Zadie Smith e von Rezzori intimiditi dal genio Soltanto Saul Bellow in disaccordo su «Lolita»
Risorgo da una singolare esperienza. Ero immerso nella prefazione di Zadie Smith a Uno straniero nella terra di Lolita, libretto in cui Gregor von Rezzori racconta un viaggio da lui intrapreso negli Anni 90 sulle tracce di Humbert e Lolita (proprio loro, la coppia del secolo, gli struggenti eroi nabokoviani!). Quando a un certo punto la testa ha preso a girarmi. Per un secondo ho avuto l'illusione di essere sull'orlo di un eccitante precipizio, e a un passo dalla follia.
È l'effetto Nabokov, mi sono detto. Ogni volta che hai a che fare con lui (anche per interposta persona), la mente ti gioca brutti scherzi. Per una virtuosa abitudine di lettura, compulsavo la prefazione subito dopo aver assaporato il reportage di Rezzori. La ragione per cui ho sussultato — sentendo la Smith rivolgersi al proprio testo in questi termini: «Non c'è dubbio che (a Nabokov) avrebbe fatto orrore» — dipende dal fatto che, solo un quarto d'ora prima, mi ero imbattuto in un analogo scrupolo di Rezzori: «Riesco a immaginare bene il risolino sardonico di Nabokov all'idea che qualcuno volesse visitare i luoghi reali di una storia di invenzione». Insomma, sia l'una sia l'altro sembravano eccessivamente intimiditi dal giudizio che Nabokov avrebbe potuto formulare su ciò che loro si accingevano a scrivere su di lui. Allora — mi dico — non sono il solo a sentirsi schiacciato dal «risolino sardonico» del vecchio Vlad? Non sono il solo che quando scrive di Nabokov ha paura di Nabokov (sebbene da tempo non sia più tra noi)? Allora si tratta di una sensazione condivisa da scrittori più esperti e affermati di me? Quando, leggendo, ti imbatti in qualcosa che ti suscita un caldo afflato di empatia, capisci che il motivo per cui non smetti di leggere qualsiasi cosa ti capiti a tiro è perché non vedi l'ora che un sentimento che ti si muoveva dentro — errabondo e ineffabile — prenda corpo in una forma (a te finora sconosciuta) che lo cristallizza dandole senso. L'esperienza è quella di chi trova qualcosa che non sapeva di conoscere.
Il «sentimento ritrovato» stavolta — con l'esemplare contributo offerto dalla coppia meravigliosamente mal assortita Smith-Rezzori — è il disagio. Quando scrivi di Nabokov ti senti a disagio. Come il fan che molesta la popstar preferita per un autografo e viene da questi scacciato con malagrazia. «La cosa che più mi piace di me stesso è che non mi sono mai lasciato intimorire dalla scemenza e dalla virulenza di un critico» dice Nabokov con orgoglio, ignorando forse che se c'è un intimidatore, beh quello è lui! Non credo esista altro scrittore che eserciti sul lettore un così vivo spavento (lo stesso Rezzori dice che, potendo incontrare il suo eroe, nel ritiro svizzero, scelse di non farlo). È come se Nabokov provasse un gusto sadico a farsi contemplare da dietro il vetro antiproiettile di una villa sontuosa mentre fuori imperversa il temporale. Condannando l'ammiratore a un'eterna sfibrante anticamera. E non credo che l'inospitalità sia di per sé un tratto del genio. Prendi Kafka. Pur essendo l'architetto di un'opera angosciosamente inospitale, lui, come essere umano, è un pezzo di pane. Esserlo è parte del suo Dna, dell'educazione giudaica ricevuta in famiglia. Leggi lettere, diari, gli aneddoti che gli amici raccontano di lui e subito ti viene voglia di dargli del tu. È vero, un'accoglienza che ha favorito la proliferazione di migliaia di quelli che Milan Kundera definisce con sprezzo i «kafkologi». Ma pur sempre un'accoglienza. Nabokov no. Il lettore che gli interessa è quello «che vede nello specchio ogni mattina mentre si fa la barba».
Ecco il genere di facezie con cui ti dice di sloggiare. Per esempio, il Narratore de La vera vita di Sebastian Knight, presunto fratello del protagonista (tutto in Nabokov è presunto), non fa che lamentarsi di un certo Mr Goodman, emblema dell'accademico ficcanaso che ha dedicato una biografia pettegola a Sebastian, provocando nel fratello un sentimento di sdegnosa riprovazione. È evidente che sia in Rezzori, sia in Zadie Smith, per non dire di me, agisca la sindrome-Goodman. È il terrore di apparire agli occhi dello spettro di Nabokov gli ennesimi Mr Goodman che ci fa mettere le mani avanti. Rezzori, da uomo d'altri tempi qual è, utilizzando la lusinga: «Lolita è l'unica storia d'amore davvero convincente del nostro secolo». La Smith, assai più spigolosa, cercando di trovare una relazione gemellare tra Rezzori e Nabokov, e di mostrare le qualità del primo rispetto ai difetti del secondo, nei confronti del quale tuttavia non riesce a nascondere una sconfinata ammirazione («Non è stato un piacere per nessuno scrittore spartire il Novecento con il genio di Nabokov» commenta a un certo punto con tristezza). Ed io, nel mio piccolo, scrivendo questo verboso articolo.
La verità è che più il tempo passa più è difficile non dirsi nabokoviani. In fondo quando Nabokov scriveva, coltivando un patrizio isolazionismo, nel mondo andavano di moda i romanzi di Sartre, di Hemingway, di Robbe-Grillet, che a guardarli oggi, in confronto a quelli del Nostro, sembrano ottimi elaborati di liceali brillanti. L'influenza nabokoviana sugli scrittori delle successive generazioni è di una portata che allora non era preventivabile. Il primo nome che mi viene in mente è fin troppo facile. Thomas Pynchon: scrittore più importante per la storia della letteratura che per i libri che ha scritto. Nel suo caso, quando parlo di influenza nabokoviana non alludo all'immagine suggestiva dell'imberbe studente Thomas che, negli Anni 50, segue i corsi del terribile Professor Nabokov alla Cornell. Ma di qualcosa di molto più essenziale: nessuno potrà negare che il mondo siderale e improbabile dei romanzi pynchoniani paghi pegno al Nabokov di Ada o di Fuoco pallido, tanto per fare un paio di esempi. Il dato sorprendente è che la produzione nabokoviana è talmente estesa ed eccelsa che a lui devono qualcosa sia i cosiddetti scrittori postmoderni, che da lui mediano il gusto per la parodia, la citazione, la mescolanza, gli apocrifi, il cocktail di kitsch e sublime; sia quelli di ispirazione modernista all'affannosa ricerca del dettaglio rivelatore. Sentite qui cosa scrive ne Il dono: «La costante sensazione che i nostri giorni terreni siano solo argent de poche, monetine che tintinnano nel buio delle tasche, e che da qualche parte esista il vero capitale da cui finché siamo vivi dobbiamo saper riscuotere i dividendi in forma di sogni, lacrime di felicità, montagne lontane». (Eppoi vedete: appena lo citi subito la prosa del pezzo cambia passo e tu ti senti un boccheggiante Salieri).
Insomma, ti dici, ecco un tipo che non cerca epigoni. Lo scrittore meno demagogo e più scostante del ventesimo secolo: «Mi vanto di essere una persona priva di interesse per il pubblico. Non ho mai fatto parte di circoli e associazioni. Non c'è credo o scuola che abbia avuto su di me il ben che minimo influsso». Che sia a causa di questo esibito disprezzo per il prossimo che la confraternita dei suoi detrattori non è meno nutrita di quella degli ammiratori? Partendo dai piani alti, Saul Bellow, una volta, riferendosi a Lolita, disse: «Mettiamo pure che non sia una cosa troppo orribile che uomini di mezza età copulino con le bambine, ma bisogna proprio che ne facciano filosofia? Io sarei capace di scrivere un libro migliore dal punto di vista di Lolita». Di recente il suo allievo più geniale, Philip Roth, ha espresso analoghe perplessità, affidandole al suo famoso alter ego Nathan Zuckerman che, a un certo punto, definisce Lolita un libro pieno di «stupid jokes». Il che mi accende nella memoria un ricordo personale: un giorno in cui, nella grande biblioteca della casa di campagna di Enzo Siciliano, scovai la corrispondenza epistolare tra Nabokov e Wilson. Chiesi a Enzo se me lo prestava e lui: «Serviti pure, ma vacci piano con Nabokov. Certo, si tratta di uno scrittore enorme, ma per i miei gusti troppe farfalle e troppi scacchi...».
Anni dopo, in un contesto non meno suggestivo (i bordi di una piscina di un albergo caprese), lo scrittore Daniel Mendelsohn mi esprime su Nabokov un analogo sospetto: «Ma dopo un po' non ne hai abbastanza dei suoi trucchi?». Per la risposta a questa domanda mi affido idealmente a Martin Amis che una volta scrisse che il problema con la prosa di Nabokov è che quando la assaggi poi non ne hai mai abbastanza, ne vuoi ancora e ancora e ancora. E Dio solo sa se lo capisco. E a giudicare dai loro libri, lo capiscono anche scrittori come Eugenides, Foster Wallace, Chabon, la stessa Zadie Smith e volendo, per patriottismo, fare un nome italiano, direi Aldo Busi (o almeno la sua metà più estrosa). D'altro canto mi rendo conto che l'incedere estatico ed esibizionista della prosa nabokoviana possa contrariare i seguaci della scorrevolezza che affollano le librerie di tutto il mondo. O possa indurre qualcun altro a formulare l'accusa infamante per un narratore di «anacronismo». Un giudizio che non sta in piedi. Nabokov si può permettere parole antiche e preziose proprio in virtù di uno spirito pazzamente contemporaneo. Nabokov ha insegnato ai suoi successori — proprio come Flaubert con l'esempio senza alcun intento didascalico — un sacco di cose sulla scrittura. E non parlo di espedienti, per altro fondamentali, tipo l'uso geniale delle parentesi (a proposito di parentesi ho appena finito il nuovo magnifico libro di Joyce Carol Oates la quale utilizza le parentesi in modo mirabilmente nabokoviano. Non solo: ha un modo tutto nabokoviano di chiamare in causa ogni tanto il lettore; per non dire della destrezza con cui salta dalla prima alla terza persona con uno stratagemma ipernabokoviano...). Ma di un atteggiamento allo stesso tempo leggero e integralista nei confronti della letteratura. Che si rispecchia nel legame complicato tra quest'ultima e la nostra vita.
Lui ti insegna che, per quanto grande sia la tua tragedia privata (così chiama la propria, che era enorme) non c'è alcuna necessità di non metterla al servizio di romanzi che diano al lettore piacere, bellezza, integrità, amore per il particolare e tensione verso l'assoluto. Si sa, le tragedie più commoventi sono quelle implicite. Così come gli occhi più espressivi sono quelli asciutti. È con questo spirito che Nabokov ha ridato lustro a un sentimento come la nostalgia —- svalutato dall'uso smodato che ne hanno fatto i lirici — restituendole la favolistica originaria nitidezza di rosa e di azzurro che ti spezza il cuore. Date un'occhiata a Il dono o a Parla, memoria e capirete cosa intendo. Zadie Smith riepiloga la lezione nabokoviana in una troika composta da «bello stile», «elusione della volgarità», «rifiuto delle grandi idee». Ma non sapete che sforzo attenersi a questi principi. E quanto sia importante tenerne conto al solo scopo di trasgredirli qua e là, prendendosi una vacanza da tanta rigidezza aristocratica. Per esempio, Nabokov è ostile all'uso del turpiloquio. Rabbrividisco al pensiero di quanto sarà complicato, ora che devo scrivere un romanzo di successo, evitare anche una sola parolaccia. Accipicchia!
(Tratto da La Repubblica on-line del 05 luglio 2009.)
Alessandro Piperno
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