(…) Qui ci avevo giocato anch’io con Angiolina e Giulia, e fatto l’erba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte, perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani. Di qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto, sulle colline più lontane oltre Canelli, c’erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie - sempre gli stessi – che somigliavano a quello del Cavaliere. Da ragazzo fin lassù non c’ero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassù, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sperdute. Che cosa poteva esserci? Lassù era incolto e bruciato dal sole.
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Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto.
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Noi li facevamo sempre. La notte di San Giovanni tutta la collina era accesa.
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Poca roba, - disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.
Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando.
Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, - dissi, - i vecchi dicevano che fa piovere… Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno… Dappertutto accendono il falò.
Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.
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Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai coltivi? – dissi, - L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi…
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Non si può mica bruciare la vigna, - disse lui ridendo.
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Sì, ma invece il letame lo metti nel buono…
Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su, diceva, come avrebbe detto suo padre: - Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva. Non mi lasciava mai capire se con me si fermava per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e così non vedrà la città. Se almeno gli mettessi la voglia.
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Questa sirena dei bastimenti, - lui mi disse, quel giorno che ne parlavo, - è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra?
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Si sentiva?
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Altroché. Dicono ch’era più forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani…
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Ma se ti portavano ancora in braccio…
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Giuro che mi ricordo.
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Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, - mi disse. – Fai male. Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato…
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Che almeno sappia quel che perde.
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Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio, che cosa gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la domenica, sugli scalini della chiesa c’è sempre uno che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per i ricchi, col nome d’ottone…
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Più lo svegli, - dissi, più capisce le cose.
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Ma è inutile mandarlo in America. L’America è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.
Io dissi che Cinto avrebbe dovuto imparare un mestiere e per impararlo doveva uscire dalle grinfie del padre.
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Sarebbe meglio fosse nato bastardo, - dissi. – Doversene andare a cavarsela. Finché non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre.
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Ce n’è delle cose da cambiare, - disse Nuto.
Allora gli dissi che Cinto era sveglio e che per lui ci sarebbe voluta una cascina come la Mora era stata per noi.
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La Mora era come il mondo, - dissi. – Era un’America, un porto di mare. Chi andava chi veniva, si lavorava e si parlava… Adesso Cinto è un bambino, ma poi cresce. Ci saranno le ragazze… Vuoi mettere quel che vuol dire conoscere delle donne sveglie? Delle ragazze come Irene e Silvia?..
Nuto non disse niente. M’ero già accorto che della Mora non parlava volentieri. Con tanto che mi aveva raccontato degli anni di musicante, il discorso più vecchio, di quando eravamo ragazzi, lo lasciava cadere. O magari lo cambiava a suo modo, attaccando a discutere. Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa.
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Fanno bene sicuro, saltò. – Svegliano la terra.
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Ma, Nuto, - dissi, - non ci crede neanche Cinto.
Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace.
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Questa è nuova, - dissi. – Allora credi anche nella luna?
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La luna, - disse Nuto, - bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.
Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le più grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nient’altro ma la terra la conosceva.
Discutemmo come cani arrabbiati un bel po’, ma lo chiamarono in segheria e io discesi sullo stradone ridendo. Ebbi una mezza tentazione di passare dalla Mora, ma poi faceva caldo. Guardando verso Canelli (era una giornata colorita, serena), prendevo in un’occhiata sola la piana del Belbo, Gaminella di fronte, il Salto di fianco, e la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina. Tante vigne, tante rive, tante coste bruciate, quasi bianche, mi misero voglia di essere ancora in quella vigna della Mora, sotto la vendemmia, e veder arrivare le figlie del sor Matteo col cestino. La Mora era dietro quegli alberi verso Canelli, sotto la costa del Nido.
Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello – ogni vigna la sua macchia – e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. Le donne, pensai, hanno addosso qualcosa di simile.
Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova – ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sì, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, non m’ero accorto, che non sapevo più di saperla.
(Brano tratto da – La luna e i falò, Giulio Einaudi editore, Torino, 1975.)
Cesare Pavese
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