Seicentocinquantamila
(senza contributi)
Roberto
Alajmo
C'era questo Picciòlo. La
sua qualifica era, più o meno sindacalmente parlando, fattorino precario.
Era l'infimo gradino nella scala sociale dei fattorini, che erano l'infimo gradino
nella scala sociale del Giornale, che, secondo alcuni, era l'infimo gradino nella
scala sociale dell'editoria nazionale. Inoltre Picciòlo coi suoi cinquantadue
anni era forse il fattorino precario più vecchio del mondo. Guadagnava
seicentocinquantamila lire al mese, senza contributi. E suo compito era stato
per lungo tempo quello di andare a prendere le buste fuori sacco e gli articoli
dei collaboratori troppo pigri o troppo impegnati per venire personalmente. L'avvento
del fax lo sollevò in seguito da buona parte del suo lavoro fuori sede,
che faceva a cavallo di un ciclomotore messo a disposizione dalla Proprietà.
Prima di lui, il ciclomotore era stato usato da una quantità di altri fattorini
precari che, in attesa di diventare fattorini professionisti, su di esso avevano
sfogato la loro impazienza. Anche per questo motivo il ciclomotore non godeva
di sana e robusta costituzione meccanica e il colore, che era stato grigio metallizzato
per scelta aziendale, era diventato grigio semplice per incuria. In seguito a
un tacito accordo con la Proprietà, il ciclomotore era stato affidato a
Picciòlo in tutto e per tutto: poteva portarselo a casa, ma doveva provvedere
personalmente alla ordinaria e straordinaria manutenzione. Per questa seconda
eventualità gli era riconosciuto un rimborso, ma senza esagerare e dietro
presentazione di ricevuta. Per la miscela c'era un conto a parte, sul quale Picciòlo
faceva una cresta comunque minima rispetto ai colleghi che lo avevano preceduto. Il
vero problema era che Picciòlo su quel ciclomotore grigio ci andava ormai
da quasi quindici anni, senza essere ancora riuscito a lasciarlo a qualche altro
precario più giovane per passare finalmente a mansioni superiori. Promozione
e passaggio di consegna del motorino erano scene che gli balenavano ogni tanto
nell'immaginazione. Ma era un balenare pallido e non troppo convinto, perché
nemmeno di essere promosso a più decorose mansioni importava poi molto
a Picciòlo. Lo sognava - si sentiva in dovere di sognarlo - solo perché
la sua precarietà di fattorino gliela rinfacciavano continuamente i colleghi,
gli stessi che avevano posato chissà per quanto tempo il loro sedere sullo
stesso sellino dello stesso ciclomotore. - Picciòòòlo! Era
un grido tipico. Pronunciato col giusto accento, con la giusta cantilena, diventava
di per sé un insulto. Offensivo già solo per il suo andamento ritmico.
Al richiamo, Picciòlo aveva imparato a non prestare nessuna attenzione,
ostentando una specie di altezzosità fuori luogo messa a punto col passare
degli anni. Atteggiamento controproducente, oltre tutto, perché veramente
Picciòlo non poteva permettersi di essere altezzoso con nessuno, e così
facendo aizzava ancora di più i suoi nemici. C'era pure la disgrazia
di quel nome che gli si appiccicava addosso come un vestito troppo stretto - o,
appunto, troppo piccolo. Picciòlo era basso anche di fatto, e calvo, e
con troppi peli su troppe parti del corpo. - Picciòòòlo! Gridavano,
e non volevano niente di niente. Nemmeno che reagisse. Solo che assumesse l'aria
impettita che gli conoscevano e che costituiva essa stessa un incentivo per continuare
a chiamarlo: - Picciòòòlo. Non rispondeva quasi mai.
Nessuno sapeva cosa passasse per la testa di Picciòlo. E forse era meglio
così, perché nei suoi ragionamenti i colleghi avrebbero certo trovato
di che ulteriormente divertirsi. Con loro non c'era nessuna comunicazione, o quasi.
Per questo, a riportare qualche dialogo coi colleghi di lavoro, lui stesso era
in difficoltà. Cominciava, ogni tanto, con sua moglie: - Hai presente
quello del centralino? - Eh. - Oggi mi fa: Picciòlo, va' pigliami
un cafè, che non mi posso muovere. - Eh. - Che dici? - Eh. La
moglie di Picciòlo diceva sempre: eh. - Allora io ci dissi: va pigliatìllo
tu! Ma Picciòlo non era tipo da reazioni così forti. Sentiva
lui stesso che il tono era sbagliato e allora correva ai ripari, perché
voleva essere creduto almeno dalla moglie. Meglio specificare: - Giusto? Perché?
Non ti puoi muovere? Che sei malato? Mmah. - Eh. - E che dovevo fare? All'improvviso,
un dubbio: e se veramente quello fosse stato troppo occupato? Se fosse stato davvero
malato? Ma ormai era tardi per i dubbi: - Ma che è pazzo? Nemmeno
da avere dubbi era tipo, Picciòlo. E poi aveva capito che dalla moglie
non c'era niente da aspettarsi. Né mai Picciòlo aveva dovuto rendere
conto a lei. La moglie era forse l'unica persona a essere subordinata a Picciòlo.
Spesso lei si assentava con la mente e restava assorta, ma per il resto era tenuta
a dipendere dal marito, che ogni tanto si ricordava di esercitare la sua potestà.
Di queste impennate d'orgoglio era tipo, Picciòlo. Resoconti del genere
di fatti accaduti al Giornale potevano durare molto di più e avevano su
di lui un effetto rilassante. In quelle sere a casa capiva che avere una moglie
gli faceva bene e avere un figlio gli faceva più bene ancora. Il figlio
si chiamava Vincenzo, detto Vicenzo, detto Vincenzino, detto Vicè, a seconda
delle circostanze e dell'urgenza. Vincenzo era la luce degli occhi suoi. Una
volta lo portò al Giornale. Sua moglie doveva andare a sbrigare certe faccende
a Licata e non poteva tenerlo con sé. Lo lasciava in quei casi a sua suocera.
Ma quel giorno non poteva tenerlo nemmeno lei, e allora Picciòlo lo portò
con sé al lavoro, in due sul ciclomotore. Il primo che incontrò
fu La Valva. - Chi è 'sto piccirìddo? Chi è? Tuo figghio? La
Valva parlava in siciliano con tutti, e siccome era un giornalista abbastanza
colto, alcuni credevano che si sforzasse un poco, ma non era vero. - Mio figghio. Picciòlo,
se voleva, sapeva benissimo parlare italiano. Lo parlava con tutti i giornalisti
tranne che con La Valva, perché così gli pareva di metterlo più
a suo agio, visto che a cominciare col dialetto era lui. - E come si chiama? -
Vicenzo. - Vicenzo! La Valva sembrò avere scoperto in quel nome qualcosa
che aveva dimenticato da tempo, che era felice di ritrovare nella memoria. Chiese
ancora: - E quanti anni hai? Quanti anni ha? - Dieci. Rispose Picciòlo
a nome del figlio. E La Valva si sorprese ancora: - Dieci anni ! Come aveva
potuto dimenticarlo? Ripeté: - Dieci anni! - Eh. Dieci anni. Che
ci pare piccolo per dieci anni? - No, che piccolo. Semmai: che sapevo che avevi
un figlio così grande! - Eh. Parlando parlando, per La Valva si era
fatta ora di andare a lavorare. Diede una bottarella sulla testa di Vincenzo e
si allontanò, continuando a sorridere della scoperta che aveva appena fatto:
Vicenzo! Dieci anni! Picciòlo guardò suo figlio, orgoglioso di
scoprire l'interesse che aveva saputo suscitare in un giornalista. Picciòlo
sapeva che La Valva gli voleva bene e anche lui era affezionato a La Valva. In
generale i suoi rapporti erano molto migliori coi redattori, che nella gerarchia
del Giornale lo sopravanzavano di alcuni gradini, abbastanza per considerarlo
una specie di ometto simpatico. Lo chiamavano Signor Picciòlo e gli davano
del tu. Chi lo chiamava ora, per esempio, non era un giornalista: - Picciòòòlo! Era
Impiccichè. Impiccichè lavorava da fattorino pure lui, ma fattorino
professionista. Ogni tanto, con i conoscenti, giocava a dire che lavorava al Giornale,
lasciando intendere di essere almeno un collaboratore, un giornalista di qualche
tipo. In pratica, però, era molto più vicino al gradino dei fattorini
precari come Picciòlo che a quello dei giornalisti. Faceva anche il sindacalista,
Impiccichè, titolo che gli consentiva di avere permessi straordinari e
gestire un potere per quanto minimo. Per esempio, come sindacalista Impiccichè
ogni due anni poteva entrare nell'ufficio del Dottore Angelo non come sottoposto
ma come controparte, per discutere del contratto integrativo. Erano giorni in
cui il Dottore Angelo a casa dava disposizioni per mangiare in bianco, tanto i
nervi gli si attaccavano allo stomaco a dover sentire stronzate col sorriso sulle
labbra. E da gente come Impiccichè, per giunta. Sindacalista o meno,
Impiccichè, e gli altri fattorini e qualcun altro in tipografia, tenevano
Picciòlo nella considerazione di chi, al contrario di loro, non è
stato buono a realizzarsi nella vita. I redattori avevano bisogno di qualcun altro
da maltrattare, qualcuno che avesse da loro la stessa distanza gerarchica che
un fattorino precario aveva dai fattorini professionisti. Per questo scopo andavano
meglio di Picciòlo i biondini, i collaboratori più giovani che il
capocronista responsabilizzava consegnando loro un righello ideale per andare
a vedere se l'erba delle aiole cittadine era davvero cresciuta come aveva promesso
l'assessore al verde e giardini. - Picciòòòlo! Impiccichè
non demordeva. L'orecchio esercitato di Picciòlo percepiva subito dal tono
che non si trattava di un - Picciòòòlo! generico. Era
un - Picciòòòlo! specifico, che richiedeva di essere
ascoltato per intraprendere una conversazione di mezza mattina, a tempo perso.
L'ultimo - Picciòòòlo! fu ripetuto da una distanza
minima e frontale, di modo che Picciòlo non potesse esimersi dall'ascolto. -
Picciòlo, chi è 'sto picciriddo? Picciòlo conosceva Impiccichè
e cercava per quanto possibile di non rivolgergli la parola. Ma quello insisteva: -
Bello. E si rivolgeva al bambino: - Di chi sei figghio tu? Eh? Eh? Di chi
sei figghio? Eh? Che, non parli? E perché non parli? Che sei muto? Muto!
Mi pare mutigno, 'sto picciriddo. Muto è, poverino! Così grazioso
e muto! Non ci posso credere. Eh? Di chi sei figghio? Impiccichè abbracciò
Vincenzo e gli fece una serie completa di smorfie, di quelle che veramente si
fanno ai bambini molto più piccoli. In ogni caso, Vincenzo non parlava
con nessuno, figurarsi con una persona che non aveva mai visto e che poteva benissimo
appartenere alla casta dei giornalisti. Vincenzo e suo padre avevano secoli di
atavica diffidenza da onorare. Ma forse di fronte al bambino la vipera di Impiccichè
si era addormentata. - Mio figghio è. - Bì, bì: figghio
tuo? Non può essere. La vipera di Impiccichè non si era addormentata.
Fingeva di dormire per lasciare avvicinare la sua vittima e poterla mordere con
più comodo. Ma ormai Picciòlo aveva aperto bocca e non poteva più
tirarsi indietro: doveva sostenere tutta la conversazione. E la sostenne sapendo
benissimo dove l'altro voleva portarlo, senza poter fare niente per evitare di
farcisi portare. - Che senti dire che non è figghio mio? - Sento
dire che non può essere figghio tuo. - E perché non può
essere figghio mio? Che ha che non può essere figghio mio? Frasi troppo
lunghe per Picciòlo. Frasi alle quali Impiccichè rispose con semplicità: -
Perché si' cornuto. - Cornuto ci si' tu. - Picciòòòlo! -
Cornuto ci si' tu! - Picciòòòlo! La discussione era
finita. A qualsiasi obiezione, sempre Impiccichè avrebbe opposto il suo
grido. Allora Picciòlo prese per mano Vincenzo e lo portò via. Mentre
si allontanava, sentì che Impiccichè aveva ancora una precisazione
da fare: - Si' cornùùto! Sempre così, pure davanti
al bambino. A Picciòlo faceva male la pancia per la rabbia e per la vergogna.
Raggiunta una distanza di sicurezza, si rivolse al figlio: - Vicenzo, ma tu
lo sai che vuole dire cornuto? Vincenzo lo guardò senza rispondere,
come sempre. Dopo avere lasciato Picciòlo e suo figlio, Impiccichè
si avviò per le scale che conducevano al piano superiore e quindi alla
stanza dei fattorini. Picciòlo era completamente uscito dai suoi pensieri.
L'incontro con lui aveva avuto la stessa funzione del caffè preso a spezzare
la mattinata, magari senza sentirne davvero il bisogno, tanto per rubare tempo
al lavoro. Arrivato dietro la scrivania, per prima cosa sparse alcune tracce di
attività con l'intenzione di millantare occupazione. Presto però
i sensi di colpa ebbero il sopravvento e cominciò a lavorare sul serio,
riordinando la posta arrivata quel giorno. Fu interrotto da Cinzia Russo, la
segretaria del Dottore Angelo, detta anche Cinzia Miao per una certa grazia felina
nel parlare. Cinzia Miao era bella di una bellezza molto particolare. Al primo
sguardo poteva passare inosservata, se non fosse stato per l'altezza, che era
notevole. Questo le procurava l'omaggio di un secondo sguardo che non avendo la
possibilità di appigliarsi a nessun colore - castana, occhi castani - rischiava
pure di scivolarle addosso. Era di solito durante questo secondo scivolamento
dello sguardo che il corpo di Cinzia Miao diventava oggetto di desiderio carnale.
Ma Cinzia Miao era così superiore che i desideri svanivano presto. Li uccideva
l'evidenza monolitica della sua virtù, ignara di qualsiasi malizia più
che involontaria. Entrando nella stanza, Cinzia Miao attrasse quindi un'attenzione
maschile ormai rassegnata. Si limitò a posare una cartella sul tavolo: -
Da parte del Dottore Angelo. Senza nulla aggiungere, Cinzia Miao uscì
dalla stanza di Impiccichè e quasi subito, nel corridoio, incontrò
Picciòlo col figlio. - Uh, e chi sei tu? Si rivolgeva direttamente
al bambino perché il padre, sia pur lungi per censo da potersi considerare
oggetto di attenzione da parte sua, era pur sempre uomo fatto e sessuato. Quanto
bastava per uscire dalla sfera della visibilità di Cinzia Miao. Vincenzino
però non rispondeva: - Come ti chiami? Eh? Come ti chiami? Eh? Eh? -
Si chiama Vincenzo. - Avanti: come ti chiami? - Vincenzo. Vincenzino. Picciòlo
insisteva, e allora la signorina Russo si rassegnò ad accorgersi della
sua presenza. Contemporaneamente, con una piega delle labbra, sembrò ricordarsi
degli sgradevoli ingredienti che ci vogliono per produrre un bambino. - Ah.
Vincenzo. Sperava di meglio? Picciòlo non lo capiva. Lei tornò
a sorridere guardando il bambino. - E quanti anni c'hai? Eh? Eh? Quanti anni
c'hai? Vincenzo continuava a stare zitto. Il padre gli disse: - Rispondi. Ma
Vincenzo era stanco. Troppa gente, troppe domande. Era stanca pure la signorina
Russo, che fece per allontanarsi. - La saluto, signorina. Arrivò
a dire Picciòlo, prima che in fondo al corridoio si materializzasse la
figura del Dottore Angelo. Il Dottore Angelo era il direttore del Giornale. Direttore
per discendenza diretta, ultimo rampollo della famiglia che pubblicava il Giornale
dopo averlo essa stessa fondato, cento anni prima. Era cresciuto respirando l'aria
della redazione e per una specie di osmosi qualcosa del giornalista e dell'editore
negli anni aveva assorbito. Non si occupava però del Giornale a tempo pieno,
lasciando gli affari correnti a un condirettore. Si chiamava Dottore Angelo -
tutti lo chiamavano così - perché conoscendolo fin da piccolo, tutta
la vecchia guardia del Giornale lo aveva sempre chiamato Angelo, limitandosi ad
aggiungere un Dottore di rispetto dopo la laurea. A questa regola si attennero
in seguito anche i dipendenti più giovani, che pur temendolo moltissimo
e nominandolo con la massima deferenza, lo chiamavano Dottore Angelo anche in
sua presenza e in presenza di ospiti illustri, sapendo che la cosa non lo faceva
arrabbiare. Era, anzi, una delle pochissime cose che non lo facevano arrabbiare. Vedendo
spuntare il Dottore Angelo, Cinzia Miao si fermò, interrompendo il movimento
con la stessa cautela di qualcuno che avesse perso una lente a contatto o si trovasse
sul luogo di un delitto, dove ogni mossa può avere conseguenze irreparabili
finché non vengano portate a termine le indagini. In quel contesto il responsabile
delle indagini era il Dottore Angelo. L'ipotesi di reato era perdita di tempo
lavorativo. Picciòlo salutò come al solito con deferenza e il
Dottore Angelo rispose. Rispondeva sempre ai saluti, confidando che chiunque avesse
il coraggio di salutarlo doveva avere buoni motivi per farlo. Semmai annotava
mentalmente e si riprometteva di chiedere al condirettore il nome del tale o del
talaltro. Quella mattina però, non si chiese chi fosse quell'uomo di fatica
che così spesso incontrava e di cui sempre dimenticava di chiedere il nome.
Si chiese invece chi fosse il bambino assieme a lui, a che titolo si trovasse
in redazione, e soprattutto quanti anni potesse avere. L'avrebbe chiesto senz'altro,
se questo non lo avesse costretto a perdere tempo. La sua indagine fu molto rapida:
si limitò con uno sguardo a sciogliere quell'assembramento di dipendenti
con bambino e a rimandare - con il medesimo sguardo - tutti al proprio lavoro. Quello
sguardo, gli occhi temibili del Dottore Angelo, riportarono Picciòlo alla
realtà, lontano da quei ricordi del giorno prima, quando aveva portato
Vincenzino al Giornale. Ricordi che l'avevano imbambolato di fronte alla scelta
mattutina fra mocassini e sandali quotidiani, quelli che metteva ogni giorno dell'anno,
in inverno con le calze di lana, d'estate senza. I mocassini non gli piacevano. -
Mettiteli, ogni tanto, per cambiare. Lo invitava sua moglie. Né Picciòlo
avrebbe potuto dire che erano scomodi. Non gli piacevano e basta. Se l'avessero
obbligato a spiegare la ragione di quel rifiuto, Picciòlo avrebbe potuto
solo dire: troppo nuovi. E visto che fuori l'estate tergiversava, decise ancora
per i sandali. Quella sarebbe stata una giornata particolare, ma mettere i mocassini
buoni gli parve un'inutile esagerazione. Il giorno cruciale della sua vita,
Picciòlo arrivò come sempre al Giornale e come sempre salutò
un paio di persone che non ricambiavano mai il suo saluto. Da un capannello di
fattorini che stavano dividendo i giornali partì una insistita comunicazione
a proposito di sua moglie e di suo figlio, una specie di riassunto della giornata
precedente. Lui si sforzò di non sentirla, sapendo chi andava ringraziato
per quelle vociferazioni. Non salutò nessun altro, anche perché
era ancora presto e il Giornale era semivuoto. Andò direttamente nella
stanza dei fattorini, dove lui stava il meno possibile perché era riservata
ai colleghi professionisti e il Dottore Angelo non voleva che la sua presenza
troppo frequente diventasse poi la scusa per una vertenza di assunzione in pianta
stabile. Nel vederlo, Impiccichè lanciò il primo - Picciòòòlo! della
giornata. Stavolta era un - Picciòòòlo! di intonazione
sorpresa, perché la vittima preferita veniva a farsi sfottere direttamente
nel suo ufficio, senza neppure dargli il disturbo di andarlo a cercare: - Picciòlo!
Che onore! Fece in tempo a dire, e si alzò prima che Picciòlo
con molta semplicità gli infilasse poco sopra l'ombelico i cinque centimetri
della lama di un temperino. - Cornuto ci si' tu. Disse Picciòlo,
senza particolare risentimento. Margagliotta, collega fattorino pure lui, fu
l'unico ad accorgersi subito di quello che stava accadendo. Anche perché,
vista la discrezione di Picciòlo nell'accoltellarlo senza alzare la voce,
lo stesso Impiccichè non volle commentare il fatto a caldo, limitandosi
a constatare fra sé che avrebbe dovuto portare la camicia (e forse anche
i pantaloni) in lavanderia. Sua moglie non era mai stata capace di lavare le camicie.
Pensieri, questi ultimi, che sorpresero per primo lo stesso Impiccichè,
date le circostanze. Margagliotta seguì Picciòlo che si allontanava,
ma solo con lo sguardo, perché si allontanava avendo ancora il coltello
fra le mani. Seguirono momenti concitati. Venne chiamato aiuto e Impiccichè
fu trasportato all'Ospedale Civico. Lì trovarono che la lama non aveva
leso parti vitali e neppure parti secondarie. Lo ricoverarono, a ogni buon conto,
con una prognosi di trenta giorni. Al Giornale la notizia si diffuse man mano
che arrivavano i dipendenti, e Margagliotta fu molte volte informalmente intervistato.
L'indomani sul Giornale il fatto venne riassunto in dieci righe, fra le brevi.
Spazio determinato direttamente dal Dottore Angelo. Si crearono subito due
schieramenti: Piccioliani contro Impiccichiani. I primi sostenevano l'idea della
coltellata come sintomo di malessere ed estrema risorsa degli oppressi. Erano,
i Piccioliani, quasi tutti giornalisti. Gli Impiccichiani, invece, sostenevano
semplicemente che Picciòlo era impazzito, e su questo argomento facevano
arenare ogni polemica. Gli inquirenti, nella persona di un magistrato giovane
e coscienzioso, ascoltarono l'una e l'altra fazione già nel pomeriggio
del ferimento. Il giudice si fece l'idea che Picciòlo, uomo descritto da
tutti come semplice e mite, per accoltellare un uomo qualche ragione doveva pure
essersela data. Per chiederla direttamente a lui lo fece cercare a casa, dove
la moglie sostenne di non essere nemmeno sicura della sua assenza. Poi lo fece
cercare nei posti che frequentava di solito: niente. Picciòlo era latitante. Lo
trovarono quasi senza cercarlo, due giorni dopo. Picciòlo era andato all'ospedale
per informarsi sullo stato di salute della vittima, perché era sì,
pugnalatore, ma anche collega di lavoro in apprensione. Se poi Impiccichè
non fosse stato particolarmente seccato, Picciòlo non escludeva di fare
pace in quella stessa occasione. Parenti, amici e colleghi di Impiccichè
lo videro spuntare dal fondo della corsia. Attorno al letto del ferito c'erano
in tutto sei persone. Cinque di loro si allontanarono dal letto di almeno un metro.
Il sesto era un cugino di Impiccichè, non conosceva Picciòlo, non
aveva capito niente e rimase al capezzale, guardando e non capendo gli altri che
istintivamente si facevano indietro. Restava sottinteso che se Picciòlo
era venuto per finire il lavoro che aveva cominciato due giorni prima, loro non
c'entravano. Picciòlo, tuttavia, era calmo. Si mise pure lui a un metro
dal letto, con le mani unite sul davanti, nella speranza di confondersi con gli
altri visitatori. Seguirono momenti di silenzio. Gli offrirono una sedia che rifiutò. Impiccichè
nel vedere Picciòlo si era leggermente sollevato sul letto, tenendo un
lembo della coperta e i muscoli all'erta per tentare una fuga in caso di necessità.
Era ancora sotto sedativo, ma sperava di riuscire a farcela. Presto tuttavia fu
chiaro che le intenzioni di Picciòlo erano benigne. Qualche mozzicone di
frase, un quarto di sorriso e un accenno di conversazione fra colleghi, che proseguì
tranquillamente fino all'arrivo del piantone, chiamato da Margagliotta perché
la legge facesse il suo corso. All'arrivo dell'agente si era instaurato un clima
quasi rilassato. Gli altri cinque visitatori commentarono e si confessarono reciprocamente
poi di non avere pensato a chiamare la polizia. Il piantone decise che non
aveva bisogno di rinforzi per arrestare quello che, sebbene tentato assassino,
aveva tutta la parvenza di un ominolo. Picciòlo fu in effetti portato via
senza che opponesse resistenza, voltandosi persino a salutare con lo sguardo Impiccichè,
quasi scusandosi del contrattempo che lo costringeva ad allontanarsi e interrompere
la sua visita. Seguì, in questura, un interrogatorio nel quale l'accusato
si rifiutò di ammettere qualsiasi circostanza attenuante: - Adesso si
è pentito? - Che pentito? - Pentito: all'ospedale a trovarlo c'è
andato, sì o no? - Che c'entra: andare ci sono andato. Ma per vedere
se stava male: oramai quello che è stato è stato. Il giudice
fu comprensivo. Furono comprensivi pure i poliziotti. Picciòlo venne rilasciato
dopo due mesi e il processo in cui fu assolto dalle accuse più gravi lo
seguì da libero cittadino, visto che non dava per nulla l'impressione di
voler reiterare il delitto o poter inquinare le prove. Il giudice fu incerto se
inserire o meno nella motivazione della sentenza una certa sua intuizione psicanalitica
a proposito del coltello come simbolo fallico. Ma poi pensò ai cinque centimetri
della lama, pensò a Picciòlo, e lasciò perdere. Parlando
col segretario di redazione Picciòlo riuscì in seguito persino ad
aggirare l'indignazione del Dottore Angelo, che era rimasto offeso dal fatto di
sangue successo all'interno dei locali aziendali. Il segretario di redazione si
lasciò convincere e fece riavere a Picciòlo il suo lavoro, ma sempre
da precario, ché posti non se ne erano liberati; anzi sì, uno, ma
nel frattempo era stato assunto un altro, il figlio del povero Scaparra, un caso
veramente pietoso. Gli fece capire il segretario di redazione, parlando come di
un'occasione perduta: - Se invece di fare fissarie eri qua, a quest'ora... Del
ritorno di Picciòlo in redazione furono contenti tutti. Fu contento persino
Impiccichè, cui la coltellata aveva smorzato l'esuberanza e acuito la vocazione
sindacale: in nome della solidarietà aveva deciso di non spingere più
di tanto la denuncia contro un collega. Di più: al segretario di redazione
parve giusto chiedergli un benestare, prima di reintegrare Picciòlo al
suo posto, e Impiccichè lo concesse senz'altro. Del rapido svaporare del
caso giudiziario rimase deluso forse il solo Margagliotta, fautore dell'arresto
e di una giustizia senza compromessi. Nessuno, comunque, al Giornale tornò
mai sull'argomento e nessuno prese più in giro Picciòlo per nessun
motivo. Solo quello nuovo, il figlio di Scaparra che era stato assunto mentre
lui era nel limbo giudiziario, dopo qualche giorno cominciò a guardare
Picciòlo, a trovarlo un personaggio divertente e a fare certe mezze battute
coi colleghi. Poi chiese notizie, ne ebbe e smise anche lui.
(Tratto da Le scarpe di Polifemo e altre storie siciliane, Feltrinelli
editori, Milano, 1998.)
Roberto Alajmo č nato a Palermo, dove vive e
lavora come giornalista per la Rai. Oltre ad alcune commedie teatrali, ha pubblicato:
Un lenzuolo contro la mafia (Palermo, 1993); Repertorio dei pazzi della
cittā di Palermo (Milano, 1994); Almanacco siciliano delle morti presunte
(Palermo, 1997).
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