MELINDA,
STREGA PER FORZA
Dino
Buzzati
Teramo, settembre 1965
L’amico
Franco Manocchia mi ha condotto a vedere la casupola abbandonata
dove è vissuta e morta la strega Melinda. È una
misera catapecchia della montagna, il pavimento è di
terra battuta, le stanze per modo di dire sono tre, i mobili
non esistono più tranne una rozza mensola dove una volta
stava il rozzo testone di legno per le fatture. Sul focolare,
ancora della cenere. nel letto del primo locale, dove lei dormiva,
una breccia fra le sconnesse tegole di cotto. Di là è volata
fuori l’anima di Melinda al momento della morte, tre
anni fa, per vecchiaia, all’età di 93 anni.
Pianse
la mamma quando io nacqui, per giorni e notti mi hanno detto
che pianse, e morì pochi mesi dopo, credo che morì proprio
per questo, perché ero nata io figlia maledetta.
Se fossi nata maschio, sarebbe stato tutto diverso, avrei
spezzato
la catena del destino; un bambino come tutti gli altri, un
ragazzo, un uomo come tutti gli latri, contadino, muratore,
cameriere, o sarei morto in guerra, chissà. E non
sarei stata sempre così sola. Settima femmina di una
famiglia senza maschi, nata al settimo mese avvolta nella
placenta, sette e sette, numero della malasorte. Chi mai
nacque più strega di me?
È uno
sperduto paese di povera gente sul piedistallo del Gran Sasso,
tra boschi, ripidi prati e magri campi. Fino a pochi anni
fa né strade né luce. Una dozzina di case ai lati
di una strada erta e fangosa. Altri casolari sparsi intorno.
Niente che sorrida, se non qualche faccia di bambino, e il
sole di settembre. L’ex-tana di Melinda sorge isolata,
alta sopra il paese.
“Poveraccia” dice
Manocchia. “La sua storia ricorda un po’ la Monaca
di Monza. Fin da piccola condannata a fare la strega, come quella
era stata condannata al convento. E non si poteva ribellar. Io
l’ho conosciuta”.
Ma
da bambina io non lo sapevo, nessuno mi aveva detto niente.
Soltanto non capivo perché le altre bambine non giocavano
con me, perché in chiesa le donne mi guardavano fisse.
Mi guardavano perché ero una bella ragazza? No, mi
guardavano perché ero disgraziata, ma la mia disgrazia
non la conoscevo ancora.
Avevo
quindici anni quando una comare mi disse: lo sai che sei una strega?
Nata settima femmina il settimo mese, questo è il segno,
sarai strega per tutta la vita.
Alla
notizia feci un salto di gioia, invece che piangere. Così cominciò la
mia vita grama. Felice di sapermi una strega perché un
giovanotto di Penne proprio di quei tempi mi aveva avuto;
sedotta e poi abbandonata; quindi partito per militare senza
un bacio né un saluto né una cartolina postale.
E io ero andata dalla comare con questa mia disperazione.
Allora lei disse: brava, fagli subito vedere che strega sei,
fagli una buona fattura a legare, vieni di qua che ti insegno
io.
Mi
insegnò. Quando lui tornò dal fronte nel suo
guanciale del letto c’era nascosta la mia fattura,
e in pochi giorni fu ammattito d’amore. Erano ciocche
dei miei capelli, un bottone del mio corpetto, un pannolino
sporco di sangue mio. Così tornò da me e in
pochi giorni eravamo sposi.
Ma
ero venuta al mondo disgraziata: poco dopo ch’era ripartito
per la guerra, mi arrivò una carta dei comandi militari:
siamo dolenti di... Insomma era rimasto ammazzato in battaglia.
Ebbi
due gemelli, due bei maschietti. I miei figli! Appena diventati
grandi, uno da una parte e uno dall’altra.
Una madre come me? Una madre strega? Via tutti e due per
il mondo. Non li ho mai più visti, non hanno mai scritto,
dovrebbero stare nelle Americhe, chissà.
“L’ho
conosciuta” racconta Manocchia. “Una classica strega
abruzzese senza niente di romantico: una che applica l’antico
codice della stregoneria locale tramandato a voce di strega
in strega: una che sa benissimo quando fa il bene e fa il male,
che non si illude e sa di non poter evitare l’inferno.
C’è per lei una sola salvezza possibile; se al
momento della morte, quando il diavolo aspetta alla porta,
qualcuno apre un buco nel tetto, per dove l’anima possa
fuggire.
“Però era
una buonissima donna. Avrà magari ammazzato qualcuno con
le sue ingenue fatture, però so che era una buonissima donna,
per quanto sembri assurdo. A 83 anni, quando l’ho conosciuta,
i capelli erano tutti neri e lucidi come un corvo. Occhi a spillo,
labbro inferiore sporgente, naso aquilino, sembrava la sorella
di Dante Alighieri. Un’espressione bonaria e tranquilla.
Tanto lei era pulita di persona, tanto era sudicia la sua casa.
Zoppicava un poco, parlava soltanto in dialetto. La gente la odiava
e la temeva; in fondo erano loro che l’avevano voluta così.
Solo i bambini venivano a beffeggiarla, allora lei usciva con la
scopa in mano. Ma senza rabbia. Finiva la sfuriata sorridendo.”
Il
buon effetto della mia prima fattura fece il giro delle comari.
Per il marito morto in guerra mi diedero una pensione, ma era
così poca. I due piccoli avevano fame, avevo fame io.
Mi diedi da fare.
Andai
a Forcella da un magarone che operava con un trincetto da calzolaio
e guariva torcibudella e cancro. Quello però era un
mago buono, mi insegnò soltanto le arti del bene. Le
fatture cattive le imparai da una vecchia di Monteprandone,
provincia di Ascoli Piceno.
Poi me ne tornai al paese e cominciai a operare, non avevo
ancora diciott’anni.
Da allora cominciarono a venire dai paesi vicini perché avevano
bisogno di guarire, di guadagnare, di amare, di uccidere. Quando
mi chiedevano del male, appena possibile rispondeva di no; allora
gridavano: che razza di strega sei? Per le fatture buone mi davano
a volontà: un mazzo d’agli, qualche carta da cento.
Per le fatture a morte volevo mezzo maiale.
Un giorno arrivò un vecchio dalla montagna, era brutto,
cattivo, padre di tre figli, voleva una fattura a morte per una
biondina del suo paese. La conoscevo, aveva appena tredici anni,
con due belle trecce, due occhi azzurri, un visino da baci. Il
vecchio le si era attaccato alle sottanelle, lei lo aveva cacciato,
lui l’aveva presa per forza. I genitori avevano fatto denuncia,
adesso si aspettava il processo, il vecchio voleva la ragazzina
morta perché non andasse più a testimoniare. Non
era un delitto troppo brutto? Io gli risposi di no. Ma l’uomo
impazzito cominciò a bastonarmi, gridava: se non obbedisci
ti ammazzo. Mezza morta allora gliela feci, era però una
fattura falsa, infatti la biondina neppure si ammalò.
“Melinda
mi aveva preso subito in simpatia” dice Manocchia. “Fatto è che
mi ha spiegato vari suoi sortilegi. Per esempio quello che
fa diventare pazzi, o ciechi, o sordi; lei usava un faccione
di donna scolpito in una radice d’olivo, con una criniera
di capelli finti; e ficcava chiodi nella parte desiderata.
Questo feticcio serviva anche per le fatture a trasferimento,
che fanno passare una malattia da una persona all’altra.
E spesso il risultato c’era. Probabilmente per effetto
della suggestione. Se uno sapeva di essere stato affatturato,
a forza di pensarci su c’era il caso che si ammalasse
o impazzisse davvero.
“Per
far soffrire d’amore invece Melinda chiedeva una fotografia
dell’amato, un oggetto o indumento che fosse stato a
contatto della sua pelle, un cuore di capretto e degli spilli.
Il cuore lo metteva sopra la foto e poi lo trafiggeva con gli
spilli. L’oggetto dell’amato doveva essere tenuto
sotto il guanciale di lei.
“Le
fatture a morte erano fatte di succo di radici bollite, infuso
di lauro, sangue di porco lessato, sangue della donna che voleva
uccidere o seme dell’uomo, svariate erbe e spezzatino
di funghi velenosi; da versare, in dosi minime, per sette giorni,
nel caffè della vittima. Melinda una volta me n’ha
consegnato un campione. Era un intruglio nerastro che ho voluto
dare a un laboratorio da analizzare. Sfido che aveva effetto,
altro che arti magiche. Mi hanno risposto che era veleno bello
e buono.
“Da
quel giorno non l’ho vista più. Povera
Melinda. È morta tre estati fa. Forse è stata l’ultima
vera strega d’Abruzzi” nella voce di Manocchia c’è quasi
un velo di rimpianto. “Le altre ancora vive, dai loro paeselli
sono scese nelle città, all’Aquila, a Teramo, a
Pescara, a Francavilla, si sono industrializzate, hanno aperti
gabinetti di consultazione, mettono inserzioni sui giornali,
piccole maghe imborghesite. È un mondo scomparso per sempre.
E delle streghe defunte, come in questo paese, nessuno parla
volentieri.”
Di
fatture ne feci migliaia e migliaia nella lunga vita, molte
per il bene, poche per il male e la morte. Però sempre
povera in canna rimasi. La gente non mi amava né odiava,
certo se uscivo nella notte di Natale quando c’è la
caccia alle streghe, mi bruciavano viva, garantito. Io lo sapevo
e mi chiudevo in casa; chiusa in casa più sola che mai,
per tante e tante notti del Santo natale che mi ero ormai stancata
di contarle.
Ma non era questo il mio dispiacere. La pena era che alla mia
morte nessuno sarebbe venuto ad aprire il buco nel tetto, un
foro, una porticina per l’anima mia.
Eppure
al mondo c’è più buona gente di quello
che si crede. Ero in letto senza più forze, che non
mi potevo neanche muovere, però con gli occhi ancora
aperti, e sentivo fuori il diavolo che camminava su e giù aspettando
e batteva lo zoccolo impaziente perché ero così lenta
a morire, quando sono arrivate due con una scala di legno,
hanno rotto le tegole, hanno fatto un buco nel tetto, e la
mia vecchia anima se n’è volata su come una farfalletta.
Così,
adesso, io, dormo in pace. Grazie.
(Tratto dal libro I misteri d’Italia, Oscar Mondadori,
Milano, 1978)
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