La Lavagna Del Sabato 05 Settembre 2009


POTENZE COSTITUENTI IN AMERICA LATINA



Toni Negri





In America latina – e in particolare in Bolivia (ma già, nei tempi più recenti, in Ecuador, Venezuela, Argentina, e Brasile) - il tema del potere costituente, del processo costituente e del ruolo che in esso gioca il rapporto tra movimenti e potere statale, è divenuto centrale. Constatato questo preminente ruolo che il potere costituente ricopre nella fase attuale, cerchiamo di comprendere non solo come esso agisca, ma soprattutto come esso si ponga in rapporto ai movimenti popolari e/o moltitudinari che si presentano in prima linea nella lotta per la trasformazione. Procedendo in questo senso, dovremo, prima di tutto, identificare alcuni ostacoli teorici e materiali che, come tali, sembrano precludere la discussione del tema che ci siamo proposti: quello del rapporto costituente fra movimenti e governo. Il primo elemento preclusivo è teorico: attiene alla definizione stessa del potere costituente. Nelle teorie giuridiche della modernità, il potere costituente è presentato come potere originario non giuridico. Esso è un fatto, un evento, non un’espressione legale, non un dispositivo giuridico, né un prodotto costituzionale. La sua efficacia consiste nel mettere in movimento il processo costituzionale, ma non può esserne incluso. Quando la Costituzione comincia, il potere costituente finisce. In altra maniera possiamo dire che il potere costituente non entra nella teoria delle fonti del diritto, cioè nel novero di quelle sorgenti che continuamente generano e riproducono il sistema giuridico (nella sua continuità e trasformazione). Ora, si noti, questa esclusione del potere costituente dal sistema delle fonti del diritto è tutt’altro che innocente. La rivoluzione, il potere popolare, i movimenti moltitudinari vogliono essere continui. La sospensione del potere costituente è un atto che non trova origine nella natura del potere costituente quindi non può esserci neppure nel concetto. Questa sospensione è imposta dall’esterno, è una forza che blocca il processo costituente. Se volessimo seguire la serie di eventi sui quali storicamente si è costruita la teoria del potere costituente, potremmo subito concludere che la pretesa di una sua cessazione di effetti si chiama Termidoro. Il Termidoro si caratterizza come decisione che esclude il potere costituente dal sistema delle fonti giuridiche – cioè dalla continuità del processo di produzione del diritto. È la negazione che, di fronte alla potenza positiva, alle determinazioni di immanenza connesse al potere costituente, esprime la repressione del desiderio di comunità (ovvero di una produzione e riproduzione continua della capacità costituente). Ma guardiamo ad un secondo ostacolo che esclude il potere costituente dal sistema delle fonti del diritto: esso è storico. Voglio con ciò dire che nel moderno, nelle rivoluzioni della modernità, l’esclusione del potere costituente dal sistema delle fonti del diritto è legato a una determinazione materiale: il diritto di proprietà, privata o eventualmente (secondo le necessità) pubblica, cioè l’appropriazione indistruttibile – da parte capitalista – del tempo della vita sociale futura (come funzione centrale dell’ordine capitalista) e quindi l’impossibilità di modificarne radicalmente la funzione. C’è dunque un potere di esclusione che agisce come forza aggressiva contro il potere costituente, a favore di una serie di privilegi legati alla proprietà, che non possono essere trasformati o tolti. La costituzione materiale (ovvero l’insieme dei rapporti sociali che ogni costituzione definitivamente prescrive) non può tuttavia essere anteriore al potere costituente (come invece esigono i difensori del diritto di proprietà): contro quella condizione materiale preclusiva, l’ipotesi costituente vuole allora che – in linea di principio – la costituzione materiale, quando si esprime in termini parassitari e/o di sfruttamento, possa essere radicalmente modificata. È – in pratica – possibile rovesciare questo quadro? E cioè assumere il potere costituente non solo come fatto originario, ma come forza continua che si insedia nei processi costituzionali, come fonte di un’apertura indefinita e capacità di liberare il diritto, la costituzione sociale, dai limiti dell’egoismo proprietario e dell’invadenza totalitaria del capitalismo? È possibile inserire il potere costituente come fonte – continua, instancabile, assoluta – di diritto nella Costituzione, nel potere costituito? Sostenuti e sollecitati dalle vicende costituzionali che stanno dandosi in America latina e soprattutto dall’esperienza profondamente rivoluzionaria di quanto sta accadendo nella Repubblica di Bolivia – sembra che sia possibile dare risposta positiva a questo interrogativo. Nei paesi di nuova democrazia, in America Latina, il potere costituente è infatti assunto come una forza giuridica che vive e produce continuamente effetti all’interno del potere costituito, nell’intimo della Costituzione. Il potere costituente è movimento istituzionale e istituzionalizzante. Pone la continuità della trasformazione strutturale all’interno della continuità istituzionale. Il potere costituente può dunque essere verificato come fonte interna dell’ordinamento giuridico. Fonte interna, produttiva. Ma ecco che da ciò derivano subito alcune conseguenze. In primo luogo, com’è evidente, una nuova definizione del sistema formale delle fonti – che si installano in una nuova temporalità fra costituzione formale e materiale. È presto detto che cosa trasforma la temporalità costituzionale: la costituzione formale, anziché bloccare il tempo storico, sottomettendolo preventivamente agli effetti di dominio e di antagonismo delle forze sociali in lotta all’interno dei rapporti capitalistici è sottomessa allo sviluppo di questi. La costituzione non è più il presupposto della regolazione ma la conseguenza, sempre puntualmente registrata, degli antagonismi sociali. In secondo luogo ci si ripropone la questione: chi comanda, quale fine persegue, quale normatività esprime il potere costituente in questa condizione? Qual’ è dunque la forza che – una volta tolto di mezzo il principio dell’appropriazione anticipata del futuro della vita sociale – da parte capitalista – cioè il principio di proprietà – sostiene affermativamente il potere costituente e ne esclude, originariamente, ogni Termidoro? Di nuovo, la discussione si apre alle condizioni materiali del processo. La forza costituente (che ha le caratteristiche sopra descritte) è quella dei movimenti. Ora, questi movimenti si collocano dentro la costituzione materiale. Possiamo, a questo punto, proporre il concetto di una costituzione materiale in movimento. Vale a dire che il rapporto tra movimenti e governo potrà finalmente essere riconosciuto come un processo immanente, come una capacità continua di produzione. Ma questo non basta a chiudere la discussione e a consegnarci la compiutezza del processo costituente. L’esperienza dell’America Latina ci aiuta tuttavia a procedere. Lì, infatti, i movimenti si pongono sul territorio del comune. Vale a dire che vanno al di là del privato e del pubblico. I movimenti (questi movimenti che studiamo in America Latina) vogliono il comune. Non solo perché questi movimenti sono (in maniera forse contingente dal punto di vista della teoria costituzionale ma certamente assoluta dal punto di vista della memoria dell’oppressione e dei genocidi subiti e in nome della ricostruzione ora iniziata) il prodotto di forze storicamente assestate su culture comunitarie (movimenti indigeni). No, non solo per questo. Il fatto è che, quando i movimenti si propongono nella loro potenza costituente e pretendono che questa non sia fissata dentro alcuna operazione di Termidoro – da ciò deriva un’indicazione politica di democrazia del comune che interpreta (non solo un momento particolare in quei paesi, ma) una tendenza generale all’interno della crisi attuale della modernità e del capitalismo. L’esperienza costituente in America Latina può essere considerata in termini paradigmatici nell’attuale contingenza di crisi capitalistica globale.


Democrazia del comune, oltre il privato e il pubblico: che cosa significa? Precisiamo i concetti, così come avviene nelle contemporanee esperienze costituenti in America Latina. Il privato, è quell’appropriazione individuale che prescrive una preventiva delimitazione del campo dell’esistenza, dell’attività lavorativa e della vita dell’altro. Il privato è appropriazione e fissazione del proprio. Ma anche il pubblico è una cosa del genere. Anch’esso è appropriazione, è – detto ancor meglio – trascendenza, validazione necessaria dell’appropriazione. Come disse Rousseau, lo Stato – in quanto struttura pubblica per eccellenza – s’impone come “luogo di possesso del non-possesso da parte delle singolarità”. È dunque la copertura dell’espropriazione dell’attività delle singolarità, la loro alienazione, la figura nella quale si presenta il pubblico. Esso è – nel capitalismo – la negazione del diritto di tutti. Ecco allora, di contro, come si definisce il comune. Esso si presenta come partecipazione, come democrazia che nasce dalla gestione che tutte le singolarità, tutti i cittadini possono operare sull’insieme delle loro relazioni e sul comune della loro produzione. Non si danno più esclusioni, né blocchi, né introversioni, a questo punto. È questo un movimento che impedisce ogni Termidoro e ogni blocco/negazione della continuità dei movimenti e del divenire del comune. Abbiamo così costruito una prima sintesi di movimento costituente e di comune costituito? Le vecchie aporie (che ne facevano la stessa definizione) del rapporto fra potere costituente e potere costituito, fra movimenti e governo, fra libertà e comune, vengono, così, meno? Nel Settecento, quando gli illuministi parlavano della democrazia svizzera come di un modello, ne parlavano più o meno come noi stiamo ora facendo per la democrazia boliviana. Da Dürrenmatt in giù, tuttavia, gli svizzeri ci hanno messo in guardia contro le révéries dei Lumi: in effetti non sembra che Guglielmo Tell fosse davvero un dolcissimo queer-baby e comunque il suo fascino era quello del fondamentalista antiautoritario. Si potrà dire altrettanto di Evo Morales? Non sembra davvero. La rivoluzione boliviana che ha reinventato il comune nelle forme della gestione politica democratica dei beni comuni (dell’energia e dell’acqua), del riconoscimento della moltitudine delle “nazioni” andine, dell’estensione dei diritti economici e politici a tutti i cittadini, procede radicalmente ma con giudizio. Caute! come voleva Spinoza. Pratica disutopica piuttosto che esaltazione utopista. È questa d’altronde, la filosofia rivoluzionaria che da qualche lustro (pur fra secondarie insofferenze) Lula ha imposto alla ricostruzione democratica e moltitudinaria del sub continente latino-americano, strappandolo al “consenso di Washington”. Non è detto, tuttavia, che questa sintesi virtuosa si dia una volta per tutte; ancor meno si potrà dire che questa sintesi si dia per sempre. L’aleatorietà del rapporto fra potere costituente e costituzione del comune mostra sempre difficile la conclusione. Essa dipende dalla complessità delle macchine che vengono messe in movimento quando questa sintesi è cercata. Ma dipende anche dalle contraddizioni interne, che inevitabilmente si rigenerano, all’interno del rapporto fra attività costituenti e decisione di governo. Il comune, infatti, è affermato, ogni volta in maniera diversa nel momento in cui è prodotto, è costituito. Il comune non chiude (non può farlo perché se lo facesse, sarebbe esso stesso un altro Termidoro), il comune, la costituzione comune riaprono sempre, rilanciano. Tuttavia, negli interstizi di ogni rilancio della produzione costituzionale (del potere costituente), su tutti questi interstizi di nuovo si propongono la durezza e la decisione di chi vuol bloccare il processo. Come organizzare dunque una forza che massimamente sblocchi il blocco, che determini una progressiva assoluta efficacia del potere costituente, strappandolo ad ogni scivolamento inconcludente? Di questo c’è bisogno: di garantire l’irreversibilità del processo. Vale la pena dunque, realisticamente, di tenere la nostra attenzione sempre mobilitata. Gli spazi e le altitudini dell’America Latina lasciano presagire, con l’intensità dei movimenti, la violenza delle reazioni. È comunque “un’avventura a rovescio” di quella della colonizzazione, della conquista e della cristianizzazione, che qui si è aperta. I pericoli sono immani. Il potere costituente è altrettanto fragile quanto è efficace. Una soglia d’irreversibilità non è stata forse ancora raggiunta. Teniamo presente che la democrazia del comune è un esercizio di veglia, continua, sempre. Questo è quanto c’insegna l’esperienza del potere costituente in America Latina. Un paradigma difficile per fare del diritto un’arma rivoluzionaria, e per costruire istituzioni del comune. Se l’utopica Svizzera dei Lumi servì a costruire l’Enciclopedia, la Bolivia di Evo serve a costruire una nuova teoria del diritto.





Antonio (Tony) Negri, nato a Padova nel 1933, è stato uno dei soci fondatori di "Potere Operaio" e, successivamente, del gruppo Autonomia. Ha lavorato al fianco di molti altri autonomisti famosi, studenti e femministe degli anni 60 e 70, inclusi Raniero Panzieri, Mario Tronti, Sergio Bologna, Romano Alquati, Mariarosa Dalla Costa e François Berardi. Inoltre, ha scritto per Futur Antérieur con persone del calibro di Paolo Virno. Meglio conosciuto come il co-autore, con Michael Hardt, di Impero (Rizzoli, Milano 2002), Negri è libero (ma non gli è permesso di prendere parte alle elezioni, né di insegnare) dalla primavera del 2003, dopo aver trascorso un periodo in carcere per propositi criminosi, con l'accusa che egli e i suoi scritti fossero 'moralmente colpevoli' in atti di violenza che erano causati dal suo sostegno all' 'insurrezione armata' contro lo stato italiano durante gli anni 60 e 70. Nel 1997, Negri è ritornato volontariamente da un esilio di quattordici anni in Francia, dopo essere stato eletto nel 1983 al corpo legislativo, mentre veniva imprigionato e poi rilasciato per immunità parlamentare. Le sue opere prolifiche, iconoclastiche, cosmopolite, altamente originali e spesso di densa e difficile filosofia tentano di attuare una critica nei confronti della maggior parte dei principali movimenti intellettuali degli ultimi cinquant'anni, in difesa di una nuova analisi marxista del capitalismo.


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