TRE PATATE LESSE
Mario Rigoni Stern
Il nostro era diventato un andare che era indipendente dalla volontà e anche dalla resistenza fisica: era un'inerzia della carica avuta prima sul Don nei giorni dell'attesa degli attacchi, e dopo, nei primi giorni della sacca quando la volontà di sfondare l’accerchiamento e di arrivare a casa erano forze superiori a ogni altra. Inconsciamente superiori al freddo, alla fame, al pericolo. Una pallottola o una scarica di katiuscia o i cingoli di un carro armato potevano essere incidenti che fermavano la forza e nient'altro. Così, se morivi, era con quella volontà dentro, e non te ne importava niente.
Questo, almeno, era per me, e per i miei compagni che avevano scelto e fatto gruppo cosi. Non per quelli, ed erano tanti, che avevano abbandonato le armi e si erano rassegnati, o sbandati, o lasciati andare nella neve perché gli eventi li schiacciavano. Questi, certamente, la tragedia la sentivano e la vivevano in maniera mille volte più amara e penosa di noi perché, spettatori, la vedevano e vi erano dentro coscientemente. Noi no; noi eravamo attori che non capivano perché troppo presi dalla parte. La nostra parte era vivere per arrivare a casa.
Ma dopo Nikolajevka le cose cambiarono. Per me incominciarono a cambiare proprio quello stesso giorno quando, rimasti senza più una cartuccia per la pesante, giù in paese, e accerchiati dai russi che si erano infiltrati tra noi e il grosso della colonna a sua volta insaccato, dissi ad Antonelli di smontare l'otturatore della Breda 37 e di disperderne i pezzi nella neve.
Da quel momento, usciti da dietro lo steccato gridando e gettando bombe a mano, ci disperdemmo come un branco di uccelli alle fucilate del cacciatore. Ma mentre gli uccelli all'imbrunire del giorno si chiamano e si raggruppano, io, quella sera, nel caos dopo la battaglia, ritrovai un solo compagno, e, all'aperto, attorno a un fuoco gramo mi bruciacchiai le scarpe ai piedi quasi facendo la fine di Pinocchio.
Era notte quando ripresi a camminare dopo l'ultima battaglia. Solo. Per la prima volta ero solo. E quando nei giorni che vennero e fino a quando incontrai il cartello che indicava le due isbe dove si andava radunando quello che era rimasto del nostro battaglione, fino allora, dico, quando incontravo un viso noto o sentivo una voce, erano visi e voci di vivi mentre a me stesso io ero morto e cercavo disperatamente gli amici morti. Come avrei potuto, altrimenti, ripassare le Alpi?
Da sotto il tavolo di una di quelle isbe, come un cane ammalato, guardavo i piedi dei pochi compagni ritrovati. Con gli occhi da cane li guardavo andare e venire sulla terra battuta del pavimento dell'isba e un giorno che venne un po' di sole uscii da lì sotto perché Miliô Tuorn mi chiamò per nome e non per cognome e grado: mi portava l'acqua calda per lavare la piaga del piede puzzolente e per radermi la barba.
Il maggiore Bracchi mandò il tenente Zanotelli a prendere il comando della 55 che ora aveva la forza di un plotone; nessun vecchio ufficiale era rimasto per radunare i sopravvissuti, e dei graduati erano rimasti solo Antonelli, Artico e Tardivel; dei sottufficiali restavano Dotti dei conducenti, che a Nikolajevka aveva perduto il fratello che era al Val Chiese, e io del plotone mitraglieri, poiché anche il sergente furiere Filippini era stato congelato e in qualche maniera fatto proseguire per l'ospedale di Charkov.
Restammo per qualche giorno in quel villaggio ad aspettare chi non sarebbe mai potuto arrivare, e una mattina che era grigio e freddo e nevicava con vento, partimmo anche da queste ultime isbe. Era, dicono, il 3 febbraio del 1943.
Nessuno di noi aveva lo zaino, a qualcuno era rimasta una coperta che portava di traverso le spalle, a qualche altro la gavetta infilata nella cinghia delle giberne. Non tutti eravamo armati. Ancora non si era lasciato il paese, che sulla neve vedemmo un fante che si trascinava sui gomiti e sulle ginocchia, gridava verso di noi con un forte accento meridionale e implorava aiuto. Ma noi si camminava in silenzio dall'altro lato dell'ampia strada, lungo gli steccati degli orti. Passavano anche delle slitte e dei camion e uno di questi finalmente si fermò.
Si marciava da giorni a piccoli scaglioni per strade secondarie e si andava da villaggio a villaggio senza misura di tempo o di distanza. Un giorno ci ospitarono in una casa bella e ampia: aveva il tetto in lamiera zincata e una scala di pietra, e dentro c'erano un tinello, delle poltrone, un pianoforte, piante verdi e noi si stava confusi e timidi davanti alla loro gentilezza.
Qualche rara volta si incontravano delle sussistenze tedesche dove potevamo prelevare dei viveri; ma erano sempre pochi e tanto insufficienti alla nostra fame. Per questa ragione eravamo costretti a prendere quello che era possibile nelle isbe dei contadini, ma il più delle volte ci davano loro senza che si chiedesse, ed erano patate, cavoli e cetrioli in salamoia, pane di semi di girasole. Un uovo era gran fortuna! Ma si aveva l'impressione che nessun comando si curasse ora di noi che avevamo il torto di essere ancora vivi.
Ci avevano detto che dovevamo seguire i cartelli che indicavano Akhtirka, ma dopo Akhtirka di proseguire per Sumy, e Romny, e Priluki, e Kiev... In quel mese di febbraio camminammo per tutti i villaggi dell'Ucraina. In uno di questi posti ci diedero una cartolina in franchigia da scrivere a casa. Io misi solo la data e la firma, ma il problema fu trovare una matita per scriverla.
Ogni tanto, nelle piste che si avvicinavano alle città, incrociavamo reparti tedeschi che venivano dalla Francia per andare a fronteggiare l'avanzata dei russi; si vedeva che per loro noi eravamo niente, o, peggio, uomini sconfitti e d'ostacolo, e dall'alto dei mezzi corazzati ci guardavano con aria a volte ironica a volte sprezzante, ma sempre con alterigia e mai con pietà. Ai loro occhi eravamo “italienische Zigeuner”. Zingari. Sulle scie dei cingoli lasciavano bottiglie vuote di spumante.
In un villaggio, un altro giorno, vennero due camion a caricarci. A noi non pareva vero salirci sopra e fare in fretta i chilometri; ma dopo qualche ora di strada, in piena notte e steppa, il camion sul quale ero salito con i resti del mio e del primo plotone fucilieri, si fermò per un maledetto guasto. L'autista aveva paura dei partigiani, faceva un freddo cane, soffiava un vento gelido e non c'era possibilità di accendere un fuoco. Non fu possibile trovare il guasto e le mani, a frugare nel motore, gli si congelavano. Allora mandai due pattuglie a esplorare i lati della pista e una ritornò dicendo che a un paio di chilometri c'era un kòlcos abbandonato e deserto.
Vi arrivammo quasi assiderati, accendemmo un gran fuoco e il resto della notte lo passammo attorno a quel fuoco mangiando semi di girasole. Lì ce n'era un magazzino!
Al mattino ritornammo al camion dove, dopo qualche ora, arrivò l'altro a rimorchiarci. Gli autisti avevano sempre paura dei partigiani.
Le ore e i giorni passavano sempre e ancora camminando, e sembrava che non ci fosse mai fine. Una qualsiasi fine. Anche la neve non finiva mai. Pareva che tutto il mondo fosse di neve da calpestare, e, una volta finita la neve, che si dovesse camminare nel cielo da una stella all'altra come su lastre di ghiaccio nel buio spazio. Per lunghissime giornate grigie camminavo in coda alla nostra piccola colonna, e Dotti, il sergente maggiore dei conducenti, mi era compagno. In testa c'era il tenente Zanotelli. Compito mio e di Dotti era quello di rincuorare o aiutare come possibile gli ultimi che più faticavano a tenere il passo. I feriti e i congelati erano stati in qualche modo fatti ricoverare e forse erano già arrivati in Italia con i treni ospedale; ma tra di noi vi erano ancora molti ammalati o con principi di congelamento, o con ferite ancora non bene guarite, e poi la maggior parte eravamo consumati dalle tribolazioni.
Non ricordo per quale motivo, un pomeriggio, persi anch'io contatto con il mio scaglione in marcia.
Forse era a causa della dissenteria che da tempo mi tormentava, o per la piaga che avevo al piede e che non voleva guarire.
Quella sera mi trovai solo in un lungo villaggio. Nevicava. Camminavo rasente agli steccati degli orti e il fucile ad armacollo mi teneva stretta la coperta, come uno scialle. Mi appoggiavo al bastone a ogni passo e la neve fresca frusciava sotto le scarpe. Arrivato al centro, dove c'è l'ampia piazza e la solita chiesa con le cupole a cipolla, sento con sorpresa suoni di fisarmoniche e chiasso allegro provenire da una casa con tutte le finestre illuminate. Mi avvicino per guardare attraverso i vetri e vedo li dentro dei soldati tedeschi che fanno carnevale con delle ragazze ucraine. Tra la neve che continua a cadere rimango indeciso se entrare o no per chiedere un angolo con un po' di caldo, ma un vecchio alto e magro, avvolto in una pelliccia di pecora, mi si accosta e: – Nièt! – mi dice. – Non entrare là dentro. Nimeski, – dice, – nema carasciò, – e prendendomi per la coperta mi tira via verso il centro della piazza, lontano dai riquadri di quelle finestre.
– Vai verso quella strada, – mi spiega, – cammina fino in fondo, fino all'ultima isba del villaggio e chiama Magda. Dille che ti manda Piotr Ivanovic. Stanotte qui verranno i partigiani...
Gli dico grazie e lentamente riprendo a camminare. È buio, appena si intravedono le ombre delle isbe tra la neve che cade fitta e leggera. Ma dove busso e dico quello che mi ha detto il vecchio una porta si apre come fossi aspettato.
La penombra dell'ingresso è appena sfumata da un lume ad olio che la donna regge in alto. Con un cenno mi invita ad entrare, ad andare avanti. E poi dice parole con voce tranquilla e pietosa, mi aiuta a levarmi il fucile, la coperta incrostata di neve che scuote vigorosamente e stende sopra il forno.
Sento il caldo prendermi con dolcezza e un grande sfinimento uscire dal corpo per invadere le membra. Mi siederei qui sul pavimento di terra battuta, con la schiena appoggiata alla parete del forno, ad aspettare che la primavera sciolga il gelo. In questo odore di cavoli, di rape bollite, di farina; in questo vapore umido e caldo, in questo quasi buio dove solo un piccolo stoppino brucia nell'olio di girasole; in questo silenzio profondo che la neve sul tetto isola qui dentro. Qui sotto. Aspettare un'allodola e un cielo verde e rosa come si vede dalle montagne verso il mare quando finisce l'inverno.
Sto seduto con la schiena appoggiata al forno e il caldo mi scioglie come la neve sulla coperta. La vecchia mi parla come fossi un bambino di pochi mesi. Parlando mi leva le scarpe e mi medica la piaga, poi mi fa alzare prendendomi sotto le ascelle e mi fa stendere su un giaciglio dove sono preparate pelli di pecora, e parla. Parla dolcissimamente dicendo cose che non riesco a capire. Dopo, apre il forno, leva da li dentro un pignatto di terracotta e su un piatto di ferro smaltato mi porge quattro patate lesse e una presa di sale: – Cùsciai, cùsciai, – ripete come a un bambino viziato.
Mangio con gran fame e allora lei ritorna ad aprire il forno e ancora mi posa sul piatto delle pagnottine di farina, morbide, calde e ripiene di latte cagliato: – Cùsciai, cùsciai, – ripete. Dopo dice di sdraiarmi e dormire; lei prende un saccone di cartocci e si corica per terra vicino alla porta.
Il lumino guizza ombre fantastiche contro le pareti dell'isba. Anche da bambino, quando dormivo nel grande letto di mia madre, il lumino ad olio ardeva sul comodino davanti a un luccicante presepio di cartone e nella stufa di cotto sentivo scoppiettare la legna d'abete. Le pareti della camera brillavano come fossero state ricoperte di diamanti e di fili d'argento, ed era invece per la calaverna. Fuori, sulla strada che scendeva in piazza, sentivo le compagnie che cantavano il Natale, ma le ombre del lume e quelle del fuoco che danzavano sui muri mi facevano paura, e con la testa andavo sotto le coperte. E chiudevo gli occhi.
Un uomo con un lungo cappotto è in piedi accanto al mio giaciglio, vedo gli stivali di feltro e la canna di un mitra rivolta verso il pavimento. Parla sottovoce con la vecchia che sta affaccendandosi attorno al fuoco. Alzando la testa incontro i suoi occhi che brillano nella penombra. Ci guardiamo in silenzio; dopo, lui, con la mano libera, quella che non impugna il parabellum, mi fa cenno di stare disteso. Ma non è una imposizione, è come un gesto d'amicizia.
Va a sedersi su uno sgabello vicino al forno e la donna, parlando sempre sottovoce, e ogni tanto guardando dalla mia parte, gli porge sul piatto di ferro smaltato patate lessate e focaccine con latte cagliato. Lui vorrebbe far mangiare anche la vecchia, ma lei scuote il capo e dice: – Nièt, nièt, – con dolcezza.
Parlano a lungo, e per me è una sorpresa perché scopro come fosse la prima volta che si può parlare a lungo, discorrere. Parlare e non gridare; dire parole e non ordini, imprecazioni, bestemmie, monosillabi.
Quando l'uomo si alza in piedi e si rimette in testa il berrettone di pelo e riprende in mano il parabellum, la donna lo segna di croce alla maniera russa e lui scopre i denti bianchi in un sorriso indulgente. Verso di me fa un cenno di saluto, dà uno sguardo di controllo all'arma e si avvia. La vecchia lo accompagna sino fuori dalla porta.
– È mio figlio, – dice quando rientra dopo un poco. – Dormi.
Dopo avermi svegliato mi rifascio il piede; lei mi fa bere un infuso di erbe aromatiche, mi mette nella tasca tre patate bollite e calde e sempre mi parla come fossi un bambino. Mi lego con pezzi di corda le scarpe sfasciate e mi avvolgo nella coperta calda e asciutta; mi metto il fucile a tracolla per tenere aderente la coperta; la donna mi segna con la croce, mi accompagna alla porta e apre.
È notte profonda, ma non nevica più, ora. Le stelle brillano tutte nuove e innumerevoli: guardo l'Orsa, le Pleiadi, Orione. Delineo l'orientamento verso casa. La vecchia mi vuole accompagnare nella neve fresca e senza tracce fino a una pista segnata da pali con un ciuffo di paglia legato su ognuno. La pista si perde dove la Via Lattea si congiunge con l'orizzonte e ogni cristallo di neve è come una piccola stella.
– I tuoi compagni, – mi dice, – sono passati da qui ieri sera. Se cammini li raggiungerai prima di giorno. Cammina presto, vai. E quando sarai a casa tua ricordati della vecchia Magda.
Sentivo in tasca il calore delle tre patate. Dopo, quando incominciò l'alba, nel paese che lasciavo alle spalle ci fu una fitta e breve sparatoria.
(Tratto
dal libro Il sergente nella neve / Ritorno sul Don, Einaudi editrice, Torino, 1990)
Mario Rigoni Stern
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