CIBO
( – due brani del romanzo Cibo – )
Helena Janeczek
(...) Vorrei ricordare le cose che facevo in quel periodo dell’adolescenza, i giochi, gli incontri, le piccole avventure o quelle che allora potevano sembrarmi tali, al limite anche i libri che avevo letto, le materie apprese con interesse, o cose simili. Invece al posto dei ricordi c’è una memoria diversa, generica, quasi astratta. So che leggevo molto, praticamente non facevo altro. Finivo i compiti e poi leggevo tutto il pomeriggio, dopo cena spesso riprendevo, in vacanza mi portavo dietro dozzine di libri, il fondo della valigia ricoperto dalle mie letture, ma stento a ricordarmi qualche titolo. So che erano quasi tutti libri per ragazzi, devono esserci stati in mezzo i libri di Salgari, un po’ in italiano un po’ in tedesco, un romanzo contemporaneo che parlava di una certa Julie cresciuta in mezzo ai lupi, un altro che raccontava la vita e le avventure degli uomini blu nelle montagne dello Hoggar, forse era una grande storia d’amore, ma io ricordo solo i nomi di quei luoghi, e poi ricordo il libro dal quale seppi che avevano buttato il napalm sugli indios dell’Amazzonia perché volevano costruire una grande strada o una linea ferroviaria in mezzo alla foresta, credo si chiamasse Ombre sull’Amazonas; mi ricordo che da quei tempi mi sono familiari parole come sampan, manioca e kajal, ma è già quasi tutto. Poi mi ricordo la strada che portava alla biblioteca comunale dove tutte le settimane andavo a fare la mia scorta, la grande vetrata dietro al banco e agli scaffali in legno chiaro, e mi ricordo di una libreria in centro, del reparto per ragazzi al primo piano, e finalmente anche di una persona, la mia libraia tonda e bassa, dai capelli striati di bianco che scendevano sempre un po’ unti sulla faccia piena di efelidi e di rughette intorno agli occhi; aveva quelle rughe perché rideva sempre, rideva con i ragazzi suoi clienti, ma chissà come si chiamava.
So che a scuola non studiavo molto, perché comunque riuscivo bene nelle materie che mi piacevano, e che durante le lezioni stavo attenta, non mi annoiavo. Ma sono cose che so e basta, non ho un’immagine che affiori, un episodio da raccontare, e so che è stato un tempo infelice, che spesso uscivo di scuola e piangevo, continuavo a piangere sulla strada di ritorno e pure a casa, perché so che i miei andavano a parlare con i professori, i quali a loro volta non sapevano che cosa consigliare, anche se ho in mente che una volta un professore avrebbe detto, sono cose che si risolvono col tempo, i ragazzi, sapete, sono fatti così.
Eppure per ricordarmi di quell’infelicità, per avere un’idea della sua proporzione e della sua durata, devo concentrarmi. Devo fare calcoli, misurazioni, cercare punti di riferimento invisibili, come se fossi in alto mare dove il contorno di una terra diventa pura nozione. Non ho idea di quanto un uomo di mare riesca a trattenere del tempo di una lunga traversata, ma io di quel dolore costante e invariabile ho perso il senso, non lo ricordo. Ricordo solo la vergogna: a ginnastica, davanti allo specchio nella camera da letto dei miei genitori, nella vetrina di Yves Saint-Laurent, nella mia classe.
Ero sola a quei tempi, non avevo amici o amiche, compagne con cui trovarmi dopo la scuola. Per questo non ho episodi da raccontare. Per questo leggevo, divoravo i libri tanto da non ricordarmene quasi nessuno. Se mia madre mi chiamava a tavola o a fare qualsiasi altra cosa, io non le rispondevo o, come nel sonno, gridavo, adesso arrivo, finisco solo questa pagina, questo capitolo, soltanto due minuti, nur das Kapitelchen. Qualche volta, quando era di buon umore, nur das Kapitelchen lo gridava lei. Sapeva che fra libri e cibo vincevano i libri. E forse è per questo, per questa lotta ravvicinata fra cibo e libri, che dall’oblio di titoli, storie e personaggi si sono salvate cinque piccole patate lesse che costituiscono il pasto giornaliero di un indio dell’Altiplano, la manioca delle tribù del Mato Grosso, le pannocchie di mais da cui nacquero i Maya, la carne, il grasso, il sangue e le interiora del bisonte americano, e uccelli cotti nella creta con le piume, e i datteri e il latte di cammello del deserto, e il tè arricchito di burro rancido fatto bollire su un fuoco alimentato da escrementi di vacca, perché in Tibet, ai piedi dell’Himalaia, il legno non si trova. Amavo i libri che si svolgevano in paesi, e magari in tempi lontani, anche se i personaggi e i popoli soffrivano la fame, pativano la fame e molte altre privazioni, pativano tragedie e soprusi, soffrivano rischiando di morire, anzi di estinguersi. Ma soffrivano insieme. C’era una trama di fatti chiaramente terribili e commoventi, c’erano destini, potevo sognarli nella mia testa, farli continuare con me nel ruolo della figlia del corsaro o della sua amata, e se proprio non riuscivo a farne a meno, raddrizzarne il finale. Ancora oggi, se trovo in giro la foto di un tuareg, di un dajako, di un qualsiasi indio o indiano dipinto per un rito o per la guerra, mi prende una commozione lieve, una sorta di complicità così immediata e fugace che non riesco a distinguerne l’origine. Vorrei ancora essere con loro, uno di loro.
Helena Janeczec è nata a Monaco di Baviera nel 1964 e vive in Italia dal 1983. Ha esordito come poetessa in lingua tedesca con la raccolta Ins Freie (Suhrkamp, 1989) e come narratrice in italiano con Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997); premio Bagutta opera prima).
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