La memoria, a volte, può essere crudele, almeno la mia. Ci sono avvenimenti nella mia vita, esperienze vissute, luoghi visitati, persone conosciute, di cui non mi ricordo assolutamente nulla. Un fatto che può essere causa di imbarazzo, quando mi chiedono: "Ti ricordi quando abbiamo fatto questo o quello?" oppure "quando siamo stati qua o là?" oppure "quando abbiamo conosciuto tale e talaltro?" Cosa posso rispondere? "Beh... insomma..."
Il mio primo giorno di scuola, invece, lo ricordo come se fosse stato ieri. Non perché fu un giorno straziante, di pianto e stridore di denti: diversamente ai miei due fratelli maggiori già da piccolo ero piuttosto indipendente e a cinque anni andavo volentieri a scuola. Fu memorabile, invece, perché conobbi quel giorno i miei due migliori amici dell'infanzia, Kingston Chine Gordon Quan, amici che mi avrebbero seguito nei sette anni della scuola elementare australiana. Quella mattina eravamo seduti insieme sulla panchina rossa a misura di bimbo nell'angolo dell'aula e da allora in poi siamo stati quasi sempre insieme.
Frequentavamo una scuola non molto lontano dal centro di Melbourne in una zona semi-industriale nella parte occidentale della città. Come in molte grandi città anche a Melbourne ci sono delle divisioni più o meno nette: all'ovest e al nord ci sono le zone industriali e gli affitti più bassi, mentre all'est e soprattutto al sud del fiume Yarra sì trovano le zone residenziali più prestigiose. Nella nostra zona, tuttavia. ci abitavamo in pochi, così che il numero di allievi presso la nostra scuola elementare non sfiorava neanche le settanta unità, divise in tre classi. L'incidenza di immigrati o figli di immigrati girava intorno al cinquanta percento. Molti, come Kingston e Gordon, erano cinesi, ma non mancavano altre nazionalità: Hayder dal Bangladesh, Irene e Agata dalla Grecia, Maurizio e Valentino — beh, non ci sono premi per indovinare le loro origini.
Io e i miei amici cinesi eravamo bravi a scuola, tanto che dopo sette anni, quando ne avevamo dodici, ci consigliarono di iscriverci al liceo non molto distante dalla scuola elementare. Kingston e Gordon seguirono il consiglio, io invece seguii i miei fratelli all'istituto tecnico situato nel sobborgo di Brunswick al nord della città; cosi ci perdemmo di vista. Invece c'erano nuovi amici: Goran dalla allora Yugoslavia. José dalla Spagna, Edgar dal Cile, Aslan dalla Turchia. Brunswick fu (e lo è tuttora) così colpito dalle ondate di immigrazione che il tasso di allievi immigrati alla Brunswick Technical School era oltre l'ottanta percento. In un certo senso, fu grazie a questo ambiente che mi avvicinai alla lingua italiana. Era la fine degli anni settanta e dopo l'assimilazione degli anni cinquanta e l'integrazione degli anni sessanta, l'Australia cominciava ad abbracciare la politica del multiculturalismo. Mentre nelle scuole private e nei licei si imparavano ancora il greco antico, il latino, il francese e il tedesco, nella nostra scuola e in molte altre simili alla nostra si insegnavano le "community languages". Alla tenera età di dodici anni non avevo una gran voglia dì studiare lingue straniere, e data la scelta fra l'arabo, il turco, il greco e l'italiano, scelsi la lingua che mi sembrava più facile ("studiai" l'italiano per tre anni a Brunswick e non imparai un gran che – la mia passione per l'italiano mi venne molto più tardi).
Crescendo in questo ambiente non ero consapevole di divisioni lungo linee etniche. Lo spazio era di tutti, non diviso ma condiviso. Giocavamo tutti i giochi tradizionali australiani cricket d'estate e il "nostro" football secondo le regole australiane d'inverno. Le divisioni c'erano di certo, ma erano piuttosto in base dell'età – la settima classe che si batteva contro l'ottava, per esempio. Certo, in quanto ragazzi conoscevamo tutto un ampio vocabolario di parolacce ed espressioni spregevoli per nominare gli immigrati da tutte le parti del mondo e le usavamo, ma quasi sempre con ironia o per scherzo, così che perdevano le loro spine e potevano essere portate senza danni, e addirittura a volte anche con orgoglio.
Continuavo ad essere bravo a scuola, e mentre molti dei miei compagni imparavano un mestiere, io studiavo le scienze, tanto che dopo cinque anni i miei professori mi consigliarono di andare all'università. Però dovevo fare la maturità presso un altro istituto e questa volta non seguii i miei fratelli che erano andati al Footscray Institute of Technology nell'ovest della città: frequentai invece lo Swinbure College of TAFE nel sobborgo di Hawthorn nella parte orientale della città. E fu come atterrare su un altro pianeta.
Come molte grandi città ci sono zone di Melbourne dove si concentrano una nazionalità più che un'altra. Spesso i segni sono visibili dalla presenza di determinati negozi o ristoranti, come per esempio in Johnston Street, Richmond, dove due su ogni tre negozi si espongono scritte vietnamite, oppure Lygon Street, Carlton, con i suoi ristoranti italiani e gelaterie, Lonsdale Street nel centro città, nota come quartiere greco (Melbourne è in effetti la terza città greca per abitanti nel mondo dopo Atene e Salonicco), Sydney Road, Brunswick, con i caffè e ristoranti turchi, e via dicendo. Altre volte i segni non sono così evidenti ma pur presentì, come il Club Abruzzese, oppure la chiesa ortodossa ucraina. Ma altre divisioni sono meno visibili, anche se altrettanto percepibili, come quelle che trovai allo Swinburne College. Gente cresciuta in un ambiente ristretto, menti chiuse con opinioni stereotipate del l'altro e del diverso: questo trovai studiando nell'est della città.
Li erano pochi i figli dì immigrati, e di certo non di recente arrivo. La stragrande maggioranza degli studenti della mia classe erano d origine anglosassone, nati e cresciuti in Australia da genitori nati e cresciuti in Australia. In apparenza io non ero molto diverso da loro, ero di origine anglosassone con il padre nato e cresciuto in Australia, ma portavo con me un bagaglio culturale talmente diverso dal loro che spesso facevamo molta fatica ad intenderci. Mentre io vedevo l'incontro con "l'altro" come un momento di scambio che offriva la possibilità dì un arricchimento a vicenda, molti di loro vedevano l'altro solo in termini neutrali o negativi, senza niente di utile da contribuire. Quel vasto vocabolario di parolacce ed espressioni spregevoli lo conoscevano pure loro, ma non le pronunciavano con ironia o per scherzo. Facevo molta fatica nel fare amicizia quell'anno.
Sono molteplici le vie dell'immigrazione. A volte le persecuzioni spingono le persone a trovare un posto più sicuro: così fu per i genitori intellettuali di Kingston e Gordon, ed anche per Paz, un'amica del periodo universitario che fuggi dal Cile assieme a sua figlia quando suo marito divenne uno dei desaparecìdos. Spesso si parte dalle zone arretrate in cerca di un migliore tenore di vita, come fu il caso di Asian. E troppo spesso invece è la guerra a giocare un ruolo fondamentale, come successe negli anni sessanta e settanta quando ondate di vietnamiti giunsero in Australia. Ben due guerre spinsero mia madre e la sua famiglia ad emigrare dalla Scozia all'inizio degli anni cinquanta, ma lei non arrivò con la valigia di cartone; viaggiò in prima classe.
Mio nonno materno, Duncan McConachie, figlio minore di dodici fratelli, fu un banchiere nel villaggio di Dufftown nella Scozia settentrionale. Aveva raggiunto un livello di responsabilità tanto che spesso doveva recarsi di sera alle fattorie nei pressi del villaggio per sbrigare gli affari della banca. In verità concludeva gli affari piuttosto presto, ma le sue visite si prolungavano a tarda notte perché era affascinato dall'agricoltura e faceva domande senza fine agli agricoltori – i colloqui furono di sicuro facilitati da una goccia o due di whiskey di puro malto famosissimo in quella zona.
La smobilitazione delle truppe dopo la seconda guerra mondiale faceva si che i soldati rimpatriati che precedentemente avevano lavorato in banca riguadagnassero di nuovo i loro posti di lavoro. Per far fronte all'eccedenza di manodopera, la banca offriva generose liquidazioni agli impiegati più anziani. Con quattro fratelli già nel Canada e tre nell'Australia, l'idea di emigrare cominciò a frullare nella testa di mio nonno. Fu lo scoppio della guerra in Korea l'avvenimento decisivo. L'invio di migliaia di soldati al rigido clima invernale della Korea fece impennare il prezzo della lana utilizzata nella fabbricazione delle divise militari. Accettando la liquidazione e l'aiuto di un fratello già presente in Australia, Duncan comprò i biglietti per la nave c partì con la famiglia per allevare pecore in Australia.
Fu un colpo assai duro per mia nonna, Janet. Era stata così felice con la sua vita: rispettata nella comunità, un marito di modesto successo, una bella casa con nuovi mobili acquistati di recente. Quando venne il momento di salire sulla nave, ebbe una crisi nervosa: fu portata a bordo con pianti isterici. Da quel momento serbò rancore a suo marito, ed il suo era un serbatoio senza fondo. La "nuova" casa-fattoria acquistata da Duncan era in effetti vecchia, circondata da fango d'inverno e intestata da ogni genere di bestioline striscianti e volanti in tutte le stagioni. Anche se si fosse trovata in una zona non così sperduta, secondo gli standard australiani, i vicini più vicini distavano due chilometri. Janet fisicamente abitava in quella casa, ma la sua mente era altrove, nelle "highlands" della sua "bonnie Scotland". E nonostante avesse vissuto in Australia da oltre venti anni, non mi raccontò mai delle sue esperienze in quel paese, solo delle avventure quando era una "wee lassie" nella sua patria.
Fu di nuovo una guerra che alla fine spinse me sulla via dell'immigrazione, ma non ci sfuggivo; io, invece ci andavo contro. Nonostante tutto quello che il mio paese aveva da offrirmi, io sentivo la mancanza di un certo nonsoché. Mi ero laureato in lingua e cultura italiana (ecco che mi sopraggiunse la passione per questa lingua) ma all'inizio degli anni novanta l'economia del paese era stagnante e i posti di lavoro scarseggiavano. Lavoravo nei ristoranti e seguivo le faccende nell'ex-Jugoslavia, prima con orrore e poi con sdegno per la mancanza di fegato da parte delle istituzioni internazionali. Verso la fine del novantatré quando lessi un annuncio per un posto di volontariato in un campo profughi nel sud della Slovenia, partii al volo. Dovevo restarci sei mesi, ma i mesi divennero presto diciotto.
Quando arrivai al campo, in una ex-caserma della JNA (Armata Nazionale Jugoslava), i profughi erano in quattrocento, pigiati come sardine in uno spazio che poteva, forse e scomodamente, accomodare un centinaio di persone. Non riuscivo neanche ad immaginare come fosse stata la situazione sei mesi prima, quando il numero s'aggirava intorno a mille! Insegnavo l'inglese nella scuola riconosciuta dal governo bosniaco all'interno del campo e organizzavo altre attività, spesso assieme al volontario svizzero, un insegnante di tedesco. Presto strinsi rapporti con il gruppo delle Acli di Milano, con il quale il campo fu gemellato, diventai il loro punto di riferimento quando venivano al campo a organizzare dei progetti a medio termine. In quel campo, io venni ad aiutare, ma in un certo senso ricevevo più di quanto davo: non avevo mai fame, gli strappi nei miei vestiti venivano subito riparati, le soluzioni ai piccoli problemi quotidiani furono subito trovate. Fisicamente potevo contribuire ben poco, ma forse fu semplicemente la mia presenza il punto critico, il desiderio di condividere lo spazio stretto e le circostanze difficili. La gente sì prendeva cura di me e mi sentivo completamente accettato. Tanto accettato che mi diedero un soprannome, il tipico nome dell'archetipo bosniaco, protagonista dì una serie infìnita di barzellette: Mujo. Mujo è lo zimbello dell'umorismo jugoslavo, il bersaglio di barzellette diffuse dalla Slovenia alla Serbia, per cui essere chiamato Mujo poteva essere motivo di offesa. Ma io imparai la grande capacità dei bosniaci di ridere dì se stessi, anche nei momenti più difficili, e portavo quel nome con orgoglio.
In quel campo mi trovai in un laboratorio dell'accoglienza, un microcosmo che impartiva lezioni su come gestire male una situazione con potenziali benefici per tutti. Fin dall'inizio fu chiaro che la popolazione dì profughi veniva percepita come un fardello di cui liberarsi al più presto possibile. I contatti tra i profughi e la popolazione locale furono pochi e mai alla pari. L'atteggiamento ufficiale sembrava quello di fare il meno possibile per migliorare le condizioni del campo, in modo da indurre gli abitanti a continuare il loro cammino autonomamente. Ma questo si rivelò un atteggiamento errato a lungo termine: certo se ne andarono in molti, ma erano quelli più intraprendenti, più svegli, quelli che avevano qualcosa da offrire alla comunità locale; coloro che rimanevano, invece, non avevano niente da offrire, diventando un vero e proprio fardello permanente. C'era anche chi sfruttava la situazione per un guadagno personale. Siccome ai profughi il lavoro era vietato, essi rappresentavano una fonte di manodopera accondiscendente e a bassissimo costo. Anche la piccola "mafia" era molto attiva. Un container donato dalla croce rossa svizzera e destinato ad uso cucina affinché i profughi potessero cucinare per loro stessi, non fu mai utilizzato per tale scopo. Si diceva che il consiglio comunale non approvasse l'utilizzo dello spazio come cucina in quanto non rispettava gli standard di igiene in vigore. Non fu una sorpresa scoprire che dietro l'ostruzionismo vi era il proprietario dell'albergo vicino che deteneva un contratto piuttosto lucrativo concesso dall'Acnur per il rifornimento dell'alimentazione in tutto il campo. Fu resa più lucrativa, nel completo assenso di un qualche controllo istituzionale, la destinazione dei fondi e la sostituzione del cibo fresco con merce scadente, scaduta o addirittura avariata. Così lo spazio del profugo veniva ristretto e delimitato sempre di più, finché quello che rimaneva non era più abitabile.
Infine approdai a Trieste. Mi iscrissi alla scuola di lingue alla metà degli anni novanta. Era in parte come un ritorno alla mia infanzia, trovandomi in un ambiente popolato da stranieri ed immigrati provenienti da tutte le parti. Ma notavo bene le divisioni che avevo conosciuto nei sobborghi ad est dì Melbourne. O forse meglio dire, le sentivo, come quella volta mentre girando in macchina con un amico, sentimmo gridare "Sciavi dì merda!" solo perché la nostra macchina era targata Pola.
Spesso la gente mi chiedeva perché un australiano viene a stabilirsi a Trieste quando così tanti triestini se ne sono andati a vivere laggiù. Mi chiedevano anche com'è la vita laggiù, e non di rado mi trovavo senza risposte adeguate. Dopo la mia partenza si sono attenuati i legami con il mio paese. Ma tutto cambiò radicalmente con la nascita dei miei figli, cinque e tre anni fa. Nati a Lipsia, essi hanno la doppia cittadinanza tedesco-australiana. Con la mamma parlano in russo e con il papà in inglese e sono perfettamente inseriti nella società triestina. Senz'altro sono molto privilegiati, come mi considero pure io, essendo cresciuto in un ambiente cosmopolita. Ma sento anche l'onere di impartire le mie esperienze, di diffondere quello che è peculiare della cultura in cui sono cresciuto. Così da diversi anni scavo nella memoria, quella brutta bestia che mi tradisce un po' troppo spesso. Compro libri e dvd dell'Australia, canto ai miei figli filastrocche, racconto favole e parlo loro della natura così unica del quinto continente. La speranza è che crescano con menti sempre aperte a nuovi stimoli, capaci di riconoscere ed apprezzare quello che è unico nell'altro. E non solo. Che sentano anche loro l'obbligo di impartire quello che è unico in loro, per realmente condividere lo spazio che abitano, per l'arricchimento di tutti.
(Articolo tratto dalla raccolta Migrazioni e paesaggi urbani, a cura di Melita Ridhter Malabotta, CACIT Editore, Trieste, 2008.)
Alexander Cormack, nato a Melbourne, Australia, nel 1968 si laurea in economia commerciale e lingua e cultura italiana nel 1991. Svolge 18 mesi di volontariato in collaborazione con le ACLI di Milano presso il campo profughi di Crnomelj, Slovenia nel 1994-1995. Approda a Trieste alla fine del 1995 per iscriversi presso la Scuola di lingue, si laurea in interpretazione nel 2003. Attualmente insegna interpretazione e traduzione presso la Scuola di lingue, inglese scientifico presso la Facoltà di medicina e traduce dall'italiano in inglese a favore della Società Italiana di Radiologia Medica.
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