L'ufficiale vorrebbe disertare e chiedere asilo in Austria o in Italia, dice. Cerco di immaginarmelo fermo a un semaforo a pulire parabrezza. Parla della diserzione apertamente, non ha paura di farsi sentire dai suoi soldati. Non so. Dev'essere strano il rapporto che c’è tra lui e i suoi sottoposti. Mi domando anche quanto regolare sia l'esercito di cui fa parte, nella confusa situazione della zona. Lo guardo. Mi chiede sorridendo se anche noi abbiamo preparato le nostre armi, se sono cariche. Guardo Luca. Annuisce serio, come se la domanda fosse seria, annuisce all'ufficiale, poi getta un'occhiata paterna alla telecamera appoggiata sul sedile della jeep.
Passiamo per un paese che nessun giornalista italiano vorrà mai citare in un drammatico reportage di guerra, Kulen Vakuf. Chissà cosa vuol dire in croato. Lo chiedo all'ufficiale, ma non riusciamo a capirci. Il paese sembra deserto, mentre lo attraversiamo. Forse sono tutti nascosti, forse è veramente un posto abbandonato. Cerco dei segni di vita recente nella strada e fuori dalle case. Cerco di penetrare con lo sguardo oltre le finestre. Tutto sembra vecchissimo, non toccato da millenni, più che da anni. Le case si diradano e si allineano dietro di noi. Mi volto indietro per guardare ancora. Anche le tracce che la nostra jeep lascia nel fango sembrano già impronte fossili.
Dai due blindati che ci precedono ogni tanto spuntano fuori delle teste, comunicano a grida e a gesti con l'autista della jeep, non so perché non usino la radio. Urlano per scavalcare il rumore dei motori. Non riesco a capire che tono abbiano i messaggi, a tratti mi sembrano scherzosi, a volte seri e decisi. Che i soldati siano dei bambini o poco più te ne accorgi quando senti le loro voci, è il modo che hanno di parlare. Mi chiedo quale meccanismo mentale possa far loro accettare tutta questa morte.
Forse questa è una Disneyland alternativa. Un parco dei divertimenti dove anzichè divertirsi si muore. È tutto finto, tranne la morte. Le motivazioni, le cause sono finte, inventate, sono giocattoli. Le morti sono vere. Una simulazione di guerra in cui gli aspetti simulati non sono le azioni, ma le premesse logiche, la cornice concettuale. D'altra parte quale guerra ha mai avuto giustificazioni adeguate alla guerra?
Ci stiamo avvicinando alla nostra destinazione. I due blindati proseguono lentamente verso il paese, che da qui ancora non si vede, mentre noi sulla jeep ci fermiamo ad aspettare che ci venga dato il via libera per radio. La strada di fango e sassi scorre parallela al corso di fango e sassi del torrente Una. Un paradiso per i pescatori di trote, fino a due anni fa. La ghiaia del letto immagino sarà ancora piena di ami, galleggianti e attrezzi vari persi dai turisti tedeschi e italiani.
Si pensa che il capannone del vecchio allevamento di trote di Martin Brod sia usato come deposito di armi. Lo scopo di questa missione è accertarsene.
L'ufficiale sulla nostra jeep parla via radio con uno dei due blindati. Il tono del soldato dall'altra parte è molto alto. Non si capisce se sia per tensione o per farsi sentire meglio. Riprendiamo a muoverci lungo la strada, molto lentamente. L'autista e l'ufficiale guardano avidamente attraverso i finestrini e il parabrezza, si contorcono sui sedili per avere angolazioni migliori della scarpata che sovrasta il lato sinistro della strada.
Dopo qualche centinaio di metri percorsi con la jeep a passo d'uomo, vediamo finalmente Martin Brod, una manciata di case buttata li dove il fango si divide in un bivio. L'allevamento di trote è una cinquantina di metri prima del paese, sulla strada. Ci passiamo di fianco. Ha un'aria abbandonata. Anche noi ce l'abbiamo. Si intravedono delle vasche attorno a un capannone, e vari condotti idraulici per il travaso dell'acqua. Le vasche sono vuote e umide, ci sono pozzanghere piene di foglie sul fondo, incrostazioni di muschio sulle pareti.
I due blindati dopo aver perlustrato le viuzze del paese tornano verso di noi. Hanno sistemato i fumogeni tossici in alcuni punti al centro e alla periferia sopravento del paese. I fusti fumogeni sono controllati a distanza da un radiocomando.
L'ufficiale con cenni da hostess ci indica le maschera antigas e ci spiega come indossarle. Controlla con attenzione me e Luca mentre ce le agganciamo. Quando è sicuro che tutto sia a posto anche lui ne indossa una. Per me è la prima volta. L'aria che filtra ha un aroma di carbone. All'inizio mi viene una specie di claustrofobia del respiro. Poi con uno sforzo riporto me e i miei polmoni a un ritmo più civile. Guardo Luca. È buffo. Anch'io devo essere buffo. Ma Luca lo è particolarmente, le grandi orbite rotonde di vetro sovrappongono alla sua faccia un'idea artificiale di stupore immenso. E Luca non è mai stupito. Le sue emozioni non arrivano mai a modificare l'espressione base che ristagna nel suo viso. Mi viene da pensare che adesso potrebbe capire molte cose di me, se gliele spiegassi ora che ha la maschera e quell'espressione.
Ci spostiamo in retromarcia, sia noi sulla jeep, sia i due blindati davanti a noi, lungo la strada dalla quale siamo venuti, ribadendo le nostre impronte. Bisogna aprire i fusti prima che il vento cambi direzione, ci spiegano. Mi pare di capire che i blindati abbiano un anemometro elettronico da qualche parte, e l'ufficiale a bordo della nostra jeep ne chieda continuamente la lettura via radio. Non riesco a cogliere il momento esatto in cui dà l'ordine di aprire i fusti, pensavo che me ne sarei accorto da una particolare solennità nell'atteggiamento, da una parola secca posta al culmine di un crescendo, in realtà è tutto molto monocorde, come l'eventuale radiocronaca di una partita a scacchi.
Luca ha acceso la telecamera e fa delle prove di ripresa, riguarda quello che ha filmato nel visore a cristalli liquidi. Come sempre non è chiaro se sia soddisfatto o no.
L'ufficiale si gira verso di noi e dice che i fusti sono stati aperti. Non è possibile accorgersi di niente, però, ci spiega. Il gas è incolore. Luca punta l'obiettivo verso le case più vicine. Non succederà niente per un bel po', ci dice l'ufficiale. Rimaniamo fermi ad aspettare, attenti, con gli occhi fissi al paesino.
L'attesa è abbastanza snervante. Luca continua a riprendere il paese, ogni tanto ferma, riavvolge il nastro, poi ricomincia a filmare. Io mi sforzo di mantenere un'attenzione vigile. Ho paura che qualcosa succeda sotto i miei occhi senza che me ne renda conto. Ogni tanto devo spostare lo sguardo su un oggetto vicino per non intontirmi del tutto, per tornare a percepire le tre dimensioni. Poi subito mi rimetto a fissare le case.
Dopo una ventina di minuti si apre una finestra. Mi pare di vedere anche una donna che si affaccia, ma è solo un attimo, e la figura sparisce dentro. E' probabile che ci abbia visti.
Ora che qualcosa si è mosso le mie impressioni sul paese sono cambiate, mi sembra di sentire come dei mormorii provenire dalle case. Naturalmente siamo troppo lontani perché questo possa essere vero. Mi volto verso Luca, gli chiedo se ha ripreso, lui continuando a girare annuisce lentamente, attento a muovere solo la testa e non anche la telecamera.
C’è un certo nervosismo tra i soldati. Tutti gli sguardi sono puntati verso la finestra che si è aperta. Forse si aspettano di veder lanciare bombe a mano o cose del genere. Penso a come è morta Mara Cagol alla cascina Spiotta.
Si apre la porta di un'altra casa, esce una figura barcollante. È un uomo. Anziano, si direbbe. Ondeggia un po' nel piccolo cortile tra le due abitazioni, poi cade. Non è come si vede nei film, la sua caduta non è proprio una caduta, è come se stesse cercando qualcosa che gli è scivolato per terra, sotto un mobile invisibile. È una caduta lenta e laboriosa che si articola in varie fasi: prima si inclina sulle ginocchia, poi si stende al suolo, come se un soffitto si stesse abbassando sopra di lui per schiacciarlo.
Faccio una fatica mentale immensa per convincermi che la morte possa essere così poco teatrale. Ora è immobile in mezzo al cortile.
“Aspettiamo ancora un po'”, ci dice l'ufficiale. Guarda la figura morta come potrebbe guardare un cartello lungo la strada. Il cartello gli conferma che la direzione imboccata è quella giusta.
Mi aspetterei di veder uscire altre persone dalle case, un movimento diverso, irrazionale, impazzito, da formicaio scoperchiato. Invece non succede più niente, tutto torna immobile come prima. Devo guardare il cadavere in mezzo al cortile e la finestra aperta per convincermi che qualcosa si è mosso negli ultimi secoli.
Dai blindati scendono a terra diversi soldati. Sono goffi e ridicoli, sotto il peso delle armi che ognuno di loro deve trasportare. “Sono treppiedi di carne umana”, commenta Luca. “Come te, no?” gli rispondo. Indossano tutti una maschera antigas. Si dividono in gruppi e si sparpagliano per il paese in modo apparentemente disordinato. “Tra un po' potremo andare anche noi”, ci dice l'ufficiale.
Ho paura. Il mio metabolismo cambia velocità. Me l'aspettavo. Accetto la cosa. E come scalare marcia, inserire la prima ridotta. Succede tutte le volte. E giusto che succeda. “Sei pronto?” chiedo a Luca.
L'ufficiale scende dalla jeep. Luca apre il portellone sul retro, quello con la ruota di scorta, e saltiamo giù anche noi. E strano toccare terra, come dopo un lungo viaggio in mare, mi pare di essere stato a bordo della jeep per anni. Sembra che il suolo non sia fermo, ma si inclini lentamente da una parte all'altra. Sento il cervello riempirsi di aria luminosa, come una fotografia sovraesposta. L'ufficiale si incammina, ci dice di stare un po' indietro, noi lo seguiamo. Procede tenendosi leggermente basso, con la schiena arcuata. Io e Luca lo imitiamo in modo un po' grottesco, come giocando a fare i gobbi. Ci avviciniamo alle case. Dalle porte escono ed entrano soldati, sembrano man mano più sicuri, si spostano quasi con disinvoltura, si affacciano alle finestre e si parlano da una casa all'altra.
L'ufficiale prosegue verso il posto dove sono stati piazzati i fusti, mentre io e Luca entriamo nella prima casa. Percorriamo un lungo corridoio a pianterreno e arriviamo in una specie di salotto. I soldati stanno sfasciando i mobili con i calci dei fucili, rompono sedie, credenze; buttano per terra pile di piatti e bicchieri. Il sogno di ogni bambino. Mi viene l'impulso di aiutarli, di fare anch'io come loro. Mi chiedo se anche Luca.
Entriamo dappertutto, saliamo le scale, secondo piano. Non c’è nessuno, nessun cadavere. I soldati rompono quello che possono, ma qui hanno più fretta, scendono ed escono. Usciamo anche noi, seguiamo il flusso.
Si entra in un'altra casa, quella della donna alla finestra, mi pare di capire. Il viavai sembra molto più agitato, c’è un tono diverso nelle parole che si scambiano i soldati. Saliamo le scale, entriamo in una camera da letto. C’è il cadavere di una ragazza steso su una sponda del letto, con le mani si tiene la gola. Probabilmente è proprio quella che avevamo visto affacciarsi per un attimo. La ragazza non è nuda, ha i vestiti tagliati sul davanti, la gonna tirata su e le mutande giù fino alle ginocchia. Si è formata una specie di coda. A turno i soldati si slacciano la cintura, si calano pantaloni e mutande e penetrano nel cadavere. Quelli che aspettano incitano a sbrigarsi, credo che vogliano approfittare del fatto che il cadavere è ancora caldo. Il corpo della ragazza è abbastanza ben fatto, il viso ha un'espressione serena, gli occhi sono chiusi, il seno scoperto ondeggia liquido.
Un soldato viene, si pulisce sulle coperte del letto e cede il posto. Due litigano un po', poi uno si butta sul corpo disteso, lo abbraccia, comincia a palparlo, a spogliarlo anche dai brandelli. Con le dita tocca la faccia della ragazza morta, le massaggia via dal viso quell'espressione serena che aveva, al suo posto riesce non so come a metterci una smorfia dolorosa e implorante. Le apre le palpebre, gli occhi guardano il soffitto. Si slaccia i pantaloni ed entra anche lui.
Altri penetrano la ragazza da dietro o in bocca. Più passa il tempo più l'eccitazione dei soldati in attesa cala, di pari passo con l'entropia del corpo, credo.
Io e Luca esploriamo le altre stanze, scendiamo al pianterreno. Un soldato esce da una porta, noi entriamo. In mezzo alla stanza c’è il corpo di un bambino biondo, steso per terra. Indossa una tuta rossa. Mancano i pantaloni. Mancano le mutande. Luca fa diversi giri attorno con la telecamera, poi usciamo.
Rincontriamo l'ufficiale davanti all'allevamento di trote. Oltrepassando un cancelletto arrugginito aggiriamo le grandi vasche. Dei soldati hanno sfondato la porta del capannone. Entriamo. Cataste di immondizia occupano tutto un lato, mentre più o meno al centro ci sono alcuni banchi da lavoro. I soldati stanno cercando sotto la spazzatura, pare che per ora non abbiano trovato niente. L'ufficiale li guarda indifferente. Non sembra deluso dalla mancanza di armi nel capannone. Luca spegne la telecamera. Chiedo all'ufficiale come mai in paese ci siano solo donne, anziani e bambini; lui mi risponde che molti uomini sono soldati, altri lavorano in città, altri sono nascosti nelle montagne, disertori. Altri sono pastori, anche loro in montagna. I soldati se ne vanno, noi restiamo. Continuiamo a girare per il paese morto con le nostre maschere antigas. Non ho idea di come faremo a tornare in città. Siamo entrati in tutte le case, c'erano appunto solo donne e bambini, un unico vecchio in una baracca ai limiti del paese. Ogni tanto ci sembra di sentire il suono di un motore attraverso il lungo solco dell'Una, ma ogni volta dopo qualche minuto scompare. Per passare il tempo Luca mi fa rivedere quello che ha girato.
Abbiamo aspettato più o meno quattro ore camminando per il paese, senza che succedesse niente. Le maschere le teniamo ancora allacciate, anche se non sappiamo se siano necessarie, ormai. I fusti sono dove li hanno lasciati i soldati. Io e Luca li abbiamo esaminati da vicino, lui li ha ripresi con la telecamera tutt'attorno. Sembrano inerti ormai, probabilmente sono inerti. Le valvole radiocomandate non emettono sibili o rumori di sfiato. Sbattendoli con un bastone suonano vuoti.
In alcuni momenti mi prende la paura che forse stiamo morendo tutti e due intossicati e non ce ne accorgiamo nemmeno. Ci hanno spiegato che il gas è incolore e inodore, quindi non so quali siano le sensazioni che precedono l'avvelenamento. È probabile che Luca non provi niente del genere.
Sentiamo un rumore nella vallata. Ce ne accorgiamo quando è già abbastanza vicino, e corriamo verso il lato del paese che dà sulla strada. Luca correndo prepara la telecamera. Ci fermiamo sul ciglio. Vediamo apparire un furgoncino, civile, con a bordo un uomo. Luca comincia a girare. Il furgoncino non va né forte né piano, l'uomo al volante non sembra allarmato o altro. Si ferma proprio all'inizio del paese, accanto alla casa della ragazza alla finestra. Scende, pare che non ci veda. Ci avviciniamo di corsa alla casa, entriamo subito dopo di lui. Io lascio passare Luca con la telecamera. L'uomo si muove per le stanze a piano terra, osserva per un po' i mobili rovesciati e sfasciati. Inizia a correre per le varie camere, apre tutte le porte, con noi due dietro. Comincia a chiamare due nomi a voce alta. Ci appiattiamo lungo il muro per farlo passare quando cambia direzione in corridoio. Non ci chiede chi siamo, che ci facciamo in casa sua. Luca gli sta appiccicato con la telecamera, lo segue vicinissimo, e l'uomo sembra l'inviato speciale di un Tg in diretta. Entra in una stanza, vede il bambino biondo per terra, presumo suo figlio, lo raccoglie, tenta di scuoterlo. Luca zooma dal viso del padre a quello del figlio, gira attorno ai due, controlla da dove viene la luce e si posiziona di conseguenza.
L'espressione sul viso del padre comincia a rompersi, a incrinarsi. Prende in braccio il bambino biondo, si guarda un po' intorno, forse cerca i pantaloni della tuta rossa e le mutande, cerca con lo sguardo per il pavimento, intanto continua a chiamare l'altro nome. Ora cammina tra le stanze più lentamente, piange. Sale le scale, noi dietro.
Mi viene il dubbio di non esistere. Al piano di sopra cerca per le camere, noi sappiamo già dov’è sua moglie, andiamo direttamente nella stanza da letto per esserci quando l'uomo entrerà. Il cadavere è sempre li, sopra il letto, nudo, a faccia in giù. Ormai - penso - completamente freddo. Luca si piazza accanto al letto nella posizione migliore, con una mano apre le tende per far passare più luce. Il padre entra, il bambino ancora in braccio, grida qualcosa, forse un nome o altro. Vedo Luca che tocca il piccolo microfono sulla telecamera, preoccupato per la distorsione del suono. L'uomo rigira il cadavere della moglie, lo scuote violentemente. Mi viene da pensare che in questa stanza ci dev'essere un incredibile odore di sperma, e che solo la maschera antigas non mi permetta di sentirlo. Il pianto dell'uomo si fa violento, tic immensi e totali gli impediscono di stare in equilibrio da fermo, prende a sbattere la testa contro le pareti, lascia delle macchie di sangue sull'intonaco, esce correndo dalla camera. Luca zooma sulle macchie di sangue, poi ricomincia a inseguire. Corriamo tutti e tre giù per le scale, l'uomo barcollando come un neonato ubriaco ed emettendo dei lunghi lamenti rauchi, Luca attento a non far cadere la telecamera e a non farla sbattere sugli spigoli. L'uomo esce in strada, arriva vicino al camioncino, si appoggia. Il suo respiro è molto accelerato adesso, sembra quello di un cane felice. A volte pare che si sia calmato e improvvisamente invece ricomincia a piangere. Si accascia di fianco al furgoncino, non ha più fiato. Osserva la telecamera che lo sta riprendendo e sembra quasi che cerchi di smettere di piangere. Cade disteso al suolo. Si tocca la gola, respira a fatica, rantola rigirandosi per terra. I movimenti diventano sempre meno convulsivi e sempre più meccanici. Molto lentamente, ci vorrà una ventina di minuti, l'immobilità si espande sul corpo come una macchia di unto. Luca gli si avvicina con l'obiettivo al limite dello sfuoco. Contemporaneamente gli tasta il polso con una mano. Rimane fisso per un po' sulla bocca spalancata dell'uomo, poi spegne.
(Racconto tratto da Una particolare forma di anestesia chiamata morte, Einaudi, Torino, 1997.)
Matteo Galiazzo è nato a Padova nel 1970.
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