LA PISTA DI GHIACCIO E DI FUOCO
Silvina Ocampo
Imparai a pattinare al Palais de Glace verso gli undici anni. Slupicio, il mio maestro, m'insegnò acrobazia, invogliandomi con confetti fra una prova e l'altra. Arrivai al punto da credere che non ero io che mi muovevo, bensi il pavimento che girava e veniva incontro a me. Quella sensazione era indice di quanto mi affascinasse la pista di pattinaggio e il ghiaccio, che era come uno specchio. Slupicio raddoppiava le sue esigenze; voleva che facessi la prova mortale, per esibirmi in qualche teatro, in un film o in un circo. Era difficile, ma Slupicio mi dominava. Quando mi serrava le viti dei pattini la mia volontà di ghiaccio gli apparteneva. La prova consisteva nel fatto che io mi lasciassi agganciare un piede a una staffa che terminava in una striscia di cuoio che lui reggeva con i denti, come un cane, facendomi girare a grande velocità, contemporaneamente a lui. Dapprima mi rattrappivo come un gomitolo, poi a poco a poco mi scioglievo fino ad arrivare alla velocità massima in cui mi allungavo tutta e sembravamo una trottola immobile. Le mie calze colorate e il suo cinturone blu elettrico, i sonagli della mia collana e la sua sciarpa variegata rilucevano come rilucono gli ornamenti di una trottola. Non so se mi sia mai capitato di considerare Slupicio come un uomo, forse perché aveva i capelli rossi. Quando entrava nella pista, sembrava che vi entrasse il sole. I suoi muscoli mi dolevano e le sue mani grandi mi facevano male, quando mi afferrava alla cintola per mettermi sulle sue spalle, all'inizio della prova. Faceva freddo nell'edificio, com'era naturale, ma l'esercizio sul ghiaccio riscalda il corpo, ed è per questo che mi ordinò di cambiare abbigliamento. Le calzamaglie di lana lasciarono il posto a calzamaglie di seta, poi di cotone, poi di un tessuto trasparente, che lasciava intravedere il seno e l'ombelico. In testa, il grosso berretto di pelo di coniglio, con i suoi occhietti brillanti, lasciò il posto a un turbante di seta, poi di garza. Arrivò il giorno in cui il suo capriccio giunse al colmo dell'eccentricità, visto il carattere convenzionale del Palais de Glace. Volle che facessi la prova senza vestiti.
– È diventata così comune la nudità che sarebbe meglio cercare qualche altro abbigliamento, – gli dissi.
Non volle udire ragioni. Era ridicolo vedere la mia nudità con quelle grosse scarpe bianche ai piedi. Non mi ascoltò. Il pubblico, quel giorno, mi applaudi con tanta insistenza che dovetti ripetere la prova. Mi portarono un cappotto di pelle bianca, durante l'intervallo, perché il sudore e il freddo avrebbero potuto anche farmi morire, secondo quanto detto dagli esperti in merito. Ogni volta che stavo per fare la prova mortale, mi facevo il segno della croce. Non avevo mai pensato che Slupicio fosse un mostro fino al giorno in cui tentammo la píú difficile delle prove, da soli sulla pista del Palais de Glace. Era un giorno di temporale, soltanto noi due e gli inservienti che erano venuti a pulire la sala. Volli mettermi la calzamaglia. Non me lo permise. Mi costrinse a sciogliermi i capelli e a spogliarmi completamente. Quando mi misi i pattini, mi guardò in modo strano, come se nel mio ombelico avesse scoperto la mia faccia. Poi s'inginocchiò, chiuse un occhio e mi guardò dentro l'ombelico.
– Cos'ho? – interrogai spaventata.
– Un caleidoscopio.
Facemmo la prova con maestria, e poi disse:
– Oggi inaugureremo una nuova prova.
Mi s'inginocchiò ai piedi, mi sollevò di scatto nell'aria e mi prese per la vita. Gli inservienti applaudirono. Un freddo gelido mi corse nelle vene e poi, con ritmo così lento che credetti di addormentarmi, ballammo, girando, girando fino a prendere velocità. Persi l'equilibrio. Mi sentivo morire sotto il fuoco dello sguardo di Slupicio. Da una parte il ghiaccio, dall'altra il fuoco. Ma rivivere fu una morte più grande, dopo quell'esperienza. Scappai da lui. Me ne andai a vivere in campagna dove solo la neve mi riconciliò col mondo. Il posto si chiamava La Lepre Innamorata. Pattinavo di solito su un lago di ghiaccio. Ma non conobbi mai il vero amore, perché non potevo dimenticare quella prova terribile e quel caleidoscopio.
Tornai alla città dalla pista di ghiaccio, per cadere di nuovo sotto il dominio di Slupicio. Mi sposai con lui.
La nostra vita coniugale fu come il fidanzamento. Non avevamo di che parlare. Potrei ripetere testualmente i nostri dialoghi durante i due anni di matrimonio, con un silenzio di cinque minuti tra una frase e l'altra. Primo dialogo, in un giardino:
– Come si chiama tua cugina?
– Casilda.
– Ah!
Secondo dialogo, davanti al mercato:
– Perché hai cambiato pettinatura?
– Io?
– Di certo non il cane.
Terzo dialogo, per strada:
– Mi piace la pioggia.
– A me il sole.
Quarto dialogo, sul treno:
– Quanta gente!
– Sí. Ma che puzza!
Quinto dialogo, sulla pista di ghiaccio:
– Ho paura.
– Di che?
– Non so.
– Come chiameremo il bambino?
– Iaccio.
Sesto dialogo, in automobile:
– Il pericolo protegge.
– Certo, vivere è peggio.
Settimo dialogo, in una pasticceria:
– Mi sono fatta un ritratto da sola.
– Addirittura.
Ottavo dialogo, in piazza:
– Quando arriverà la bambola?
– Bambola? Giochi ancora?
Nono dialogo, a una festa:
– Ti piace?
– Sì, no?
Decimo dialogo, sul ghiaccio:
– Sul ghiaccio tutto è bello.
– Brucia.
Mangiavamo, ci abbracciavamo, leggevamo, facevamo le parole incrociate. Io lavoravo a maglia, lui fumava pattinando, perché solo così non sentivamo la privazione delle parole che a volte ci faceva male. Quando mangiavamo nei ristoranti facevamo finta di parlare, perché avevamo vergogna di star sempre zitti. Sentivamo che saremmo morti senza averci detto nulla. Allora decidemmo di pattinare, fino a morirne, senza tregua. Ed è quanto facciamo. Dureremo poco! Quanto? Dio mio. Tutto è poco, tutto è molto.
(Tratto dalla racconta di racconti E così via, Einaudi, Torino, 1989. Traduzione di Alessandro Meragalli e Angelo Morino)
Silvina Ocampo,
( Buenos Aires, 1906-93), ha pubblicato diverse raccolte di racconti (Viaggio dimenticato; Autobiografia di Irene; La furia e altri racconti; E così via) contrassegnati da un realismo crudele che prepara l’irruzione del fantastico. Con Borges e Bioy Casares, suo marito, curò nel 1940 un’antologia della letteratura fantastica.
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