IL MAGLIONE
Norman Manea
Partiva
il lunedì e tornava il venerdì. Partiva piangendo,
come fosse un addio. La prossima volta non dovrà più
lasciarci soli - in una settimana possono succedere tante cose.
Magari, finiti i giorni di assenza, accadrà il miracolo
e non sarà più necessario che parta, che ci separiamo:
a un tratto, il cielo si aprirà e ci ritroveremo tutti
su un treno con carrozze vere, non come quello da cui ci hanno
scaricati in questo deserto in capo al mondo, simili a bestie
portate al macello. Un treno riscaldato, illuminato, coi sedili
imbottiti... sul quale dame dolci e gentili avrebbero servito
a ciascuno i suoi piatti preferiti, come si addice a dei viaggiatori
di ritorno dall'altro mondo. Oppure, ancor prima del venerdì,
giorno del suo ritorno, sarebbe finalmente crollato, per annientarci
o redimerci, quel cielo infinito, di cenere, in cui aspettavamo
con timore di essere accolti una volta per sempre, perché
tutto finisse.
E così se ne tornava frettolosa, inquieta, curva sotto
il sacco carico dei giorni e delle notti penati per noi.
Pareva un'ombra, si era rinsecchita, incupita. Aspettavamo alla
finestra che spuntasse dai fumi della pianura, la vedevamo avvicinarsi
febbrilmente, come un fantasma. Lo sapevamo, aveva lottato, supplicato:
infine le avevano concesso di andare nei villaggi stranieri dei
dintorni. Non avrebbe avuto né come né dove fuggire,
con noi rimasti sul posto. Il lavoro del babbo lo pagavano con
un quarto di pane al giorno. Se non era per lei, ci saremmo spenti
rapidamente, fin dal principio.
L'avevano, dunque, autorizzata a partire; mostravano una cinica
benevolenza, cedendo alle suppliche, come se si trattasse di un
gioco da protrarre e seguire per un po', per poi interromperlo
di colpo, con una giunta di crudeltà e piacere.
Lavorava a maglia dal lunedì al venerdì dai contadini
stranieri dei dintorni, di cui non conosceva la lingua. Sapevamo
che il gioco si sarebbe potuto interrompere in qualsiasi momento,
nel tugurio dove ci aveva abbandonati, o nelle case riscaldate
dove lavorava in silenzio guadagnandosi le patate, i fagioli,
ma anche farina, a volte persino formaggio, prugne secche, mele.
Solo lei credeva ancora che saremmo scampati, aggrappandosi a
qualunque cosa potesse salvarci.
Il venerdì significava, di conseguenza, una sorta di nuovo
principio. Come se avessimo ottenuto un altro rinvio. Sgusciava
verso di noi, schiacciata dal peso, trascinandosi, curva, sotto
il sacco. La gioia di rivederci diventava così intensa
da impedirci di parlare. E lei si agitava a lungo, come fuori
di sé, quasi incredula di averci ritrovati e di poterci
vedere. Impotente e spaventata, si aggirava nella stanza senza
avvicinarsi a noi. Si riprendeva a stento, ritrovava la forza
di aprire il sacco che, entrando, aveva gettato per terra. Quando
si chinava a spartire, voleva dire che si era calmata.
Ne aveva cavato, disponendoli a terra com'era sua abitudine, sei
mucchi per i sei giorni successivi: patate, barbabietole; aveva
messo da parte tre mele. Nessuno si sarebbe aspettato qualcosa
di diverso dal solito. Si era passata la mano sulla fronte, si
era rannicchiata per la stanchezza accanto al sacco. "Ho
portato qualcos'altro" non significava, necessariamente,
una sorpresa. Non ci aspettavamo qualcosa di nuovo, ci eravamo
disabituati a desiderare doni diversi; già ci stupivamo
che si dimostrasse capace di tanto.
Lo trasse con difficoltà dal fondo del sacco, come se dovesse
cavare, sfinita, un animale, prendendolo per le orecchie o per
le zampe anteriori. Non aveva la forza di tenerlo tra le braccia,
di mostrarcelo. Lo lasciò scivolare dalle sue mani scheletrite
sulla bocca del sacco, dove pareva ancora più spesso, pesante.
Naturalmente, non poteva essere che per il babbo; anche se pareva
troppo bello, o forse proprio perché ognuno sarebbe stato
tentato, fin dal primo istante, di appropriarsene, semplicemente,
benché non gli fosse destinato. Splendeva con tutti i suoi
colori, come se il mago che ci avrebbe salvati volesse mostrarci
tutto il suo potere. La notte soffiava intorno a noi solo fumo,
freddo, buio; non sentivamo che detonazioni, urla, il latrato
delle guardie, le cornacchie e le rane - avevamo dimenticato da
tempo simili bagliori.
Non era riuscita a distenderlo, perché ne vedessimo bene
le dimensioni, i particolari, ma non aveva più alcuna importanza.
Ormai era chiaro che si trattava di una cosa reale. Anche la nostra
salvezza ora pareva più vicina, o almeno possibile, dal
momento che potevamo vedere e toccare una tale meraviglia.
Non potendo trattenermi, mi ero avvicinato per accarezzarlo. Si
mostrava soffice, buono, morivo dalla voglia di rannicchiarmici
dentro, dimentico di tutti. Gli passavo la mano sulle maniche,
sul collo. Lo strinsi, lo rigirai, mi si abbandonava. Lo distesi,
lo aprii, poi lo ripiegai; lo presi per portarlo al babbo. Avrei
cominciato a smemorare, se la sua voce mi avesse fermato in tempo,
come mi aspettavo, per annunciarmi che, invece, era proprio per
me.
Ma se poteva essere ambito da tutti, tanto più era adatto
a lui, che aveva perduto per primo, da tempo, ogni speranza.
Era spesso, pareva grande, senza dubbio lo aveva fatto per lui.
Dovevo darglielo, era inutile tergiversare.
"No, non è per il babbo", riuscì a sussurrare
lei, quasi in colpa.
Mi ero fermato, sconcertato. Lo tenevo ancora tra le braccia,
accecato dai suoi colori e dal suo tepore. Mi rendevo conto che
non avrei dovuto intromettermi o, almeno, che avrei dovuto capire
fin dall'inizio come stavano le cose. Finalmente, poverina, si
era fatta qualcosa anche per sé. Sulle strade innevate
della steppa le sarebbe stato più utile che a noi. Dovevo
arrivarci da solo, ricordare come partiva,
stretta solo in una tela di sacco, i piedi ravvolti in stracci.
Non mi era consentita una tale cecità, una tale stupidità.
Mi erano quasi spuntate lacrime di rabbia. Non avrei voluto separarmene,
si mostrava arrendevole e sottomesso ma, se era suo, non potevo
più dire nulla. Lo apersi, per guardarlo un'ultima volta.
Non mi sembrava più tanto grande.
Lo aveva fatto per sé, aveva pensato una volta tanto anche
alle sue esigenze.
Mi ero voltato, mi diressi verso la fata buona, rannicchiata nell'angolo
della stanza che pareva più caldo.
"Il maglione è per Mara", disse lei sorridendo,
o piangendo, non so.
Si era fatto buio, non la vedevo più, non sapevo se mi
avesse sorriso, come avevo creduto, o se si fosse accasciata,
come talora accadeva. Su di me e intorno a me era calata una nebbia
livida o, forse, era la notte imminente.
Non avrei dovuto, ma ero rimasto immobile a lungo, la testa ficcata
nella morbidezza delle maniche e del davanti: mi ci ero annidato,
per non uscirne più. Ben presto, però, attraverso
lo spessore buono della lana, percepii il silenzio glaciale, sempre
più pesante, che stava diventando per loro insopportabile;
non si udivano più nemmeno i loro respiri.
Mi girai e andai con decisione verso Mara. Mi ero diretto infine,
ne ero convinto, là dove dovevo. Lo deposi sulle braccia
della bambina.
Lo guardai con più attenzione solo il giorno seguente.
Non mi sembrava più così straordinario. Primo, perché
la maglia era tutta nodi, si vedeva. Lo rovesciai, lo mostrai
a Mara, perché se ne convincesse: un nodo vicino all'altro.
Come se fosse cresciuto solo da avanzi di filo, annodati. E poi,
il colore. E vero, pareva avesse, in certi punti, un po' più
di rosso. Ma per il resto un guazzabuglio, non ci si capiva nulla.
Del bianco con del cenerognolo, del nero, una traccia di giallo,
un rimasuglio di verde, dell'altro verde, più scuro, una
striscia grigia, un'ombra di argilla bruna, marcia, vicino a una
prugna violacea; più in là, una punta di prosciutto
rosato, accanto al becco rosso e giallo di un uccello. Naturalmente,
non era di foggia femminile, chiunque se ne sarebbe accorto. Ma
questo non glielo dissi. Mara aveva una posizione speciale che,
me lo avevano insegnato, doveva essere mantenuta a ogni costo.
Nutrivamo per lei un amore eccessivo, la difendevamo con più
accanimento di noi stessi - la raccomandazione ce la ripetevano
spesso. Non potevo farle notare che era troppo grande per lei,
e con un girocollo da ragazzo. Avrebbe potuto, però, rendersene
conto anche da sola - era cresciuta abbastanza - ma, per far questo,
avrebbe dovuto sfilarselo qualche volta e guardarlo. A lei, naturalmente,
veniva permessa qualsiasi cosa. Siccome aveva chiesto di tenerselo
indosso, acconsentirono. Almeno nei primi giorni, fu così
che dormì, vestita. E vero che il freddo ci gelava, giorno
e notte, soprattutto la notte. Ma non appena uno cercava di mettersi
indosso più cose, lo affliggeva sempre lo stesso medesimo
guaio: i pidocchi. Spògliati, lavati, avvolgiti in altri
stracci puliti, quelli li facciamo bollire, controlliamo tutte
le cuciture, se no è un disastro. Sicché a me, lo
sapevo bene, non avrebbero permesso di dormire vestito per tre
notti di fila. Ma a lei sì, benché fosse protetta
con più ostinazione. Non appena si spargeva la voce che
all'altro capo delle baracche si era ammalato qualcuno, cominciavano
a controllarla, come fuori di sé: le palpavano la fronte,
il collo, le esaminavano gli occhi, i capelli, le unghie. Che
panico, se aveva per caso la fronte o le mani calde...
Lei doveva ritornare viva, a ogni costo, ripetevano a bassa voce
ogni volta. Era capitata tra noi per sbaglio: che cosa si sarebbe
detto se proprio lei fosse scomparsa, e noi fossimo tornati, mostrando
agli occhi di tutti che avevamo pensato solo alla nostra pelle.
Forse sua madre, ora, aveva saputo dove ci trovavamo ed era in
viaggio verso di noi, per ristabilire la verità documenti
alla mano. La bambina non aveva alcun legame con la nostra maledizione,
era innocente. Sua madre l'aveva mandata, per alcune settimane,
presso la sua vecchia amica, lontano dall'ospedale dove lei era
stata ricoverata. Sorpresa dal flagello, portata via e confusa
tra noi, era arrivata fin lì. Le proteste non convinsero
nessuno, non avevano tempo per i chiarimenti, a noi non credevano.
Certo, anche noi eravamo, a nostro modo, innocenti, lo gridavano
tutti, per non perdere la speranza. Ma il caso della nostra piccola
ospite pareva a tutti molto più grave. Se la situazione
non si fosse chiarita, e la sventurata fosse stata trattenuta
insieme a noi, doveva in ogni caso - su questo erano tutti d'accordo
- essere l'ultima, doveva sopravvivere a tutti. Bisbigliavano
negli angoli, quando la bambina non li sentiva, facevano a gara
nel proteggerla, facevano di tutto per accontentarla e, nello
stesso tempo, difenderla dal pericolo. Avrei dovuto indovinarlo
fin dall'inizio: il regalo non poteva essere che per lei, le avrebbero
permesso di goderselo in pace.
Solo il quarto giorno fui in grado di guardarlo con calma. Una
meraviglia, non potevo più nascondermelo. Gliel'avrei chiesto,
magari soltanto per una notte. Me l'avrebbe prestato, me lo avrebbe
anche regalato se l'avessi pregata. Si mostrava sempre buona con
me. Ma era proibito, lo sapevo. Però lo potevo ammirare,
indisturbato, per intere ore. Neppure il mago più esperto
sarebbe riuscito a fare qualcosa di più straordinario.
I nodi lo rendevano più resistente, concentravano al di
sotto, aumentandolo, il calore, perché l'involucro apparisse
- in superficie - morbido e liscio. Riguardo ai colori - strane
isole d'inchiostro, ora nero, ora verde, ora azzurro - si poteva
lasciarvi scorrere e affondare le dita e lo sguardo, a piacere,
fino a trovare una distesa rossa come di sabbia africana, un brandello
cenerino di nuvola, sfiorato da striature dorate, sole o fiori.
Un giorno intero non sarebbe bastato per esplorare tutti quei
continenti, che crescevano l'uno dall'altro tanto da dare le vertigini.
Non ebbi il tempo di farmelo venire a noia guardandolo. Neppure
di prenderlo in prestito e indossarlo, fino a farmelo diventare
indifferente. La settimana seguente, Mara aveva le guance rosse
di febbre. E così finì per lasciarlo giacere, abbandonato,
nell'angolo accanto alla finestra. Lo guardavo, pensavo a lui,
ma non lo toccai, anche se avrei voluto farlo.
Mara peggiorava, stava per morire. Dopo la malattia dei nonni,
sapevo come cominciava e come doveva finire. Sarebbe morta ben
presto, non avrebbero potuto aiutarla. Le ore in cui si riprendeva,
di nuovo allegra e chiacchierina, erano ingannevoli, lo sapevo.
Non avrebbero più avuto alcun motivo di non darlo, in seguito,
a me. La malattia sarebbe progredita, le giornate si erano fatte
più lunghe, pareva non avessero fine; la morte si avvicinava,
lo sentivo. Spaventato, aspettavo di vedere la bambina amata irrigidirsi
di colpo. Chissà se, offrendomelo ora... quasi accogliendo
una mia giusta rivendicazione, si sarebbe potuto fermare il corso
naturale delle cose. Non avrebbero esitato a darmelo, pur di salvarla,
benché io non avessi alcuna colpa del suo male. Tanto,
medicine per guarirla non ne avrebbero trovate.
Non mi ero intromesso nei loro discorsi e nei loro singhiozzi,
quando decisero di seppellirla al limitare del bosco, accanto
ai nonni, insieme a tutte le cose che le erano appartenute.
Aspettavo, trepidante, speravo ancora che lo dimenticassero. Ma
la mamma lo strappò da quell'angolo e lo gettò con
rabbia sopra le altre cose.
Rimasero per qualche istante accanto alla bambina, soffocati dai
singhiozzi, stringendosi l'uno all'altro. Benché non appartenesse
alla nostra famiglia, Mara era la prima a seguire i nonni. Era
diventata una di noi. Quando stavano per portare la bara fuori
dalla baracca, il babbo vi posò la sua grossa mano, tastò,
lo trovò, lo tirò da parte, lo lasciò cadere
a terra, dietro di sé. La mamma se n'era accorta, lo guardò
a lungo, ma non disse più nulla: accettava che lo salvassimo.
Tornammo tardi dal bosco, infreddoliti. Pioveva, la terra si era
appiccicata ai nostri stracci. Zolle intrise d'acqua avevano coperto
Mara. Sapevo, da quando era successo coi nonni, che non sarebbe
più tornata neppure lei. Ricordavo come si stringeva a
me per il freddo nel buio, passandomi le mani intorno al collo.
Il suo riso limpido e sbarazzino ci incantava. Restammo in silenzio,
ci stendemmo sul pavimento di terra, dove ci colse la notte.
Non mi ero avvicinato, non lo toccai. Lo avevo solo guardato,
furtivo, alcune volte: lo vedevo incupirsi, abbandonato, intorpidito.
Neppure il giorno seguente qualcuno mi disse di prenderlo, benché
la stanza ora sembrasse più umida e più fredda.
Il lunedì, la mamma partì di nuovo; solo nel pomeriggio,
quando restammo soli, il babbo me lo mise sulle spalle. Sentii
le sue maniche scivolarmi sul petto, pronte a riscaldarmi. Le
infilai, ficcai la testa in quell'involucro caldo. Mi stava a
pennello, sembrava fatto apposta per me. Avrei voluto uscire nel
cortile, a pavoneggiarmi. Avrei voluto passeggiare almeno per
la camera con indosso il maglione, ma non ne avevo il coraggio.
Me ne restai rannicchiato: finalmente era mio, come desideravo
da tanto tempo... tremavo, non riuscivo a controllarmi.
La gioia, però, fu di breve durata. Fin dal giorno seguente
lo sentii pendere floscio, senza vigore, dalle mie spalle. Era
questo il segnale, me ne ricordavo. Era cominciato così
coi nonni, poi con Mara. La malattia stava in agguato lì
intorno, penetrava di soppiatto, subdolamente, si infiltrava a
poco a poco, per poi esplodere improvvisa, verso sera: chi ne
era colpito barcollava, inebetito dalla febbre, accasciandosi,
senza più riuscire a parlare.
Cominciava l'agitazione, si chiedevano medicine ai vicini: almeno
un piramidone, un'aspirina, un po' d'alcol. Infine compariva il
termometro. Unico in tutto il lager, custodito da una vecchia
maniaca, sempre avvolto nello stesso sudicio brandello di coperta,
il termometro si otteneva con difficoltà, solo dopo reiterate
insistenze. Prima di arrivare al malato, passava con precauzione
di mano in mano, come un amuleto, per timore che si rompesse,
perché sarebbe scomparso il nostro ultimo legame col mondo
normale, al quale volevamo rimanere attaccati.
Poi faceva la sua comparsa il dottore, e così era stato
anche questa volta. Al posto dell'uomo distinto, sicuro delle
sue prescrizioni, con gli occhialini, c'era un tubercolotico gobbo,
stanco, cencioso. Lo chiamavamo dottore anche lui, aveva anche
lui le mani bianche e affusolate, ma non se le lavava più,
all'inizio e alla fine della visita, come un tempo. D'altronde,
limitava il più possibile i gesti e il consulto.
Aveva appoggiato il palmo sulla fronte della bambina, le aveva
guardato le dita, poi le aveva tastato il polso contando, a fior
di labbra, le pulsazioni; aveva scoperto il corpo giallognolo
e smagrito, per voltarlo da una parte e dall'altra, indicando
le chiazze, una, un'altra: la malattia aveva ormai preso possesso
completo del corpo della piccola paziente. Non c'era più
niente da fare se non levare le mani mormorando, a occhi chini,
il nome del tormento che non sarebbe durato più di qualche
giorno. Solo un miracolo, soltanto un miracolo... Aveva levato
dunque, ancora una volta, le mani, senza forze, implorando, come
facevano tutti, il miracolo. Poi se n'era andato quasi furtivo,
curvo, vergognoso, com'era venuto.
Calava la sera, sentivo non soltanto la luce dileguarsi sempre
più stanca, ma soprattutto l'asprezza del gelo improvviso,
tagliente. Calava il freddo della sera quando sentii qualcosa
di strano, come se mi avesse abbandonato: non mi proteggeva più;
inerte e freddo, ora mi pendeva indosso, svigorito. Senza dubbio,
aveva sempre covato dentro di sé la malattia. Aveva ingannato
anche Mara, ma lei non era riuscita, morendo, a portarla con sé.
Ora toccava a me. Me lo sarei strappato di dosso, per bruciarlo,
per gettarlo lontano. Troppo tardi, non avrebbe più avuto
alcun senso.
Non volevo finire in quella fossa umida, buia, dove non si sapeva
cos'altro dovesse succedere. Ero colpevole, lo riconoscevo: non
avrei dovuto bramarne, con tanta impazienza, i colori e il tepore.
Mi fossi dominato, avessi aspettato, non avessi spiato con tanta
spudoratezza la sofferenza di Mara, e ciò che ne era seguito,
fino al momento in cui l'avevo sentito avvolgermi! Non avrei dovuto
essere così debole e cieco, così impaziente, da
lasciarmi vincere da lacrime di gioia quando ne venni in possesso...
Ero stato visto, di certo, ero stato notato per la mia avidità
e la mia abiezione. Se vi avessi rinunciato, seppure non dall'inizio,
ma almeno dopo la morte di Mara, il castigo sarebbe stato, forse,
evitato...
Non ne potevo più, mi avvicinai alla finestra. Il babbo
spiava, come al solito, attraverso l'angusto occhio di luce, il
miracolo o la sciagura. Verso sera lo prendeva la disperazione,
non riusciva più a dominarsi...
"La malattia, la malattia, sto male" - ma mi udì
solo più tardi. Si voltò bruscamente, mi mise la
mano sulla fronte, sul collo. Mi trascinò davanti alla
finestra, mi fece contare, tirar fuori la lingua, aprire gli occhi.
"Sei pallido, pallidissimo, ma non hai niente" disse,
prendendomi tra le sue braccia grandi, per addormentarmi.
Non avevo la forza di parlare. Indicai alcune volte le maniche
infette. Volsi la mano verso il collo malato, ma non se ne accorgeva.
Era ormai notte fonda, mi copriva con il suo largo sorriso, si
chinava su di me, tenendomi la mano sulla fronte sudata.
Mi svegliai nella bara, mentre calavo nella fossa, accanto a Mara,
poi più nulla. Tremavo, si era fatto giorno, volevo dir
loro che non sarei arrivato a venerdì, sicché non
ci sarebbe stato nessuno in grado di salvarmi. Era arrivata di
notte, non vedevo nulla, solo una nuvola profonda, sempre più
profonda, quando udii sopra di me la sua voce spaventata.
Sentii sul collo, all'orecchio, il soffio di un respiro affannoso.
"Meno male che sono arrivata, che sono arrivata in tempo"
diceva. Si udì anche la voce stridula del medico, che ansimava
lì intorno: "Non ha chiazze, non ci sono sintomi".
Così aveva detto: "sintomi". Suonava bene "sintomi":
mi trascinai dietro la parola, cadevo, precipitavo; sintomi, era
quasi rassicurante, scivolavo, scendevo, poi caddi in deliquio.
Pesci scivolosi e umidi mi passavano sulle labbra riarse, mi lambivano
le orecchie, fluivo con loro. A volte mi scrollavo le onde dal
petto, cercavo di aprire gli occhi. Vedevo Mara diafana, di cera,
i denti gialli e aguzzi del medico, e di nuovo la fossa.
La morte per acqua durò, probabilmente, alcune notti, finché
non udii di nuovo la voce familiare. "Parto più tranquilla,
meno male che è passata." Ero sfuggito alle braccia
della morte; barcollante, ormai tornato in me, tentavo i primi
passi, sostenuto, lungo le pareti, dal braccio del babbo, fino
alla finestra della steppa che aveva ingoiato tutto.
Riuscii a chiedere se avevo ancora delle chiazze.
"Non ne hai mai avute. Non era la malattia. Soltanto uno
spavento, così ha detto il medico. Deliravi, hai sempre
delirato. Non si stacca più, così dicevi. Non si
stacca più, e cercavi di levare le mani."
Mi aveva sollevato per le ascelle per farmi guardare dalla finestra.
Mi diede una brodaglia bollente. Il venerdì, fin dal mattino,
la steppa ci restituì la mamma. "Sono venuta prima,
ho detto che eri malato. Mi hanno dato dello strutto, per farti
riprendere le forze."
E così ripresi le forze, potei rivederlo. Sconfitto, rimpicciolito,
sottomesso, in un angolo, pronto a servirmi. Ma io ero diventato
un altro. Lo lasciai aspettare, non lo guardai più. Mi
avevano avvolto in una coperta pesante, non sentivo più
ombra di freddo. Tutti mi stavano intorno, risoluti a non lasciarmi
più solo.
Si era ristretto, rimpicciolito. Finii per lasciare che mi riconquistasse.
In fondo, non si era dimostrato così pericoloso. Lasciato
a lungo affagottato accanto alla parete umida, il pelo ispido
e irregolare si era un po' intenerito.
Ficcai le narici e tutta la faccia nella ruvidezza di quell'involucro
un tempo così soffice e buono. Perché m'inebriasse
di nuovo quel tepore come di pane tostato, o di patate lesse,
o l'odore di segatura fresca, la fragranza del latte, la pioggia,
le foglie, la nostalgia di matite e di mele. Ma non era così,
piuttosto un sentore strano, di muffa. Qualcosa di putrido e greve.
O soltanto pungente, soffocante, non ricordo. Si era scurito,
inaridito; si estraniava, estenuato.
Nei giorni seguenti ci riabituammo l'uno all'altro, riprendevamo
a conoscerci. Ci ritrovavamo a poco a poco, ridiventava se stesso.
Si mostrava sempre più morbido, più caldo. I colori
erano rinati, un mondo di inchiostri. Tuttavia la sua vicinanza
mi spaventava, mi opprimeva. Lo avevo desiderato intensamente,
come uno sciagurato, perché restasse solo mio. La mia impazienza
aveva affrettato la morte di Mara! Tremavo, benché nessuno
all'infuori di lui lo sapesse. Mi avvicinavo a lui senza coraggio,
senza vigore. Le braccia vi si ingarbugliavano, non riuscivo a
tirar fuori la testa. Quando, finalmente, mi si era incollato
addosso, troppo aderente, quasi mi soffocava. Non temevo più
la malattia. Mara gli aveva tolto la forza, lo sapevo: lui non
poteva più contagiarmi. Restava il senso di colpa, restava
la paura per l'abbraccio delle maniche che si avvinghiavano, scottando,
come tentava di fare la bambina tutte le notti, quando si stringeva
a me per il freddo.
Però mi abituavo a lui e lui aveva messo giudizio. Non
mi saltava più agli occhi, per farmi ricordare. Mi ubbidiva,
mi serviva, sempre più insignificante, acquiescente. Spesso
dimenticavo le mie ossessioni, avevo acquistato una certa sicurezza.
Ma al funerale del dottore non lo indossai, sarebbe stato troppo.
Infuriava la tormenta, battevo i denti di spavento e di freddo.
Lo avevo nascosto, in modo che nessuno lo trovasse. Me ne dimenticai
per diversi giorni; lo rimisi in libertà solo in seguito,
quando i funerali si erano moltiplicati, più d'uno ogni
giorno. Non c'erano altri rinvii, inutile cercare scampo. Cadevano
a decine, la maledizione colpiva a caso, proprio quelli che non
se l'aspettavano. Non avevano più il tempo di occuparsi
di me, neppure io: la paura era diventata generale, smisurata,
tanto da ingoiarci tutti. Ci assottigliavamo, inebetiti, dimentichi
di noi e degli altri.
Niente contava più, né l'infamia, né la colpa.
Lo aveva capito anche lui. Stingeva i suoi colori, il suo odore,
per passare sempre più inosservato. Era solo utile: lo
indossavo ogni giorno, mi proteggeva dal freddo, e basta. Si tendeva
perfettamente, come uno scudo, niente ricordava la nostra gloriosa
intimità di un tempo. Non ci vedevamo, ci difendevamo alla
meglio, senza difesa. I venti della steppa si avvicinavano, per
fare tra noi la loro scelta. Il loro urlo vorace copriva tutte
le paure. Nessuno avrebbe più percepito un povero singulto
soffocato, colpevole e infame.
Ogni giorno ci spiava. Dimenticavamo i giorni, aspettavamo, ascoltavamo
il digrigno rabbioso della notte. Il tempo ci perseguitava, non
c'era più niente da fare, anche il tempo era contagiato,
eravamo in suo potere.
(Tratto dalla raccolta Ottobre, ore otto, Il Saggiatore,
Milano, 1998, traduzione di Marco Cugno)
Norman Manea è nato nel 1936 a Suceava, in Bucovina
(Romania). Tra i cinque e i nove anni, per le sue origini ebraiche,
è stato internato con la famiglia in un campo di concentramento
del regime fascista romeno, in Ucraina. Ha vissuto la sua giovinezza
nella Romania stalinista del dopoguerra e, dalla metà degli
anni sessanta, ha sperimentato come uomo e come scrittore la dittatura
di Ceausescu. Nel 1986 ha lasciato il suo paese e vive attualmente
negli Stati Uniti, dove insegna al Bard College di New York. Fra
le sue opere, tradotte in più di dieci lingue: i romanzi
Atrium (1974), Il libro del figlio (1986); .i saggi
compresi in Gli anni di apprendistato del povero Augusto
(1979), Di contorno (1984) e Clown. Il dittatore e l'artista;
la raccolta di racconti Un paradiso forzato.
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