Seicentocinquantamila (senza contributi)


Roberto Alajmo


C'era questo Picciòlo. La sua qualifica era, più o meno sindacalmente parlando, fattorino precario. Era l'infimo gradino nella scala sociale dei fattorini, che erano l'infimo gradino nella scala sociale del Giornale, che, secondo alcuni, era l'infimo gradino nella scala sociale dell'editoria nazionale. Inoltre Picciòlo coi suoi cinquantadue anni era forse il fattorino precario più vecchio del mondo. Guadagnava seicentocinquantamila lire al mese, senza contributi. E suo compito era stato per lungo tempo quello di andare a prendere le buste fuori sacco e gli articoli dei collaboratori troppo pigri o troppo impegnati per venire personalmente. L'avvento del fax lo sollevò in seguito da buona parte del suo lavoro fuori sede, che faceva a cavallo di un ciclomotore messo a disposizione dalla Proprietà. Prima di lui, il ciclomotore era stato usato da una quantità di altri fattorini precari che, in attesa di diventare fattorini professionisti, su di esso avevano sfogato la loro impazienza. Anche per questo motivo il ciclomotore non godeva di sana e robusta costituzione meccanica e il colore, che era stato grigio metallizzato per scelta aziendale, era diventato grigio semplice per incuria. In seguito a un tacito accordo con la Proprietà, il ciclomotore era stato affidato a Picciòlo in tutto e per tutto: poteva portarselo a casa, ma doveva provvedere personalmente alla ordinaria e straordinaria manutenzione. Per questa seconda eventualità gli era riconosciuto un rimborso, ma senza esagerare e dietro presentazione di ricevuta. Per la miscela c'era un conto a parte, sul quale Picciòlo faceva una cresta comunque minima rispetto ai colleghi che lo avevano preceduto.
Il vero problema era che Picciòlo su quel ciclomotore grigio ci andava ormai da quasi quindici anni, senza essere ancora riuscito a lasciarlo a qualche altro precario più giovane per passare finalmente a mansioni superiori. Promozione e passaggio di consegna del motorino erano scene che gli balenavano ogni tanto nell'immaginazione. Ma era un balenare pallido e non troppo convinto, perché nemmeno di essere promosso a più decorose mansioni importava poi molto a Picciòlo. Lo sognava - si sentiva in dovere di sognarlo - solo perché la sua precarietà di fattorino gliela rinfacciavano continuamente i colleghi, gli stessi che avevano posato chissà per quanto tempo il loro sedere sullo stesso sellino dello stesso ciclomotore.
- Picciòòòlo!
Era un grido tipico. Pronunciato col giusto accento, con la giusta cantilena, diventava di per sé un insulto. Offensivo già solo per il suo andamento ritmico. Al richiamo, Picciòlo aveva imparato a non prestare nessuna attenzione, ostentando una specie di altezzosità fuori luogo messa a punto col passare degli anni. Atteggiamento controproducente, oltre tutto, perché veramente Picciòlo non poteva permettersi di essere altezzoso con nessuno, e così facendo aizzava ancora di più i suoi nemici.
C'era pure la disgrazia di quel nome che gli si appiccicava addosso come un vestito troppo stretto - o, appunto, troppo piccolo. Picciòlo era basso anche di fatto, e calvo, e con troppi peli su troppe parti del corpo.
- Picciòòòlo!
Gridavano, e non volevano niente di niente. Nemmeno che reagisse. Solo che assumesse l'aria impettita che gli conoscevano e che costituiva essa stessa un incentivo per continuare a chiamarlo:
- Picciòòòlo.
Non rispondeva quasi mai. Nessuno sapeva cosa passasse per la testa di Picciòlo. E forse era meglio così, perché nei suoi ragionamenti i colleghi avrebbero certo trovato di che ulteriormente divertirsi. Con loro non c'era nessuna comunicazione, o quasi. Per questo, a riportare qualche dialogo coi colleghi di lavoro, lui stesso era in difficoltà. Cominciava, ogni tanto, con sua moglie:
- Hai presente quello del centralino?
- Eh.
- Oggi mi fa: Picciòlo, va' pigliami un cafè, che non mi posso muovere.
- Eh.
- Che dici?
- Eh.
La moglie di Picciòlo diceva sempre: eh.
- Allora io ci dissi: va pigliatìllo tu!
Ma Picciòlo non era tipo da reazioni così forti. Sentiva lui stesso che il tono era sbagliato e allora correva ai ripari, perché voleva essere creduto almeno dalla moglie. Meglio specificare:
- Giusto? Perché? Non ti puoi muovere? Che sei malato? Mmah.
- Eh.
- E che dovevo fare?
All'improvviso, un dubbio: e se veramente quello fosse stato troppo occupato? Se fosse stato davvero malato? Ma ormai era tardi per i dubbi:
- Ma che è pazzo?
Nemmeno da avere dubbi era tipo, Picciòlo. E poi aveva capito che dalla moglie non c'era niente da aspettarsi. Né mai Picciòlo aveva dovuto rendere conto a lei. La moglie era forse l'unica persona a essere subordinata a Picciòlo. Spesso lei si assentava con la mente e restava assorta, ma per il resto era tenuta a dipendere dal marito, che ogni tanto si ricordava di esercitare la sua potestà. Di queste impennate d'orgoglio era tipo, Picciòlo.
Resoconti del genere di fatti accaduti al Giornale potevano durare molto di più e avevano su di lui un effetto rilassante. In quelle sere a casa capiva che avere una moglie gli faceva bene e avere un figlio gli faceva più bene ancora. Il figlio si chiamava Vincenzo, detto Vicenzo, detto Vincenzino, detto Vicè, a seconda delle circostanze e dell'urgenza. Vincenzo era la luce degli occhi suoi.
Una volta lo portò al Giornale. Sua moglie doveva andare a sbrigare certe faccende a Licata e non poteva tenerlo con sé. Lo lasciava in quei casi a sua suocera. Ma quel giorno non poteva tenerlo nemmeno lei, e allora Picciòlo lo portò con sé al lavoro, in due sul ciclomotore. Il primo che incontrò fu La Valva.
- Chi è 'sto piccirìddo? Chi è? Tuo figghio?
La Valva parlava in siciliano con tutti, e siccome era un giornalista abbastanza colto, alcuni credevano che si sforzasse un poco, ma non era vero.
- Mio figghio.
Picciòlo, se voleva, sapeva benissimo parlare italiano. Lo parlava con tutti i giornalisti tranne che con La Valva, perché così gli pareva di metterlo più a suo agio, visto che a cominciare col dialetto era lui.
- E come si chiama?
- Vicenzo.
- Vicenzo!
La Valva sembrò avere scoperto in quel nome qualcosa che aveva dimenticato da tempo, che era felice di ritrovare nella memoria. Chiese ancora:
- E quanti anni hai? Quanti anni ha?
- Dieci.
Rispose Picciòlo a nome del figlio. E La Valva si sorprese ancora:
- Dieci anni !
Come aveva potuto dimenticarlo? Ripeté:
- Dieci anni!
- Eh. Dieci anni. Che ci pare piccolo per dieci anni?
- No, che piccolo. Semmai: che sapevo che avevi un figlio così grande!
- Eh.
Parlando parlando, per La Valva si era fatta ora di andare a lavorare. Diede una bottarella sulla testa di Vincenzo e si allontanò, continuando a sorridere della scoperta che aveva appena fatto: Vicenzo! Dieci anni!
Picciòlo guardò suo figlio, orgoglioso di scoprire l'interesse che aveva saputo suscitare in un giornalista. Picciòlo sapeva che La Valva gli voleva bene e anche lui era affezionato a La Valva. In generale i suoi rapporti erano molto migliori coi redattori, che nella gerarchia del Giornale lo sopravanzavano di alcuni gradini, abbastanza per considerarlo una specie di ometto simpatico. Lo chiamavano Signor Picciòlo e gli davano del tu. Chi lo chiamava ora, per esempio, non era un giornalista:
- Picciòòòlo!
Era Impiccichè. Impiccichè lavorava da fattorino pure lui, ma fattorino professionista. Ogni tanto, con i conoscenti, giocava a dire che lavorava al Giornale, lasciando intendere di essere almeno un collaboratore, un giornalista di qualche tipo. In pratica, però, era molto più vicino al gradino dei fattorini precari come Picciòlo che a quello dei giornalisti. Faceva anche il sindacalista, Impiccichè, titolo che gli consentiva di avere permessi straordinari e gestire un potere per quanto minimo. Per esempio, come sindacalista Impiccichè ogni due anni poteva entrare nell'ufficio del Dottore Angelo non come sottoposto ma come controparte, per discutere del contratto integrativo. Erano giorni in cui il Dottore Angelo a casa dava disposizioni per mangiare in bianco, tanto i nervi gli si attaccavano allo stomaco a dover sentire stronzate col sorriso sulle labbra. E da gente come Impiccichè, per giunta.
Sindacalista o meno, Impiccichè, e gli altri fattorini e qualcun altro in tipografia, tenevano Picciòlo nella considerazione di chi, al contrario di loro, non è stato buono a realizzarsi nella vita. I redattori avevano bisogno di qualcun altro da maltrattare, qualcuno che avesse da loro la stessa distanza gerarchica che un fattorino precario aveva dai fattorini professionisti. Per questo scopo andavano meglio di Picciòlo i biondini, i collaboratori più giovani che il capocronista responsabilizzava consegnando loro un righello ideale per andare a vedere se l'erba delle aiole cittadine era davvero cresciuta come aveva promesso l'assessore al verde e giardini.
- Picciòòòlo!
Impiccichè non demordeva. L'orecchio esercitato di Picciòlo percepiva subito dal tono che non si trattava di un
- Picciòòòlo!
generico. Era un
- Picciòòòlo!
specifico, che richiedeva di essere ascoltato per intraprendere una conversazione di mezza mattina, a tempo perso. L'ultimo
- Picciòòòlo!
fu ripetuto da una distanza minima e frontale, di modo che Picciòlo non potesse esimersi dall'ascolto.
- Picciòlo, chi è 'sto picciriddo?
Picciòlo conosceva Impiccichè e cercava per quanto possibile di non rivolgergli la parola. Ma quello insisteva:
- Bello.
E si rivolgeva al bambino:
- Di chi sei figghio tu? Eh? Eh? Di chi sei figghio? Eh? Che, non parli? E perché non parli? Che sei muto? Muto! Mi pare mutigno, 'sto picciriddo. Muto è, poverino! Così grazioso e muto! Non ci posso credere. Eh? Di chi sei figghio?
Impiccichè abbracciò Vincenzo e gli fece una serie completa di smorfie, di quelle che veramente si fanno ai bambini molto più piccoli. In ogni caso, Vincenzo non parlava con nessuno, figurarsi con una persona che non aveva mai visto e che poteva benissimo appartenere alla casta dei giornalisti. Vincenzo e suo padre avevano secoli di atavica diffidenza da onorare. Ma forse di fronte al bambino la vipera di Impiccichè si era addormentata.
- Mio figghio è.
- Bì, bì: figghio tuo? Non può essere.
La vipera di Impiccichè non si era addormentata. Fingeva di dormire per lasciare avvicinare la sua vittima e poterla mordere con più comodo. Ma ormai Picciòlo aveva aperto bocca e non poteva più tirarsi indietro: doveva sostenere tutta la conversazione. E la sostenne sapendo benissimo dove l'altro voleva portarlo, senza poter fare niente per evitare di farcisi portare.
- Che senti dire che non è figghio mio?
- Sento dire che non può essere figghio tuo.
- E perché non può essere figghio mio? Che ha che non può essere figghio mio?
Frasi troppo lunghe per Picciòlo. Frasi alle quali Impiccichè rispose con semplicità:
- Perché si' cornuto.
- Cornuto ci si' tu.
- Picciòòòlo!
- Cornuto ci si' tu!
- Picciòòòlo!
La discussione era finita. A qualsiasi obiezione, sempre Impiccichè avrebbe opposto il suo grido. Allora Picciòlo prese per mano Vincenzo e lo portò via. Mentre si allontanava, sentì che Impiccichè aveva ancora una precisazione da fare:
- Si' cornùùto!
Sempre così, pure davanti al bambino. A Picciòlo faceva male la pancia per la rabbia e per la vergogna. Raggiunta una distanza di sicurezza, si rivolse al figlio:
- Vicenzo, ma tu lo sai che vuole dire cornuto?
Vincenzo lo guardò senza rispondere, come sempre.
Dopo avere lasciato Picciòlo e suo figlio, Impiccichè si avviò per le scale che conducevano al piano superiore e quindi alla stanza dei fattorini. Picciòlo era completamente uscito dai suoi pensieri. L'incontro con lui aveva avuto la stessa funzione del caffè preso a spezzare la mattinata, magari senza sentirne davvero il bisogno, tanto per rubare tempo al lavoro. Arrivato dietro la scrivania, per prima cosa sparse alcune tracce di attività con l'intenzione di millantare occupazione. Presto però i sensi di colpa ebbero il sopravvento e cominciò a lavorare sul serio, riordinando la posta arrivata quel giorno.
Fu interrotto da Cinzia Russo, la segretaria del Dottore Angelo, detta anche Cinzia Miao per una certa grazia felina nel parlare. Cinzia Miao era bella di una bellezza molto particolare. Al primo sguardo poteva passare inosservata, se non fosse stato per l'altezza, che era notevole. Questo le procurava l'omaggio di un secondo sguardo che non avendo la possibilità di appigliarsi a nessun colore - castana, occhi castani - rischiava pure di scivolarle addosso. Era di solito durante questo secondo scivolamento dello sguardo che il corpo di Cinzia Miao diventava oggetto di desiderio carnale. Ma Cinzia Miao era così superiore che i desideri svanivano presto. Li uccideva l'evidenza monolitica della sua virtù, ignara di qualsiasi malizia più che involontaria. Entrando nella stanza, Cinzia Miao attrasse quindi un'attenzione maschile ormai rassegnata. Si limitò a posare una cartella sul tavolo:
- Da parte del Dottore Angelo.
Senza nulla aggiungere, Cinzia Miao uscì dalla stanza di Impiccichè e quasi subito, nel corridoio, incontrò Picciòlo col figlio.
- Uh, e chi sei tu?
Si rivolgeva direttamente al bambino perché il padre, sia pur lungi per censo da potersi considerare oggetto di attenzione da parte sua, era pur sempre uomo fatto e sessuato. Quanto bastava per uscire dalla sfera della visibilità di Cinzia Miao. Vincenzino però non rispondeva:
- Come ti chiami? Eh? Come ti chiami? Eh? Eh?
- Si chiama Vincenzo.
- Avanti: come ti chiami?
- Vincenzo. Vincenzino.
Picciòlo insisteva, e allora la signorina Russo si rassegnò ad accorgersi della sua presenza. Contemporaneamente, con una piega delle labbra, sembrò ricordarsi degli sgradevoli ingredienti che ci vogliono per produrre un bambino.
- Ah. Vincenzo.
Sperava di meglio? Picciòlo non lo capiva. Lei tornò a sorridere guardando il bambino.
- E quanti anni c'hai? Eh? Eh? Quanti anni c'hai? Vincenzo continuava a stare zitto. Il padre gli disse: - Rispondi.
Ma Vincenzo era stanco. Troppa gente, troppe domande. Era stanca pure la signorina Russo, che fece per allontanarsi.
- La saluto, signorina.
Arrivò a dire Picciòlo, prima che in fondo al corridoio si materializzasse la figura del Dottore Angelo. Il Dottore Angelo era il direttore del Giornale. Direttore per discendenza diretta, ultimo rampollo della famiglia che pubblicava il Giornale dopo averlo essa stessa fondato, cento anni prima. Era cresciuto respirando l'aria della redazione e per una specie di osmosi qualcosa del giornalista e dell'editore negli anni aveva assorbito. Non si occupava però del Giornale a tempo pieno, lasciando gli affari correnti a un condirettore. Si chiamava Dottore Angelo - tutti lo chiamavano così - perché conoscendolo fin da piccolo, tutta la vecchia guardia del Giornale lo aveva sempre chiamato Angelo, limitandosi ad aggiungere un Dottore di rispetto dopo la laurea. A questa regola si attennero in seguito anche i dipendenti più giovani, che pur temendolo moltissimo e nominandolo con la massima deferenza, lo chiamavano Dottore Angelo anche in sua presenza e in presenza di ospiti illustri, sapendo che la cosa non lo faceva arrabbiare. Era, anzi, una delle pochissime cose che non lo facevano arrabbiare.
Vedendo spuntare il Dottore Angelo, Cinzia Miao si fermò, interrompendo il movimento con la stessa cautela di qualcuno che avesse perso una lente a contatto o si trovasse sul luogo di un delitto, dove ogni mossa può avere conseguenze irreparabili finché non vengano portate a termine le indagini. In quel contesto il responsabile delle indagini era il Dottore Angelo. L'ipotesi di reato era perdita di tempo lavorativo.
Picciòlo salutò come al solito con deferenza e il Dottore Angelo rispose. Rispondeva sempre ai saluti, confidando che chiunque avesse il coraggio di salutarlo doveva avere buoni motivi per farlo. Semmai annotava mentalmente e si riprometteva di chiedere al condirettore il nome del tale o del talaltro. Quella mattina però, non si chiese chi fosse quell'uomo di fatica che così spesso incontrava e di cui sempre dimenticava di chiedere il nome. Si chiese invece chi fosse il bambino assieme a lui, a che titolo si trovasse in redazione, e soprattutto quanti anni potesse avere. L'avrebbe chiesto senz'altro, se questo non lo avesse costretto a perdere tempo. La sua indagine fu molto rapida: si limitò con uno sguardo a sciogliere quell'assembramento di dipendenti con bambino e a rimandare - con il medesimo sguardo - tutti al proprio lavoro.
Quello sguardo, gli occhi temibili del Dottore Angelo, riportarono Picciòlo alla realtà, lontano da quei ricordi del giorno prima, quando aveva portato Vincenzino al Giornale. Ricordi che l'avevano imbambolato di fronte alla scelta mattutina fra mocassini e sandali quotidiani, quelli che metteva ogni giorno dell'anno, in inverno con le calze di lana, d'estate senza. I mocassini non gli piacevano.
- Mettiteli, ogni tanto, per cambiare.
Lo invitava sua moglie. Né Picciòlo avrebbe potuto dire che erano scomodi. Non gli piacevano e basta. Se l'avessero obbligato a spiegare la ragione di quel rifiuto, Picciòlo avrebbe potuto solo dire: troppo nuovi. E visto che fuori l'estate tergiversava, decise ancora per i sandali. Quella sarebbe stata una giornata particolare, ma mettere i mocassini buoni gli parve un'inutile esagerazione.
Il giorno cruciale della sua vita, Picciòlo arrivò come sempre al Giornale e come sempre salutò un paio di persone che non ricambiavano mai il suo saluto. Da un capannello di fattorini che stavano dividendo i giornali partì una insistita comunicazione a proposito di sua moglie e di suo figlio, una specie di riassunto della giornata precedente. Lui si sforzò di non sentirla, sapendo chi andava ringraziato per quelle vociferazioni. Non salutò nessun altro, anche perché era ancora presto e il Giornale era semivuoto. Andò direttamente nella stanza dei fattorini, dove lui stava il meno possibile perché era riservata ai colleghi professionisti e il Dottore Angelo non voleva che la sua presenza troppo frequente diventasse poi la scusa per una vertenza di assunzione in pianta stabile. Nel vederlo, Impiccichè lanciò il primo
- Picciòòòlo!
della giornata. Stavolta era un
- Picciòòòlo!
di intonazione sorpresa, perché la vittima preferita veniva a farsi sfottere direttamente nel suo ufficio, senza neppure dargli il disturbo di andarlo a cercare:
- Picciòlo! Che onore!
Fece in tempo a dire, e si alzò prima che Picciòlo con molta semplicità gli infilasse poco sopra l'ombelico i cinque centimetri della lama di un temperino.
- Cornuto ci si' tu.
Disse Picciòlo, senza particolare risentimento.
Margagliotta, collega fattorino pure lui, fu l'unico ad accorgersi subito di quello che stava accadendo. Anche perché, vista la discrezione di Picciòlo nell'accoltellarlo senza alzare la voce, lo stesso Impiccichè non volle commentare il fatto a caldo, limitandosi a constatare fra sé che avrebbe dovuto portare la camicia (e forse anche i pantaloni) in lavanderia. Sua moglie non era mai stata capace di lavare le camicie. Pensieri, questi ultimi, che sorpresero per primo lo stesso Impiccichè, date le circostanze.
Margagliotta seguì Picciòlo che si allontanava, ma solo con lo sguardo, perché si allontanava avendo ancora il coltello fra le mani. Seguirono momenti concitati. Venne chiamato aiuto e Impiccichè fu trasportato all'Ospedale Civico. Lì trovarono che la lama non aveva leso parti vitali e neppure parti secondarie. Lo ricoverarono, a ogni buon conto, con una prognosi di trenta giorni.
Al Giornale la notizia si diffuse man mano che arrivavano i dipendenti, e Margagliotta fu molte volte informalmente intervistato. L'indomani sul Giornale il fatto venne riassunto in dieci righe, fra le brevi. Spazio determinato direttamente dal Dottore Angelo.
Si crearono subito due schieramenti: Piccioliani contro Impiccichiani. I primi sostenevano l'idea della coltellata come sintomo di malessere ed estrema risorsa degli oppressi. Erano, i Piccioliani, quasi tutti giornalisti. Gli Impiccichiani, invece, sostenevano semplicemente che Picciòlo era impazzito, e su questo argomento facevano arenare ogni polemica.
Gli inquirenti, nella persona di un magistrato giovane e coscienzioso, ascoltarono l'una e l'altra fazione già nel pomeriggio del ferimento. Il giudice si fece l'idea che Picciòlo, uomo descritto da tutti come semplice e mite, per accoltellare un uomo qualche ragione doveva pure essersela data. Per chiederla direttamente a lui lo fece cercare a casa, dove la moglie sostenne di non essere nemmeno sicura della sua assenza. Poi lo fece cercare nei posti che frequentava di solito: niente. Picciòlo era latitante.
Lo trovarono quasi senza cercarlo, due giorni dopo. Picciòlo era andato all'ospedale per informarsi sullo stato di salute della vittima, perché era sì, pugnalatore, ma anche collega di lavoro in apprensione. Se poi Impiccichè non fosse stato particolarmente seccato, Picciòlo non escludeva di fare pace in quella stessa occasione.
Parenti, amici e colleghi di Impiccichè lo videro spuntare dal fondo della corsia. Attorno al letto del ferito c'erano in tutto sei persone. Cinque di loro si allontanarono dal letto di almeno un metro. Il sesto era un cugino di Impiccichè, non conosceva Picciòlo, non aveva capito niente e rimase al capezzale, guardando e non capendo gli altri che istintivamente si facevano indietro. Restava sottinteso che se Picciòlo era venuto per finire il lavoro che aveva cominciato due giorni prima, loro non c'entravano. Picciòlo, tuttavia, era calmo. Si mise pure lui a un metro dal letto, con le mani unite sul davanti, nella speranza di confondersi con gli altri visitatori. Seguirono momenti di silenzio. Gli offrirono una sedia che rifiutò.
Impiccichè nel vedere Picciòlo si era leggermente sollevato sul letto, tenendo un lembo della coperta e i muscoli all'erta per tentare una fuga in caso di necessità. Era ancora sotto sedativo, ma sperava di riuscire a farcela. Presto tuttavia fu chiaro che le intenzioni di Picciòlo erano benigne. Qualche mozzicone di frase, un quarto di sorriso e un accenno di conversazione fra colleghi, che proseguì tranquillamente fino all'arrivo del piantone, chiamato da Margagliotta perché la legge facesse il suo corso. All'arrivo dell'agente si era instaurato un clima quasi rilassato. Gli altri cinque visitatori commentarono e si confessarono reciprocamente poi di non avere pensato a chiamare la polizia.
Il piantone decise che non aveva bisogno di rinforzi per arrestare quello che, sebbene tentato assassino, aveva tutta la parvenza di un ominolo. Picciòlo fu in effetti portato via senza che opponesse resistenza, voltandosi persino a salutare con lo sguardo Impiccichè, quasi scusandosi del contrattempo che lo costringeva ad allontanarsi e interrompere la sua visita. Seguì, in questura, un interrogatorio nel quale l'accusato si rifiutò di ammettere qualsiasi circostanza attenuante:
- Adesso si è pentito?
- Che pentito?
- Pentito: all'ospedale a trovarlo c'è andato, sì o no?
- Che c'entra: andare ci sono andato. Ma per vedere se stava male: oramai quello che è stato è stato.
Il giudice fu comprensivo. Furono comprensivi pure i poliziotti. Picciòlo venne rilasciato dopo due mesi e il processo in cui fu assolto dalle accuse più gravi lo seguì da libero cittadino, visto che non dava per nulla l'impressione di voler reiterare il delitto o poter inquinare le prove. Il giudice fu incerto se inserire o meno nella motivazione della sentenza una certa sua intuizione psicanalitica a proposito del coltello come simbolo fallico. Ma poi pensò ai cinque centimetri della lama, pensò a Picciòlo, e lasciò perdere.
Parlando col segretario di redazione Picciòlo riuscì in seguito persino ad aggirare l'indignazione del Dottore Angelo, che era rimasto offeso dal fatto di sangue successo all'interno dei locali aziendali. Il segretario di redazione si lasciò convincere e fece riavere a Picciòlo il suo lavoro, ma sempre da precario, ché posti non se ne erano liberati; anzi sì, uno, ma nel frattempo era stato assunto un altro, il figlio del povero Scaparra, un caso veramente pietoso. Gli fece capire il segretario di redazione, parlando come di un'occasione perduta:
- Se invece di fare fissarie eri qua, a quest'ora...
Del ritorno di Picciòlo in redazione furono contenti tutti. Fu contento persino Impiccichè, cui la coltellata aveva smorzato l'esuberanza e acuito la vocazione sindacale: in nome della solidarietà aveva deciso di non spingere più di tanto la denuncia contro un collega. Di più: al segretario di redazione parve giusto chiedergli un benestare, prima di reintegrare Picciòlo al suo posto, e Impiccichè lo concesse senz'altro. Del rapido svaporare del caso giudiziario rimase deluso forse il solo Margagliotta, fautore dell'arresto e di una giustizia senza compromessi. Nessuno, comunque, al Giornale tornò mai sull'argomento e nessuno prese più in giro Picciòlo per nessun motivo. Solo quello nuovo, il figlio di Scaparra che era stato assunto mentre lui era nel limbo giudiziario, dopo qualche giorno cominciò a guardare Picciòlo, a trovarlo un personaggio divertente e a fare certe mezze battute coi colleghi. Poi chiese notizie, ne ebbe e smise anche lui.

 



(Tratto da Le scarpe di Polifemo e altre storie siciliane, Feltrinelli editori, Milano, 1998.)


Roberto Alajmo č nato a Palermo, dove vive e lavora come giornalista per la Rai. Oltre ad alcune commedie teatrali, ha pubblicato: Un lenzuolo contro la mafia (Palermo, 1993); Repertorio dei pazzi della cittā di Palermo (Milano, 1994); Almanacco siciliano delle morti presunte (Palermo, 1997).


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