Lo "straniero", che fu
il "nemico" nelle società primitive, può scomparire nelle società
moderne? Passeremo in rassegna alcuni momenti della storia occidentale in cui
lo straniero è stato pensato, accolto o respinto, ma in cui, all'orizzonte di
una religione o di una morale, si è anche concepito come possibile il sogno di
una società senza stranieri. Il problema, ancora e sempre utopico, si pone
di nuovo oggi, di fronte a un'integrazione economica e politica su scala
planetaria: riusciremo intimamente, soggettivamente, a vivere con gli altri,
a vivere da altri, senza ostracismi ma
anche senza integrazioni livellanti? Il modificarsi della condizione degli
stranieri che va imponendosi ai giorni nostri invita a riflettere sulle nostre
capacità di accettare nuovi modi di alterità. Nessun "Codice di
nazionalità" risulterà praticabile senza la lenta maturazione di questo
problema in ciascuno, per ciascuno.
Nemico da abbattere nei gruppi
umani più selvaggi, lo straniero diviene, nella sfera delle costruzioni
religiose e morali, un uomo diverso che, purché dia la sua adesione, può
essere assimilato all'alleanza dei "saggi", dei "giusti" o
degli "indigeni". Nello stoicismo, nel giudaismo, nel cristianesimo e
fino all'era dei Lumi, questa accettazione vede variare le sue figure ma, con
tutti i suoi limiti e difetti, rimane un importante baluardo contro la
xenofobia. La violenza del problema che lo straniero oggi pone è probabilmente
legata alle crisi delle costruzioni religiose e morali; essa è dovuta
soprattutto al fatto che l'assorbimento dell'estraneità proposta dalle nostre
società si rivela inaccettabile per l'individuo moderno, geloso della sua
differenza non soltanto nazionale ed etica ma anche essenzialmente soggettiva,
irriducibile. Prodotto della rivoluzione borghese, il nazionalismo è divenuto
il sintomo, prima romantico poi totalitario, dei secoli XIX e XX.
Ora, pur opponendosi alle tendenze universalistiche (religiose o
razionalistiche che siano) e pur tendendo a isolare o addirittura a cacciare lo
straniero, il nazionalismo finisce comunque per sfociare nell'individualismo
particolaristico e intransigente dell'uomo moderno. Ma è forse a partire dalla
sovversione di questo individualismo moderno, dal momento in cui il
cittadino-individuo cessa di considerarsi unito e glorioso,
per scoprire le sue incoerenze e i suoi abissi, le sue "estraneità" insomma, è da questo momento,
dicevo, che il problema si pone di nuovo, anche se riguarda non più la
possibilità di accogliere lo straniero all'interno di un sistema che lo annulla
bensì la coabitazione di quegli stranieri che tutti noi riconosciamo di essere.
Non cercare di fissare, di
cosificare l'estraneità dello straniero. Toccarla soltanto, sfiorarla, senza
conferirle una struttura definitiva. Semplicemente delinearne il movimento
perpetuo attraverso alcuni dei volti disparati che essa ci mostra oggi,
attraverso alcune delle sue figure antiche e cangianti disperse nella storia.
Ma anche alleviarla, questa estraneità, ritornando continuamente su di essa –
sempre più rapidamente, però. Sottrarsi al suo odio e al suo peso, fuggirli non
attraverso il livellamento e l'oblio ma con la ripresa armoniosa delle differenze che essa presuppone e propaga. Toccate e Fughe: ipezzi di Bach fanno risuonare alle mie orecchie quello che vorrei fosse
il senso moderno dell'estraneità riconosciuta e lancinante, perché sollevata,
alleviata, disseminata, inscritta in un gioco nuovo in via di formazione, senza
meta, senza limiti, senza fine. Un'estraneità che, appena sfiorata, già
s'allontana.
[…]
II silenzio dei
poliglotti
Non
parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logiche separate dallamemoria
notturna del corpo, dal sonno agrodolce dell'infanzia. Portare dentro di sé
come una cripta segreta, o come un bambino handicappato – amato e inutile –
quel linguaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai. Vi
perfezionate in un altro strumento, come ci si esprime con l'algebra
o il violino. Potete divenire virtuosi in quel nuovo artificio che vi procura
del resto un nuovo corpo, altrettanto artificiale, sublimato – alcuni dicono
sublime. Avete l'impressione che la nuova lingua sia la vostra resurrezione:
nuova pelle, nuovo sesso. Ma l'illusione si squarcia
quando vi riascoltate, su un nastro registrato per esempio, e la melodia della
vostra voce vi ritorna bizzarra, da nessuna parte, più vicina al borbottio di
un tempo che al codice di oggi. Le vostre goffaggini hanno un certo fascino, vi
dicono, sono persino erotiche, rincarano i seduttori. Nessuno vi fa notare i
vostri errori, per non ferirvi, e poi non sarebbe mai finita, e poi alla fin
fine chi se ne frega. Però vi fanno comunque capire che è seccante: a volte,
l'alzarsi di un sopracciglio o un "Prego?" elegante vi fanno capire
che "non sarete mai dei loro", che "non ne vale la pena",
che "su quel punto almeno non ci
cascano". Quanto a cascarci, neppure voi lo fate. Tuttalpiù siete
credenti, pronti ad apprendere tutto, a tutte le età, per raggiungere – in
quella parola degli altri che immaginate di poter perfettamente assimilare un giorno
– Dio sa quale ideale, al di là della confessione implicita di una delusione
dovuta aquell'origine che non ha mantenuto la sua promessa.
Così,
fra due lingue, il vostro elemento è il silenzio. A forza di dirsi in diversi
modi, tutti altrettanto approssimativi, altrettanto banali, la cosa non si dice
più. Uno scienziato di fama internazionale era solito ironizzare sul suo famoso
poliglottismo dicendo che parlava il russo in quindici lingue. Io, per parte
mia, avevo l'impressione che fosse mutacico e che il suo silenzio stanco e
immobile lo spingesse, talvolta, a cantare o a salmodiare poesie per dire
finalmente qualcosa.
Quando
Hölderlin si iniziava al greco (prima di tornare alle fonti del tedesco),
esprimeva drammaticamente quell'anestesia della persona ghermita da una lingua
straniera: "Un segno, tali noi siamo, e di significato nullo / Morti ad
ogni sofferenza, e quasi abbiamo perso / La nostra lingua in terra
straniera" (Mnemosine).
Inchiodato,
a questo mutismo poliforme, lo straniero può tentare non di dire ma so, le faccende di casa, vela, tennis,
calcio, cucito, equitazione, jogging, dei figli... È sempre una spesa, è un
consumare, e propaga ancor di più il silenzio. Chi vi ascolta? Tuttalpiù vi
sopportano. Del resto, volete realmente parlare?
Perché allora essersi tagliati
fuori dalla fonte materna delle parole? Cosa vi aspettavate da questi nuovi
interlocutori cui vi rivolgete con una lingua artificiale, una protesi? Erano
per voi idealizzati o disprezzati? Ma via! Ilsilenzionon vi è
soltanto imposto, è in voi: rifiuto di dire, sonno striato attaccato a
un'angoscia che vuole restare muta, proprietà privata della vostra discrezione
orgogliosa e mortificata, luce tagliente, ecco cos'è il vostro silenzio. Nulla
da dire, niente, nessuno all'orizzonte. E una completezza impenetrabile:
diamante freddo, tesoro segreto, accuratamente protetto, inafferrabile. Non
dire niente, niente da dire, niente è dicibile. All'inizio, fu una guerra
fredda con quelli del nuovo idioma, desiderato e respingente; poi la nuova
lingua vi ha ricoperto come una marea lenta, di acque morte. Silenzio non della
collera che scaraventa le parole ai bordi dell'idea e della bocca ma silenzio
che svuota la mente e colma il cervello di prostrazione, simile allo sguardo di
donne tristi acciambellato in qualche inesistente eternità.
[…]
Lo strano dentro di noi
L'inquietante estraneità
sarebbe così la via regia (ma nel senso della corte, non del re) attraverso la
quale Freud introduce il rifiuto affascinato dell'altro nel cuore di quel
"noi stessi" sicuro di sé e opaco che appunto non esiste più dopo
Freud e che si rivela essere uno strano paese di frontiere e di alterità
incessantemente costruite e decostruite. Cosa strana, non si parla affatto di stranieri in
Das
Unheimliche.
In verità, è raro che uno
straniero provochi l'angoscia terrificante che suscitano la morte, il sesso
femminile o lo scatenarsi della pulsione
“malefica”. Ma siamo veramente sicuri che i sentimenti politici di
xenofobia non comportino, spesso inconsciamente, quella transe di giubilazione
spaventata che i tedeschi dicono unheimlich, gli Inglesi uncanny e
i Greci molto semplicemente... xenos, "straniero"? Nel
rifiuto affascinato che suscita in noi lo straniero, c'è una parte di
inquietante estraneità nel senso della depersonalizzazione che Freud ha
scoperto e che si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili
dell'altro – l'altro della morte, l'altro della donna, l'altro della pulsione
incontrollabile. Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo o combattiamo
lo straniero, lottiamo contro il
nostro inconscio – questo "improprio" del nostro impossibile "proprio". Delicatamente,
analiticamente, Freudnon parla degli
stranieri: egli ci insegna a scoprire l'estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non
perseguitarla fuori. Al cosmopolitismo stoico, all'integrazione universalista religiosa, succede in Freud il coraggio di
dirci disintegrati, non per integrare gli stranieri e ancor meno per
perseguitarli, bensì per accoglierli in
quella inquietante estraneità che è loro come nostra.
In effetti, questa distrazione o questa discrezione freudiana
nei confronti del "problema degli stranieri" – che appare solo ad
eclissi o, se si preferisce, come sintomo, attraverso il riferimento al termine
greco xenos[1]
– potrebbe essere interpretata come un invito (utopico o modernissimo?) a non
reificare lo straniero, a non fissarlo come
tale, a non fissar noi stessi come tali. Ma ad analizzarlo
analizzandoci. A scoprire la nostra perturbante alterità, giacché è proprio
essa a fare irruzione di fronte a questo "demone", a questa minaccia,
a questa inquietudine che viene generata dall'apparizione proiettiva dell'altro
in seno a ciò che noi persistiamo a mantenere come un "noi" proprio e
solido. Riconoscendo la nostra inquietante estraneità noi non ne
soffriremo e non godremo di un'altra esterna a noi. Lo strano è dentro di me, quindi siamo tutti degli stranieri.
Se io sono straniero, non ci sono
stranieri. Perciò Freud non ne parla neppure. L'etica della psicoanalisi implica una politica: essa approderebbe a un
cosmopolitismo di tipo nuovo che, trasversale ai governi, alle economie e ai
mercati, opererebbe per una umanità la cui solidarietà sarebbe fondata sulla
coscienza del suo inconscio – desiderante, distruttore, pauroso, vuoto,
impossibile. Siamo lontani con ciò da un appello alla fraternità di cui è già
stato detto quanto sia debitrice all'autorità paterna e divina – "Perché
ci siano dei fratelli, ci vuole un padre" – non mancò di dire Veuillot
apostrofando gli umanisti. Dall'inconscio erotico e mortifero, l'inquietante
estraneità – proiezione e insieme elaborazione primaria della pulsione di morte
– che annuncia i lavori del "secondo" Freud, quello di Al di là del
principio di piacere, situa
dentro di noi la differenza nella sua forma più distruttiva e la dà
come condizione ultima del nostro essere con glialtri.
Praticamente...
La nazionalità deve acquisirsi
automaticamente oppure la si deve scegliere con un atto responsabile e
deliberato? Lo ius soli basta a
cancellare lo ius sanguinis (quando si tratta di figli di
immigrati nati sul suolo francese) oppure occorre in più una manifestazione di
desiderio da parte degli interessati? Gli stranieri possono ottenere i diritti
politici? Dopo il diritto di aderire alle organizzazioni sindacali e
professionali, deve spettare loro anche lo stesso diritto di voto in seno alle
collettività locali e, infine, sul piano nazionale?
I problemi si accumulano; e la
Commissione dei saggi che in Francia ha esaminato il "Codice della
nazionalità" ha formulato proposte ragionevoli. Avendo constatato che
"la Francia conta, in termini relativi e assoluti, la popolazione
straniera più numerosa della sua storia moderna" e che "nessun paese
ha interesse a lasciare che si sviluppino sul suo territorio minoranze
straniere troppo forti che verrebbero singolarizzate dalla rivendicazione della
loro differenza o stigmatizzate dalla loro esclusione dalla vita sociale e
nazionale", la Commissione della nazionalità, presieduta da Marceau Long,
raccomanda "l'acquisizione della nazionalità francese per gli stranieri
stabilitisi durevolmente in Francia" e il perfezionamento delle
"modalità di acquisizione, che implica una scelta cosciente, favorevole
all'integrazione dell'individuo". La Commissione presenta poi
"l'integrazione come una necessità".
Queste proposte verranno con ogni evidenza discusse, contestate, adottate
almeno in parte e avranno una loro evoluzione.
Nel caleidoscopio che la Francia
sta divenendo – un caleidoscopio innanzitutto del Mediterraneo, e
progressivamente del Terzo mondo – le differenze fra autoctoni e immigrati non saranno
più così nette come un tempo. Il potere di omogeneizzazione della civiltà
francese, che ha saputo ricevere e unificare per secoli influenze e etnie
diverse, ha già fatto le sue prove classiche. Ora, la Francia sta oggi
accogliendo dei nuovi venuti che non
intendono rinunciare alle loro particolarità. La situazione è completamente
diversa da quella che diede origine agli Stati Uniti d’America, i quali
proponevano una nuova fede religiosa ed economica a sradicati messi sullo
stesso piano. In Francia, in questa fine del XX secolo,
ognuno è destinato a restare il medesimo e l'altro: senza dimenticare la proprio cultura d'origine,
ma relativizzandola al punto di farla non soltanto coesistere ma anche
alternare con quella degli altri. Una nuova omogeneità è poco probabile, e
forse poco auspicabile. Siamo invitati, dalla forza dell'economia, dei media, della storia, a coabitare in un
solo paese, la Francia, anch'essa in via di integrazione nell'Europa. È già
così difficile – ma anche vantaggioso – coesistere in quel nuovo paese
multinazionale (e non sovra-nazionale) che è l'Europa, un paese che pure si
compone di nazioni dalle culture affini, dalle religioni simili, dalle economie
interdipendenti da secoli! Possiamo quindi misurare quali problemi ponga, in seno
a un medesimo insieme politico (a sua volta già in via di integrazione in altri
insiemi), la coabitazione di popolazioni le cui considerevoli differenze,
etniche, religiose, economiche, si scontrano con la tradizione e le mentalità
in vigore tra coloro che li accolgono. Ci stiamo avviando verso una
nazione-puzzle fatta di diverse particolarità, la cui dominante numerica rimane
per il momento francese – ma sino a quando?
Per favorire la migliore armonia
di una simile polivalenza si impone un'evoluzione delle mentalità. Forse si
tratta in definitiva di estendere alla nozione di straniero il diritto al rispetto della nostra stessa estraneità
e, insomma, del "privato", che garantisce la libertà delle
democrazie? L'accesso degli stranieri al diritto politico si farà sull'onda di
questa evoluzione e, necessariamente, con garanzie giuridiche adeguate: si può
pensare, ad esempio, a uno statuto di "doppia nazionalità" che
darebbe agli "stranieri" che la desiderano certi diritti, ma anche i
doveri politici propri degli autoctoni, con una clausola di reciprocità che dia
a questi stessi autoctoni pari diritti e doveri nei paesi d'origine degli
stranieri in questione. Questa regola, di facile applicazione per la CEE, potrebbe
essere modulata e adattata ad altri paesi.
Tuttavia, il problema
fondamentale che frena questi accomodamenti che giuristi e politici si
accingono a predisporre sotto la spinta variabile dei bisogni economici
nazionali, è di un ordine più
psicologico, anzi metafisico. In assenza di un nuovo legame comunitario –
religione salvatrice che integrerebbe la massa degli erranti e dei diversi in
un nuovo consenso, diverso da quello del "più danaro e beni per
tutti" – siamo condotti, per la prima volta nella storia, a vivere con i
diversi scommettendo sui nostri codici morali personali, senza che alcun
insieme capace di inglobare le nostre particolarità possa trascenderle. È sul
punto di sorgere una comunità paradossale, fatta di stranieri che si accettano
nella misura in cui si riconoscono stranieri essi stessi. La società
multinazionale sarebbe così il risultato di un individualismo estremo ma
consapevole dei suoi disagi e dei suoi limiti, un individualismo che conosce
soltanto irriducibili pronti ad aiutarsi nella loro debolezza, quella debolezza
che ha come altro nome la nostra estraneità radicale
Cfr. Être
français aujourd’hui et demain , t.II, 10/18, Paris 1988, pp.235-6.