RITORNARE

 

Maria Carla Cassarini

 

Tredici anni.
Smaniavo in veglie estenuanti
nell'attesa d'improbabili torpori.
Villa Manzi già Rossini
col pianoforte del compositore.
Bianchi letti in fila
tra nere sbarre di ferro battuto,
comodini d'ebano.
Bianche tavole allungate,
generose e indisponenti come lo sguardo
avido della madre superiora.
Lucide scale di marmo di Carrara
che cupe ringhiere di ghisa
disegnavano d'arabeschi.
Dov'era la soffitta
con l'abbaino,
lo squarcio di cielo
proiettato sui miei giochi di bambina,
tra il gatto e il pulcino già
fatto galletto o il topo e il ranocchio
rinchiusi nel cassettone zoppo?
Eppure il profumo era intenso
quando fioriva la magnolia
e le peonie imbiancavano le aiuole.
Bomboniere di seta
fatte per stordire non eclissavano
la voglia di tornare.
Neanche se l'incenso della cappella
induceva a slanci di preghiera.
I lillà si perdevano nell'angolo
dietro il cortile
sotto il ciliegio più alto
con la scala a pioli,
che mio nonno sosteneva.
Un bruco mi aveva impaurito
così enorme e peloso,
ma era verde a strisce rosse
come le mente di Bista
nella bancarella
davanti alla chiesa.
E poi gli aranci calati
dal tetto mentre attendevo la Befana
e rincorrevo Umbertino,
mio compagno di fuga dall'asilo
il giorno che volli ingannare
il suono della campanella.
Chi era l'ingegnoso burattinaio
che manovrava il filo magico
annuncio dell'imminente Epifania?
Passava intanto la suora per la buona notte
con la croce nera in mano,
il profilo squadrato e inquieto
come di chi cerchi un contatto familiare,
che sarà rifiutato.
Attendevo e mi raccontavo storie
lassù fra i boschi dentro i tronchi d'albero
dove la festa era gioia e non pantomima
su e giù per le scale bianche con i veli bianchi,
piangendo di non essere a casa.




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