ha guardato nell'abisso
umano, nella riflessione di quanti uomini vivano così, solo un moto di
terrore può cogliere il suo animo. Credo sia possibile suddividere
la poesia in quattro sequenze: la prima, dal v.1 a v.9, che ci introduce nella
situazione in cui il poeta inizia la sua riflessione, tratta proprio l'alienazione
di costui dalla massa ( guardo con aperti estranei occhi ) e il primo sentimento
che lo pervade, un "vago" senso di sofferenza, che crescerà con
lo svolgersi della poesia. Il ripetersi del titolo al primo verso inoltre, tende
a focalizzare il nucleo tematico dell'intero poema immediatamente. Dal v. 10 a
v.16 abbiamo la descrizione di cosa vedono gli occhi "aperti" ed "estranei",
e lo scenario è quantomai arido e triste: una galleria di soggetti che
investe tutte le classi (preti e meretrici sono palesemente i due opposti che
contengono dentro tutti i "mestieri umani") e tutte le età (dai
vecchi ai bambini) e che si concretizza nell'espressione "facce volpine stupide
beate" per identificare l'uomo o la donna medi. Dunque la terza sequenza
(dal v.17 al v.27), che ci mostra cosa realmente veda il poeta, cosa gli sia dato
di sapere in virtù del fatto che egli vuole sapere: l'inganno, il tremendo
inganno nel quale l'umanità giace; un umanità che tuttavia conosce
questo inganno ma non vuole accettarlo, fatto palese, in quanto proprio questo
ha lasciato dei visibili segni sui volti di questi individui ("il dolore
che mise quella piega sul loro labbro"). Un'umanità che dunque porta
una condanna che si è dimenticata di avere: la condanna dell'esistere,
e che vive solo grazie alle occupazioni momentanee che la distraggono. La quarta
sequenza conclude la lirica: il poeta ci mostra una seconda volta le sue emozioni,
ma ora più dettagliatamente che nei vv.7-10. Due similitudini, nelle quali
un'azione o una scena in origine allegra viene accomunata a un'azione o scena
densa di angoscia: l'inseguire le farfalle è sopra un precipizio, la compagnia
è di persone sorridenti, ma condannate. E quindi l'unico sentimento dell'autore
dinanzi a ciò può e deve essere uno solo, il sentimento primordiale
che accomuna uomini e animali: la paura, amplificata dal fatto che nell'inganno
appena svelato vive una enorme quantità di individui, nella quale forse,
dopo questa fugace illuminazione, per continuare a vivere, dovrà ricadere
anche lo stesso poeta. Il linguaggio è lontano dal colloquialismo dei
crepuscolari, ed è un classico esempio di poesia novecentesca: è
essenziale, quasi diafano, e riflette in toto le sensazioni del poeta, che, parlando
in prima persona, è come se stabilisse un dialogo con il lettore. Frequente
l'uso degli enjambements, che conferiscono unitarietà all'opera e degli
iperbati, mentre la musicalità è data dall'utilizzo di anafore e
allitterazioni, usate anche in maniera combinata (vv14-15). Il verso è
l'endecasillabo, tipico della tradizione italiana, in rima sciolta. Sbarbaro inizia
con questo linguaggio una tradizione letteraria che sarà propria degli
autori novecenteschi italiani che vorranno esprimere il cosiddetto "male
di vivere": un linguaggio essenziale che mostra con figure semplici ma di
sicuro impatto l'estraneità dell'uomo al proprio simile al mondo. Montale
descrisse tale linguaggio come "scabro ed essenziale", e questa rimane
probabilmente la definizione più efficace; in un periodo in enormi stravolgimenti
storici il ruolo del letterato è seriamente compromesso, e la reazione
di costui si esplicita in vari modi: alla forma classica, ormai vetusta, della
poesia si sostituisce lo smembramento di quest'ultima, fino ad arrivare alle opere
dell' "allegria" di Ungaretti, nella quale il linguaggio è ridotto
all'estremo, lasciando al lettore ogni possibile interpretazione; alle tematiche
classiche si oppongono le "nuove tematiche": il progresso entra nell'area
della poesia, e viene recepito nei modi più disparati: accolto come life-style,
modo di vivere, dai futuristi, rifiutato da poeti quali Montale e Sbarbaro o dai
crepuscolari. La risposta ai tempi moderni di Sbarbaro o Montale è l'alienazione:
si è parlato di "sonnambulismo" per la poesia di Sbarbaro, per
definire la condizione del poeta alienato da tutto ciò che lo circonda,
che vaga fra gli indifferenti. Importante notare come la massa del popolo entri
nella poesia italiana in un modo che ci potrebbe ricordare le poesie dei Tableaux
parisenne di Baudelaire: una massa informe, nella quale il poeta è tragicamente
solo, dalla quale è travolto e che pure quando è assente, permea
la città, come se avesse lascito dei calchi, che ben presto saranno nuovamente
occupati. La folla per i poeti italiani è l'emblema della solitudine, dell'alienazione,
di un tetro solipsismo dell'individuo, che è tragicamente solo al mondo.
In questa ottica il progresso, le comunicazioni non fanno altro che alimentare
la solitudine, poiché il nucleo familiare, che fino ad allora era solido,
che recava seco valori antichi e dava sicurezza all'uomo, si inizia a smembrare,
i ruoli stessi dell'uomo e della donna mutano, in un rapporto nel quale tutti
sanno cosa perdono ma non riescono a comprendere cosa hanno in cambio. La
poesia di Sbarbaro riflette tutti questi mutamenti: i timori dell'uomo ottocentesco,
le funeste previsioni baudeleriane paiono dunque essersi rivelate giuste nella
loro tragicità: l'uomo di Sbarbaro vaga assente, senza una meta, soprattutto
senza un Dio. Tristemente attuale si rivela ancor oggi la poesia del ligure,
in un mondo dominato da ipocriti sentimenti di fratellanza universale, ma nel
quale l'uomo è non solo nella totale solitudine, ma in costante lotta per
la sopravvivenza, in quegli enormi, affollati deserti, che hanno il nome di "metropoli".
Una frase di uno fra i più grandi filosofi di fine ottocento, Friedrich
Nietzsche, si adatterebbe ottimamente alla poetica di Sbarbaro, al segno indelebile
che l'osservazione della massa lascia in lui: " A furia di scrutare nell'abisso
ora è lui che scruta in te". Questa scoperta di Sbarbaro nuoce purtroppo
solo alla sua sensibilità, mentre la massa informe va avanti, stupida,
volpina e beata.
Silvano Leone: Sono nato il tre Ottobre del millenovecentottantuno
in Ascoli Piceno. Sono cose che capitano. Ho compiuto gli studi liceali in Teramo,
una città molto sobria, il cui aggettivo più appropriato è "grigio", diplomandomi
in corso con ottanta centesimi, quindi ho preso immediatamente la decisone di
trasferirmi a Roma per le migliori opportunità lavorative e culturali che la città
poteva offrire. Dopo il primo anno passato presso la facoltà di "Scienze della
comunicazione" mi sono iscritto alla facoltà di Lettere, con indirizzo lettere
moderne. Ho conseguito nel 2004 il diploma di laurea in "Letteratura musica e
spettacolo", corso di laurea del dipartimento di Italianistica dell'università
"La Sapienza" e quindi, nel Luglio del 2006, la laurea specialistica in "Letteratura",
naturale completamento della laurea già acquisita un anno addietro.
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