SCRIVIMI UNA LETTERA LUNGHISSIMA
Alda Merini
Scrivimi, te l’ho detto tante volte, scrivimi una lettera lunghissima che parli solamente di silenzio. L’altro giorno per te ho scritto ventisette pagine parlando di chissà dove.
In nome della morte avrei voluto mettere un paltò d’inverno e scendere al tuo funerale. Scendere nella valle del desiderio, dove si spengono tutti i conati d’amore.
Questa morte è il mio vomito tremendo contro una società tremenda che si occupa solo di festini.
Quando ho saputo che eri morto sono corsa a fare la spesa con i buoni dei dementi. Ti ho preparato un piatto caldo e un letto d’alloro.
Ma non c’era un amico alla festa dei morti.
Era tanto che volevi, Roberto, e Dio te lo ha concesso.
Mi sono detta: una tregua per un padre che era troppo potente per essere disonorato dalla viltà dell’uomo.
Ogni tanto dalla destra del tuo costato esce un’ombra. E diventa sempre più grande, sempre più nera. Sono i momenti peggiori, quelli in cui subisci un’operazione chirurgica senza anestesia, dolorosissima. È un’ombra che spaventa, e che altri chiamano poesia. Ma non è lei, è la solitudine.
La solitudine in un attimo fa sparire tutti i tuoi mariti. Diventi una fredda casalinga lagnosa, piena di accidenti corporei, che corre a disinfestarsi e che si riempie di palliativi.
Vuoi invocare un telefono. Vuoi invocare un treno. Vuoi invocare una qualsiasi lettera. Vuoi guarire e vuoi morire a un tempo. Non ti viene mai in mente che potresti semplicemente vivere.
Della vicina di fianco conosci soltanto la schiena. Sei abituata a pensarla con le mani tozze e gonfie, che impasta gli gnocchi della domenica, con i capelli fermati da mille e più bigodini. Della vicina di fronte conosci solo il peccato mortale, e del suo uomo le figlie che vivono con la moglie.
Ti resta il bar della domenica, dove paghi una coca-cola diecimila lire. Il ricordo ostinato di Maria Corti, che ti ha promesso monumenti nazionali. Lo sciroppo per gli anziani.
Quando calpesti i versi di Baudelaire caduti per terra, su cui hai rovesciato la minestra, gli dai un calcio negli stinchi. E li butti nel cortile.
Cos’è il dolore? Una traccia di nero nella coscienza, un segno di demarcazione, una cancellazione improvvisa. Qualcuno che ti ha sfregiato, ma più che sfregiato ti ha sepolto, ti ha dimenticato. Tu cerchi di capire perchè la persona amata ti abbia lasciata sola nel freddo della tua demenza, nel duro della tua pazienza, ma non ti rimane che una nascita divorante, un pugno di paglia sofferta su cui non vuoi più adagiarti.
Il dolore è un pugno di fango con un alito di anima così sottile da far pensare alla prima gettata dell’uomo.
Forse Dio non usò del fango ma della calcina, forse Dio fece Adamo con un marmo pregiato, un grande marmo bianco, forse Dio lo cavò dalle sue stesse mani, forse Dio, che aveva anima d’uomo, sentì che questo marmo gli premeva le dita. E fu uguale a Michelangelo.
Quello che il poeta non sopporta è che Dio l’abbia creato tale e che gli stia alle spalle come un guardiano, un grande insegnante che fa scorrere le sue dita sulla materia, che lo mantiene sempre in età scolare, che non gli vuole spiegare perchè lui non abbia conosciuto la morte.
Dio è lontano da noi molti anni luce. Forse è già morto, ma noi ne sentiamo ancora i palpiti, i veleni e l’impostura; se Dio ha creato l’amore, ebbene noi ne facciamo a meno; se Dio ha creato i figli, noi li rinneghiamo. Finchè lui, il nostro precursore, non ci spiegherà perchè l’uomo è nato. Perchè è nato metà uomo, metà serpente. E anche santo.
Torso umido addio, torso che veli il cuore mio fin dal mattino. Non ti chiedo l’intolleranza del caso: tu sei felice, temi solamente che la piaga notturna del mattino, la diva luce dalle bianche braccia, ti avvii nel bene. Solco di minaccia, addio. Ti lascio, polvere, cenere e bel suono, o volto di ragazzo e mio abbandono.
(Brano tratto da La pazza della porta accanto, Bompiani, Milano, 1999)