LA METAFORA DELL’ORSO E GLI ANGOLI RETTI
Barbara
Pumhösel
L’orso
non guardava più la gente curiosa davanti alla sua gabbia
con le fondamenta di cemento e le sbarre d’acciaio. La
ignorava. Anche se ne veniva pochissima. Il suo era un piccolo
zoo ormai senza budget e senza attrazioni. Gli animali rinchiusi
non interessavano più. La gente preferiva guardarli
in TV per vederli in movimento nel loro habitat naturale.
Non poteva fare a meno, però, di notare la bambina perché stava
ferma seduta sul grande sasso vicino alla sua gabbia e studiava.
Ripeteva definizioni sugli angoli retti e poi passava alle figure
retoriche della poesia.
Ogni tanto alzava un po’ la voce come se chiedesse conferma
a lui, l’orso. Lo guardava non come un animale in esposizione,
ma come un compagno di studi un po’ più grande,
come uno che dovesse capire. I sussidiari sulle ginocchia non
riuscivano a trasmetterle nessun entusiasmo e non la aiutavano
a comprendere, perché spiegavano con una lingua grigia,
burocratica, senza colore e senza amore. Fu infatti quando la
bambina riassumeva, con parole proprie, che l’orso capì.
Questa era roba che serviva molto di più a lui che a qualsiasi
scolaro. Non sapeva ancora come mettere a frutto le cose che
stava ascoltando, però intuì la loro importanza.
Stava fermo, in posizione da letargo, ma con tutti i sensi all’erta.
Aspettò la notte. Il buio, o una memoria lontana, gli
portò un odore di muschio e terra, una speranza di cespugli
di mirtillo, di fragoline di bosco. I suoi occhi producevano
immagini di un marrone umido, di un viola color d’ombra
sul limitare della foresta; vedeva il guizzo d’argento
di salmoni che saltavano, sentiva lo scricchiolio di un ramo
che si spezzava sotto la neve e l’ululato di un lupo innamorato.
E non era un sogno.
Forse tutto questo sonnecchiare per anni immobile era stato soltanto
un incubo; ora, però, era sveglissimo. Il cuore gli prese
a battere all’impazzata e d’un tratto sapeva. Guardò intensamente
la porta d’acciaio, fissava le linee verticali delle sbarre,
richiamò in mente, con tutta la sua forza di volontà,
una delle regole sui segmenti paralleli e perpendicolari e fece
ruotare il tutto di novanta gradi in senso antiorario. Ora le
linee erano orizzontali, non erano più sbarre, si potevano
vedere come righe di un quaderno in cui studiare ancora, o … come
una comoda scala a pioli su cui salire. Aveva costruita una metafora,
come da definizione, con le basi solide e una struttura geometrica,
con le regole della matematica e un materiale indistruttibile
che lo aveva tenuto rinchiuso per tutto una vita. Ci salì sopra,
lo reggeva senza tentennamenti. L’odore di muschio si fece
più forte e l’ululato meno lontano e più urgente.
Discese dall’altra parte, e mentre si fece strada tra i
capannoni della periferia, le baracche di lamiera e le fabbriche
abbandonate, il suo primo pensiero in libertà andò alla
bambina che lo aveva scelto come compagno di studi per un pomeriggio.
Accelerò quando vide i primi alberi per sparire poco dopo
tra il buio e la nebbiolina del bosco.
Barbara
Pumhösel è nata a Neustift bei Scheibbs in
Austria nel 1959. Dopo vari lavori (ha tra l’altro incartato
carta igienica alla catena di montaggio e fabbricato cucchiai di
legno
al tornio) e vari spostamenti (Gran Bretagna e Francia) si è laureata
in Lingue e letterature straniere all’Università di
Vienna. Dal 1988 vive a Bagno a Ripoli (Fi) ed attualmente collabora
ad un progetto di promozione della lettura nelle scuole dell’obbligo
e con la redazione di una casa editrice fiorentina nella sezione “Letteratura
per ragazzi”. Collabora a varie riviste e ha pubblicato testi
poetici in antologie in Italia e all’estero.
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