INTIMITÀ
Richard
Ford
Tutto
questo accadde un giorno in cui il mio matrimonio era ancora
felice.
Abitavamo in una grande città del Nordest. Era inverno,
il mese più freddo. Io stavo, naturalmente, ancora cercando
di scrivere, e mia moglie lavorava come traduttrice per un piccolo
editore specializzato in pubblicazioni scientifiche cecoslovacche.
Eravamo sposati da dieci anni e continuavamo a cullarci nella
strana ed entusiasmante illusione di essere finalmente scampati
alle peggiori tribolazioni della vita.
L’appartamento
che avevamo affittato si trovava nel vecchio quartiere
industriale a sud della città, e lo spazio abitabile
era solo una grande stanza vuota con alcuni finestroni
sul davanti e sul retro, quasi priva di luce elettrica.
La luce naturale era tutto. In quella stanza aveva abitato,
prima di noi, un celebre regista teatrale d’avanguardia
che v’inscenava i suoi lavori nichilistici e contorti,
sicché i muri erano dipinti di nero, e lungo uno
di essi c’erano ancora dei gradini per il suo pubblico
piccolo e maldisposto. Il nostro letto – quello di
mia moglie e mio – era in un angolo buio dove avevamo
sistemato, per avere un po’ d’intimità,
alcuni alti fondali di tela nera. Anche se, naturalmente,
non c’era nessuno dalla cui invadenza dovessimo proteggere
la nostra intimità. |
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Ogni sera, quando mia moglie tornava dal lavoro, uscivamo
nelle strade fredde e luccicanti e cercavamo un ristorante
dove cenare.
Più tardi sostavamo per un’ora in qualche bar, ordinando
un brandy o un caffè, e parlavamo appassionatamente delle
traduzioni che stava facendo mia moglie, ma mai (per fortuna)
del mio lavoro, dove già allora stavo dimostrandomi
una schiappa.
Il nostro desiderio, manco a dirlo, era stare il più a
lungo possibile fuori da quell’appartamento. Perché non
solo dentro era quasi buio, ma ogni sera alle sette il proprietario
del palazzo spegneva il riscaldamento, sicché verso le
dieci – al nostro piano, il più alto – faceva
così freddo che l’unico posto dove si poteva stare
era a letto, sotto un mucchio di coperte, e quasi senza muoversi.
Mia moglie, allora, lavorava moltissimo ed era sempre stanca,
e anche se ogni tanto tornavamo a casa un po’ brilli e
facevamo l’amore al buio sotto le coperte, il più delle
volte lei andava subito a letto, esausta, e stava già russando
prima che io potessi raggiungere il mio posto accanto a lei.
E così accadde che molte sere di quell’inverno nel
freddo stanzone quasi vuoto io fossi sveglio, spesso completamente
sveglio, per via del caffè forte che avevamo bevuto. E
spesso passeggiavo da una finestra all’altra guardando
fuori, giù nella strada deserta o su verso il cielo spettrale
intriso della tremula luminescenza emanata dagli edifici della
città, edifici che io non potevo nemmeno vedere. Spesso
avevo una coperta, qualche volta anche due, sulle spalle e
portavo i pesanti calzettoni di lana grezza che avevo ancora
da quando
ero ragazzo.
Fu una di quelle sere fredde che – dalle finestre sul retro
dell’appartamento, finestre che davano prima su un vicolo
sottostante, poi, più in là, su un’area dov’era
stata demolita una fabbrica di cavi metallici, scoprendo la fila
di palazzi della strada parallela alla nostra – vidi,
dentro un lungo appartamento rischiarato da una luce gialla,
la figura
di una donna che si stava spogliando lentamente, dimentica,
a giudicare da tutte le apparenze, del mondo esterno alla sua
vetrata.
Per via della distanza non potevo distinguerla bene e con chiarezza,
vedevo solo che era piccola di statura e apparentemente magra,
con capelli neri e cortissimi: una donna minuta in tutti i
sensi. La luce gialla della stanza dove si trovava era forte
e dava
alla sua pelle una patina bronzea e lucente, e i suoi movimenti,
visti dai miei finestroni, sembravano stilizzati e un po’ irreali,
simili a movimenti di una silhouette o dei personaggi di un
vecchio film.
Ma io, solo al freddo e al buio, avvolto in un paio di coperte
che mi coprivano la testa come uno scialle, con mia moglie
che dormiva, ignara, a qualche passo da me, io rimasi folgorato
da
quella vista. In un primo momento mi accostai al vetro, tanto
da sentire il freddo sulle guance. Ma poi, temendo di poter
essere notato anche da così lontano, mi tirai indietro. Alla
fine mi diressi verso l’angolo dello stanzone e spensi
la lampadina che mia moglie teneva accanto al letto, rimanendo
completamente celato nelle tenebre. E dopo qualche altro minuto
aprii un cassetto e trovai l’argenteo binocolo da teatro
lasciato dal regista, e col binocolo mi avvicinai alla finestra,
e dalla mia distesa buia attraverso la distesa buia studiai
quella donna.
A che cosa pensavo? Non lo so. Senza dubbio, ero eccitato.
Senza dubbio, ero emozionato dalla furtività di spiare senza
essere visto. Senza dubbio, quella che mi appassionava era proprio
la disonestà della mia azione, il fatto che mia moglie
dormisse a pochi metri da me e non sapesse niente di quello che
stavo facendo. Può anche darsi che mi piacesse il freddo
che mi circondava, completamente come la notte stessa, può anche
darsi che io sentissi, addirittura, che la vista di quella donna – che
mi sembrava giovane e priva di ogni cautela o discrezione – in
qualche modo mi teneva avvinto, mi isolava e faceva sì che
il mondo si fermasse e – i suoi due poli uniti dalla mia
visuale – diventasse facilissimo da esprimere. Oggi sono
sicuro che tutto questo era legato alle sconfitte che incombono
sui di me.
Non accadde altro. Anche se, le sere successive, restai sveglio
a guardare la donna, lasciando che mia moglie, vinta dalla
stanchezza, si addormentasse. Ogni sera, per una settimana,
la donna compariva
nel vano della finestra e si spogliava lentamente nella sua
camera (una camera che non provai neppure a immaginare, anche
se sulla
parete alle sue spalle c’era quello che sembrava il disegno
di un cervo che saltava). Lasciati cadere gli indumenti, mostrando
le spalle ossute e i seni piccoli e le gambe magre e la gabbia
toracica e lo stomaco modesto e arrotondato, per qualche minuto
la donna girava qua e là nella luce bronzea della stanza,
da una finestra all’altra, eseguendo quella che mi sembrava
una specie di languida danza rituale o forse una serie di movimenti
teatrali, alzando e piegando e tendendo le braccia, arcuando
il collo, mentre faceva compiere alle mani eleganti gesti cadenzati
che non capivo e non cercavo di capire, preso com’ero dalla
sua nudità e dalla vista occasionale del ciuffo di peli
neri che aveva tra le gambe. Eccitazione, segretezza e illegalità:
tutto qui, non c’era altro.
Lo feci per una settimana, come dicevo, e poi smisi. Semplicemente,
una sera, sempre imbacuccato nelle coperte, andai alla finestra
col binocolo da teatro e scorsi la luce accesa oltre lo spazio
vuoto. Per un po’ non vidi nessuno. E poi, senza un motivo
particolare, mi voltai e tornai a letto con mia moglie, che sotto
le coperte era calda e odorava di brandy e di sudore e di sonno,
e mi addormentai anch’io, senza più pensare a
guardare fuori dalla finestra.
Ma un pomeriggio, una settimana dopo che avevo smesso di spiare
quella donna dalla finestra, lasciai il mio tavolo in un momento
di frustrazione e d’inutile avvilimento, e uscendo nella
luce invernale mi misi a camminare lungo la fila di locali alla
moda dove i vecchi edifici venivano trasformati in negozi di
vestiti e affollate gallerie d’arte. Andai dritto al fiume,
allora intasato da grandi blocchi di ghiaccio grigio. Continuai
a camminare fino al quartiere universitario, fin quasi al posto
dove a quell’ora mia moglie stava lavorando. E poi, mentre
la luce si affievoliva, tornai indietro verso la mia strada,
con la faccia indurita dal freddo, le spalle irrigidite, le mani
senza guanti rosse e gelate. Mentre giravo un angolo per imboccare
una via che mi avrebbe condotto più in fretta al mio isolato,
mi accorsi che inaspettatamente stavo passando proprio davanti
al palazzo che avevo spiato per una settimana. Qualcosa me lo
disse, anche se non mi pareva di esserci mai passato davanti,
né di averlo mai visto alla luce del giorno. E in quel
preciso momento vidi entrare nel portone del palazzo la donna
che avevo guardato per tutte quelle sere, godendo della sua vista
e traendone sicuramente un segreto conforto. Riconobbi il suo
viso, naturalmente: piccolo e tondo e, com’ebbi modo di
vedere, impassibile. E con mia sorpresa, ma senza dispiacere,
vidi che era vecchia. Aveva forse settant’anni o anche
più. Cinese, con un paio di leggeri calzoni neri e un
leggero paltò nero dentro il quale doveva avere lo stesso
freddo che avevo io. Sì, doveva essere mezza assiderata.
Appese, alle braccia, e strette tra le mani, portava delle borse
di plastica piene di roba da mangiare. Quando mi fermai a guardarla,
si voltò indietro e mi scrutò dall’alto dei
gradini con un’espressione che ora posso solo definire
in questo modo: indifferenza mescolata a un vago sentore di pericolo.
Era vecchia, dopo tutto. Avrei potuto provare improvvisamente
l’impulso di nuocerle, e avrei potuto farlo con facilità.
Ma i miei pensieri, naturalmente, non erano questi. Lei tornò a
girarsi verso la porta e parve infilare frettolosamente la chiave
nella serratura. Guardò ancora una volta dalla mia parte,
mentre io sentivo il chiavistello scivolare indietro con un suono
cupo. Non dissi nulla, non la guardai nemmeno. Non volevo che
pensasse che la mia mente conteneva ciò che conteneva,
e neppure ciò che non conteneva. Poi ripresi a camminare,
sentendomi stranamente, ma senz’alcuna meraviglia, tradito,
proseguii semplicemente lungo la strada verso la mia stanza e
il mio portone, e la mia vita entrò, in quel momento,
nel suo primo, lungo ciclo dominato dalla necessità.
(Racconto tratto dalla collana Infiniti
peccati, casa editrice
Feltrinelli , Milano, 2002, traduzione di Vincenzo Mantovani)
Richard
Ford, scrittore statunitense, è nato nel 1944 a Jackson,
Mississippi. Ha pubblicato, tra altri Il giorno dell’Indipendenza,
Incendi e Donne e uomini.
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