Nel 1942, non molto dopo l’attacco a Pearl Harbor, un gruppo di filosofi giapponesi si riunì a Kyoto per discutere del ruolo del Giappone nel mondo. Lo scopo di quel convegno ultranazionalista consisteva nel trovare il modo di “sconfiggere la civiltà moderna”, come dichiararono i suoi organizzatori. Poiché l’espressione “civiltà moderna” era solo un modo diverso per definire la civiltà occidentale, la riunione avrebbe potuto anche essere intitolata “la sconfitta dell’Occidente”. Rovesciando completamente la formula “abbandonare l’Asia e raggiungere l’Occidente”, il Giappone s’imbarcava in una sorta di “Guerra santa” per liberare l’Asia dall’Occidente, depurando le menti asiatiche dalle idee occidentali. Insomma, quella guerra santa era inseparabile da un esercizio, per così dire, di purificazione filosofica. L’agente purificatore era costituito da un miscuglio mistico di nazionalismo etnico di ispirazione germanica e di nativismo giapponese basato sulle dottrine zen e shintoiste. L’idea di base è che i giapponesi formano una “razza storicamente egemone”, investita dal compito divino di guidare tutti i popoli asiatici in una nuova era di Grande Armonia, e via dicendo. Ma che cosa era esattamente questo Occidente da cui bisognava purificarsi? Che cosa si doveva sconfiggere? Questa domanda è tornata d’attualità, dal momento che le principali caratteristiche di questo nemico occidentale sono le stesse che gli vengono attribuite oggi da Osama bin Laden e da altri estremisti islamici. Esse sono, in ordine sparso, il liberalismo, il capitalismo, l’individualismo, l’umanesimo, il razionalismo, il socialismo, la decadenza e il lassismo morale. Per sconfiggere questi mali era necessaria da parte del Giappone una prova di forza, non solo militare, ma anche morale e spirituale. Le caratteristiche fondamentali dello spirito giapponese o “asiano” erano il senso di sacrificio, la disciplina, l’austerità, la sottomissione dell’individuo al bene della collettività, la venerazione dell’autorità divina e una profonda fede nella superiorità dell’istinto sulla ragione. Anche se, naturalmente, nella guerra del Giappone contro l’Occidente c’era ben altro in gioco, questi erano i pilastri filosofici della propaganda bellica giapponese.
La principale espressione della rivendicazione giapponese del carattere divino della propria identità nazionale era un documento intitolato Princìpi fondamentali della politica nazionale (Kokutai no Hongi). Pubblicato nel 1937 dal Ministero della pubblica istruzione, questo documento affermava che i giapponesi erano “intrinsecamente molto diversi dai cosiddetti cittadini delle nazioni occidentali”, perché la divina purezza del sangue imperiale era rimasta incontaminata e “noi guardiamo sempre all’imperatore come alla fonte delle nostre vite e di ogni nostra attività”. Lo spirito giapponese era ”limpido” e “sereno”, mentre l’influenza della cultura occidentale produceva confusione mentale e corruzione spirituale.
Una guerra santa contro l’Occidente
Queste idee erano, almeno in parte, la conseguenza dell’influsso di dottrine occidentali, e in particolare tedesche. Un celebre professore di tendenze conservatrici, Uesugi Shinkichi, si era convertito da giovane al cristianesimo, aveva studiato scienze politiche nella Germania guglielmina e, una volta tornato in Giappone, aveva scritto (nel 1919) quanto segue: “i sudditi non hanno alcun pensiero estraneo alla volontà dell’Imperatore. I loro sé individuali sono un tutt’uno con l’Imperatore solo agendo in accordo con la volontà dell’Imperatore, possono realizzare la loro vera natura e raggiungere l’ideale morale”.
Questa è la stoffa di cui erano fatti i combattenti della guerra santa. Un linguaggio simile a questo, anche se privo di inflessioni neo-shintoiste, era utilizzato anche dai nazionalsocialisti in Germania e da altri fascisti europei, che affermavano ugualmente di volersi battere contro le società liberali “senza anima”. Uno dei primi libri di critica del pensiero nazista, scritto da un rifugiato ungherese, Aurel Kolnai, era in effetti intitolato “La guerra contro l’Occidente”.
Gli ideologi nazisti e la propaganda bellica giapponese combattevano le stesse idee occidentali. L’Occidente che essi aborrivano era un’entità multinazionale e multiculturale, ma i simboli principali dell’odio razzista erano la Francia repubblicana, l’America capitalista, l’Inghilterra liberale e, in Germania più che in Giappone, l’ebreo cosmopolita e senza radici. La propaganda giapponese concentrava i suoi attacchi contro la “bestia angloamericana”, rappresentata dalle caricature dei plutocrati Roosevelt e Churchill in cilindro, mentre per i nazisti “l’eterno ebreo” simboleggiava quanto vi era di più odioso nel liberalismo.
La guerra contro l’Occidente è, almeno in parte, una guerra contro un particolare concetto di cittadinanza e di comunità. Vari decenni prima dell'avvento di Hitler, il padrino spirituale del nazismo, Houston Stewart Chamberlain, descriveva già la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti come nazioni definitivamente “giudeificate”, in cui la cittadinanza era stata degradata a “concetto puramente politico”. In Inghilterra, affermava H. S. Chamberlain, “qualunque negro Basuto” può ottenere un passaporto. In seguito si lamentò del fatto che la nazione fosse “caduta quasi interamente nelle mani degli ebrei e degli americani.” Dal suo punto di vista, e da quello del suo amico, il Kaiser Guglielmo II, la Germania era l’unico paese che poteva impedire il naufragio dell’Occidente in un mare di decadenza e di corruzione, avendo conservato una dose sufficiente di spirito nazionale e di solidarietà razziale. Il suo concetto di “Occidente” non era basato sulla cittadinanza, ma sul sangue e sul suolo.
Nel 1933 (proprio in quell’anno!) Oswald Spengler metteva in guardia l'Occidente contro il pericolo rappresentato dai “popoli di colore” (Farbige Völker), prevedendo, non senza qualche ragione, gigantesche e rabbiose insurrezioni dei popoli colonizzati dalle nazioni europee. Per Spengler, dopo il 1918 la Russia era tornata a essere una nazione “asiatica” e ben presto il mondo avrebbe dovuto vedersela con il Giappone, chiamato il Pericolo Giallo. Ma la cosa più importante era che i popoli bianchi dominanti (Herrenvölker) erano in procinto di perdere il controllo della stessa Europa. Ben presto, sosteneva Spengler, la Francia non sarebbe più stata governata dai veri francesi, che cominciavano già a essere sommersi dall’arrivo di soldati africani, uomini d’affari polacchi e agricoltori spagnoli. Il declino dell'Occidente era causato dal fatto che la gente era divenuta molle, decadente, avvezza alla sicurezza e al comfort: “La musica jazz e le danze tribali sono la marcia funebre di una grande civiltà”.
Se le critiche all’Occidente erano spesso causate dalla diffusione di mal digeriti concetti di origine germanica, l’influenza del pensiero tedesco era anche all’origine di una visione più positiva della realtà occidentale. Nella Russia del XIX secolo, per esempio, sia gli slavofili sia i modernizzatori, che propugnavano due visioni contrapposte dell’Occidente, si ispiravano a diverse correnti filosofiche tedesche. Le posizioni a favore o contrarie all’Occidente erano in effetti diffuse un po’ ovunque.
L’Occidente non ha inizio dall’Elba, come pensava Konrad Adenauer, né comincia da Praga, come ha suggerito una volta Milan Kundera. Oriente e Occidente non coincidono necessariamente con un territorio geografico. L’antioccidentalismo, che ha giocato un ruolo così importante negli attentati dell’11 settembre, si presenta piuttosto come un grappolo di immagini dell’Occidente presenti nelle menti dei suoi fanatici avversari. Molte versioni di questa ideologia ruotano intorno a quattro elementi, che chiameremo la Città, il Borghese, la Ragione e il Femminismo. Ognuno di essi è collegato con una serie di difetti, come arroganza, fiacchezza morale, avidità, depravazione e decadenza, che sono considerati tipici degli occidentali, e a volte soprattutto degli americani.
Gli aspetti dell’Occidente che gli antioccidentalisti detestano maggiormente non sono sempre gli stessi che suscitano il loro odio nei confronti degli americani. Occorre fare attenzione a non confondere le due questioni. Un uomo chiedeva un giorno stupefatto a un suo amico: “Perché mi odi? Eppure non ti ho mai aiutato.” C’è chi odia gli Stati Uniti perché hanno aiutato il suo paese e chi li odia per non averlo fatto. Alcuni nutrono del risentimento verso gli Stati Uniti per aver aiutato gli odiati governanti del proprio paese a conquistare il potere o a conservarlo. Per alcuni la semplice esistenza degli Stati Uniti è fonte di umiliazione, mentre per altri lo è la loro politica estera. Per alcuni esponenti della sinistra, l’odio degli Stati Uniti rappresenta tutto ciò che resta della loro posizione politica: l’antiamericanismo è entrato a far parte della loro identità. Lo stesso accade per alcuni movimenti culturalmente a destra, come i gollisti. L’antiamericanismo è una posizione politica di primo piano, collegata all’antioccidentalismo, ma distinta da questo.
Anatema contro Babilonia
Tutte le rivolte antiliberali nascondono un profondo odio per la Città, ossia per tutto quello che la civiltà urbana rappresenta: commerci, popolazione mista, libertà artistica, licenza sessuale, indagine scientifica, tempo libero, sicurezza personale, ricchezza e il suo abituale compagno, il potere. Mao Zedong, Pol Pot, Hitler, i fascisti agrari giapponesi e, naturalmente, gli estremisti islamici concordano nell’esaltare la vita semplice del pio contadino, dal cuore puro e non corrotto dai piaceri cittadini, abituato a una vita di duro lavoro e abnegazione, legato alla propria terra e obbediente alle autorità.
Dietro questo idillio rurale si nasconde il desiderio di controllare le masse, ma anche un antico astio religioso, che risale almeno ai tempi di Babilonia, la superpotenza della sua epoca. I “santi” delle tre religioni monoteistiche – cristianesimo, giudaismo e islam – si sono scagliati contro Babilonia, la peccaminosa città-stato che osava sfidare Dio con la sua arrogante politica, la sua potenza militare e la sua civiltà profondamente urbana. La favolosa torre di Babele era un simbolo di hybris e di idolatria: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome” (Genesi 11:4), una decisione accolta dallo stesso Dio come una sfida e una minaccia: “E ora quanto avranno in mente di fare non sarà loro impossibile” (Genesi 11:6). In altre parole, i cittadini di questa superpotenza urbana non avrebbero esitato a porre in atto le loro fantasie e a trasformarsi in divinità.
“Dio non ama gli orgogliosi ”, recita il Corano (16:23) e aggiunge subito dopo: “Ma Dio colpì il loro edificio alle fondamenta e crollò loro addosso il tetto da sopra e li colse il Castigo donde meno se lo attendevano” (16:26).Già Isaia profetizzava che Babilonia, “la gloria di tutti i regni”, avrebbe fatto la fine di “Sodoma e Gomorra” (Isaia 13:19) e che l’arrogante città sarebbe stata rasa al suolo e sulle sue rovine non sarebbe stata più piantata neppure una “tenda araba” (13:20). Nell’Apocalisse di Giovanni si parla ancora a lungo della grande Babilonia, “la madre delle prostitute e degli abomini della terra” (17:5) e della sua “caduta” (18:2).
Nei film prodotti nei paesi del Terzo Mondo vi è un tema ricorrente, quello del ragazzo o della ragazza che lasciano il loro remoto villaggio per trasferirsi in città, obbligati dalle circostanze o per costruirsi una nuova vita in un mondo meno circoscritto e più ricco. Ma ben presto si trovano soli e disperati e finiscono per cadere nella miseria, nel crimine o nella prostituzione. Di solito, la storia si conclude con un gesto di terribile violenza, un tentativo di vendicarsi abbattendo i pilastri che sostengono la città aliena, arrogante, indifferente. Questa storia ricorda per certi aspetti la vita di Hitler a Vienna, di Pol Pot a Parigi e di Mao a Pechino, ma anche quella di molti giovani musulmani al Cairo, a Haifa, a Manchester o ad Amburgo.
Nel mondo in cui viviamo non è neppure necessario trasferirsi in città per avvertire la sua costante presenza, attraverso la pubblicità, la televisione, la musica pop, i video. La città moderna, concentrato di tutti i piaceri irraggiungibili, prostituta arrogante e imbellettata, ha trovato la sua icona nello skyline di Manhattan, riprodotto su milioni di poster, fotografie e immagini di tutti i tipi, incollate sui muri di tutto il mondo. È impossibile sfuggirle. La si ritrova sui polverosi jukebox della Birmania, nelle discoteche di Urumqi, nei dormitori studenteschi di Addis Abeba. Suscita ovunque desiderio, invidia e, a volte, cieca furia. I talebani, come i provinciali nazisti inorriditi di fronte ai “balli negri”, come Pol Pot, come Mao, hanno tentato di creare un mondo puro, dove le visioni di Babilonia non potessero più perseguitarli.
Il mercato e l’ebreo
I talebani, ovviamente, hanno un’idea molto vaga dei lussi occidentali. Per essi, persino Kabul pullulava di scandali e peccati, come le scuole aperte alle ragazze o le donne che si aggiravano per la pubblica via a viso scoperto. Ma i talebani, come altri puritani, si interessano molto anche alla sfera privata. Nelle grandi anonime città, la separazione tra il pubblico e il privato rende possibile l’ipocrisia. Agli occhi di un antioccidentalista, l’immagine dell’Occidente, con la sua popolazione prevalentemente urbana, è caratterizzata da un’artificiosa ipocrisia, contrapposta alla semplicità della vita bucolica del beduino. Riad, con i suoi sontuosi palazzi arabi, è l’epitome dell’ipocrisia. I suoi abitanti sono soliti comportarsi da osservanti wahabiti in pubblico e da ingordi occidentali in privato. Per un estremista islamico, praticare questa forma di ipocrisia urbana equivale a permettere al demone occidentale di insinuarsi nell’anima dei credenti, come un verme che divora una mela dall’interno.
La maggior parte delle grandi città sono anche grandi mercati. Molte cose che gli erano particolarmente piaciute dell’Inghilterra, Voltaire le aveva osservate al Royal Exchange, “dove ebrei, musulmani e cristiani fanno affari tra loro come se appartenessero alla stessa religione e nessuno è chiamato infedele, se non chi fa bancarotta.” Coloro che odiano ciò che Voltaire ammirava, che vedono nel mercato la fonte di ogni avidità, egoismo e corruzione straniera, odiano anche le persone che possono trarre da esso i maggiori vantaggi: gli immigrati e le minoranze, che possono contare solo sul commercio per migliorare la propria condizione. Quando è necessario restaurare la purezza e purgare il suolo natio dal sangue straniero, allora queste persone sono le prime a essere bandite: i cinesi dalla Phnom Pen di Pol Pot, gli indiani da Rangoon o da Kampala, e gli ebrei dappertutto.
A volte questa impurità può estendersi a intere nazioni o perfino alle grandi potenze. Sbandierando l’obiettivo di ripristinare in Oriente i veri valori asiatici, i leader del Giappone promisero di cacciare gli imperialisti bianchi, per “porre un freno alla competizione economica”. Non a caso Israele, qualunque cosa faccia, resterà sempre la pagliuzza aliena nell’occhio dei puristi musulmani. E i nemici degli Stati Uniti non riusciranno mai a tollerarne l’esistenza. “L’alleanza tra i crociati e gli ebrei, condotta da Israele e dagli Usa”, come l’ha definita bin Laden, è intrinsecamente malvagia e suscita un odio incondizionato. Come ha dichiarato nel 1998 in un’intervista all’emittente Al-Jazeera, “ogni vero musulmano odia gli americani, gli ebrei e i cristiani. È il nostro credo e la nostra religione. Sin da ragazzo ho dichiarato guerra agli americani, agli ebrei e ai cristiani e nutro odio nei loro confronti.” Gli angeli vendicatori di settembre hanno scelto con cura il loro bersaglio. Lo skyline di Manhattan costituiva una provocazione e le sue babeliche torri dovevano essere abbattute.
L’anima contro la ragione
Cosa intendeva Hitler per “scienza giudaica”? E, per restare nello stesso tema, per quale motivo i fondamentalisti cristiani detestano tanto Darwin? I propagandisti nazisti sostenevano che non era possibile stabilire la verità scientifica servendosi di metodi “ebraici” come la ricerca empirica o la verifica sperimentale delle ipotesi ; la scienza naturale doveva essere “spirituale”, cioè radicata nello spirito del Volk. Gli ebrei, si affermava, si avvicinavano al mondo naturale attraverso la ragione, ma i veri tedeschi erano capaci di una comprensione più elevata, grazie al loro istinto creativo e all’amore della natura.
Il presidente Mao ha coniato lo slogan “(fare) scienza vuol dire agire in modo ardito”. Negli anni Cinquanta, dopo aver espulso gli scienziati professionisti dal partito, incoraggiò i più fanatici tra i suoi seguaci a imbarcarsi in esperimenti deliranti, ispirati alle altrettanto folli teorie dello pseudoscienziato stalinista T.D. Lysenko. “Non è necessaria nessuna particolare abilità per costruire reattori nucleari, ciclotroni o razzi spaziali, basta sentirsi superiori a chiunque, come se non ci fosse nessuno al di sopra di voi.” Da queste parole di Mao trapela il senso di inferiorità che il Presidente e i suoi provinciali seguaci nutrivano nei confronti delle persone dotate di un’istruzione superiore. Istinto, spirito, ardimento… Nel 1942, un professore dell’università di Tokyo affermò che la vittoria del Giappone sul materialismo anglo-americano era certa, perché il primo incarnava la “cultura spirituale” dell’Oriente.
Come le torri di Babele di Manhattan, così anche la visione “ebraica” secondo cui la “scienza è internazionale” e la ragione umana, senza distinzioni di razza o nazionalità, è il migliore strumento per la ricerca scientifica, è vista dai nemici della civiltà liberale e urbana come una forma di hybris. Nella scienza, come in ogni altra cosa, deve essere infuso un ideale più alto: il Volk tedesco, Dio, Allah o non so cosa. Ma potrebbe esserci qualcos’altro, qualcosa di molto più primitivo, dietro questo rifiuto. Gli adoratori di divinità tribali, ma anche di divinità rappresentate come universali, compresi i cristiani, i musulmani e gli ebrei ortodossi, mostrano a volte la tendenza a credere che gli infedeli possiedano un’anima corrotta, o non l’abbiano affatto. Non per nulla i missionari cristiani parlano della necessità di salvare le anime. Nei casi più estremi, questo può far ritenere che sia lecito uccidere impunemente gli infedeli.
L’anima è un tema ricorrente nell’antioccidentalismo. Gli slavofili ottocenteschi erano soliti contrapporre la “grandezza” dell’anima russa al materialismo e al meccanicismo dell’Occidente e affermavano di essere a favore dei sentimenti profondi e di una sincera compassione. Gli occidentali erano rappresentati al contrario come macchine efficienti ma prive di ogni sensibilità, a parte un prodigioso senso pratico. L’intelletto scettico è sempre visto con sospetto dai sostenitori dell’anima. Gli antioccidentalisti esaltano l’anima e lo spirito, ma disprezzano gli intellettuali e la vita intellettuale, che considerano dispersiva, una sorta di forma elevata di idiozia, completamente priva del senso della “totalità” o dell’“assoluto” e di ciò che conta davvero nella vita.
La convinzione che gli “altri” abbiano sentimenti diversi dai nostri è piuttosto diffusa tra tutti i popoli. L’idea che gli orientali attribuiscano scarso valore alla vita umana e che i coolies non sentano il dolore sono esempi di questa mentalità, ma lo è anche l’idea che abbiamo sentito esprimere tante volte in Cina, India, Giappone ed Egitto, che gli occidentali siano aridi, razionali, freddi e incapaci di calore e sentimenti umani.
Religione e politica
Si tratta senza dubbio di manifestazioni di ignoranza provinciale, ma anche del riflesso di un certo ordine sociale. L’Occidente anglo-franco-giudeo-americano postilluminista si governa per mezzo di istituzioni politiche laiche e ritiene che il comportamento dei cittadini debba essere regolamentato da leggi laiche. Le convinzioni religiose e tutto ciò che riguarda lo spirito appartengono alla sfera privata. La nostra politica non è del tutto indifferente ai valori comuni e ai principi della morale, e alcuni dei nostri attuali leader vedrebbero con favore un aumento del peso della religione nella sfera pubblica; tuttavia, l’Occidente non è governato da leader spirituali che pretendono di fare da tramite tra noi e il cielo. Le nostre leggi non sono il prodotto di una rivelazione divina, ma sono redatte dai giuristi.
Le società in cui Cesare è anche il sommo sacerdote, o viene venerato come un idolo, che siano staliniste, monarchiche o islamiche, si servono di un linguaggio politico differente. Anche in questo caso, può essere utile un esempio tratto dalla Seconda guerra mondiale. Mentre gli Alleati, guidati dagli Stati Uniti, combattevano il Giappone in nome della libertà, la guerra santa del Giappone in Asia era condotta in nome della giustizia divina e della pace. “L’obiettivo principale della politica nazionale giapponese consiste nell’instaurare una solida pace mondiale, secondo il principio ‘Tutto il Mondo Sotto un Unico Tetto’, su cui si fonda la nostra nazione”, dichiarò il primo ministro giapponese Konoe nel 1940. Anche gli estremisti islamici si propongono di unire il mondo sotto un unico tetto di pace, una volta eliminati gli infedeli e le loro torri.
Quando la politica e la religione si uniscono, gli scopi dell’azione collettiva, spesso perseguiti in nome dell’amore e della giustizia, tendono a estendersi a tutto il mondo o almeno a larghi settori di esso. Lo Stato è una costruzione laica. Viceversa, la Fratellanza Musulmana, la Chiesa di Roma, la formula “Tutto il Mondo Sotto un Tetto Giapponese”, il comunismo mondiale, si pongono tutti, ciascuno a suo modo, obbiettivi religiosi o millenaristici. Persino nei secolari stati occidentali questo modo di fare politica non è del tutto sconosciuto. Soprattutto negli Stati Uniti, le organizzazioni fondamentaliste cristiane e altri gruppi di pressione religiosi hanno tentato di iniettare i loro valori e programmi religiosi nella politica nazionale, in un modo che avrebbe scandalizzato (anche) i Padri Fondatori. Il fatto che il reverendo Jerry Falwell abbia descritto gli attacchi terroristici di New York e di Washington come una sorta di punizione per i nostri peccati dimostra che il suo modo di pensare non è poi molto diverso da quello degli estremisti islamici.
Ma, almeno idealmente, gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali rimangono esempi di ciò che Ferdinand Tönnies definiva una Gesellschaft, una collettività i cui membri sono uniti tra loro da un contratto sociale. L’altro tipo di comunità, la Gemeinschaft, è basato invece su una fede comune, su un’affinità etnica o su profondi sentimenti di qualche genere. Un pensatore tedesco, Edgar Jung, descriveva la prima guerra mondiale come uno scontro tra l’Intelletto (l’Occidente) e l’Anima (la Germania).
Il borghese e l’eroe
I nemici dell’Occidente aspirano in genere a essere eroi. Mussolini esortava i suoi romani a “essere sempre arditi!” L’islamismo, il nazismo, il fascismo e il comunismo hanno in comune l’esaltazione dell’eroe. L’ideale maoista della rivoluzione permanente era un programma volto a mantenere alta la tensione e rinvigorire la società fomentando una costante violenza eroica.
Il nemico comune di tutti gli eroi rivoluzionari è il borghese integrato, l’abitante dei centri urbani, il piccolo impiegato, il florido agente di borsa, assorbiti dalle loro occupazioni, in poche parole, il genere di persona che avrebbe potuto trovarsi in un ufficio del World Trade Center l’11 settembre. È un tratto peculiare della borghesia, forse la classe che ha avuto, almeno finora, il maggior successo in tutta la storia dell’umanità, secondo Karl Marx, quello di attirare l’odio viscerale di alcuni tra i più dotati dei suoi figli, compreso lo stesso Marx. L’assenza, nell’ethos borghese, dell’eroismo e dell’aspirazione a compiere grandi imprese contribuisce in modo non secondario a fomentare questo odio. L’eroe corteggia la morte. Il borghese non può fare a meno delle sue sicurezze. In un’intervista rilasciata nel 1998, è stato chiesto a bin Laden se avesse mai temuto di essere tradito da una persona del suo entourage. “Questi uomini hanno abbandonato gli affari mondani e sono venuti qui per la jihad”, è stata la risposta.
Gli intellettuali, anch’essi in genere poco portati all’eroismo, hanno spesso manifestato un analogo disprezzo per la borghesia e un’infatuazione nei confronti dell’eroismo – per i leader o per le ideologie eroici. Durante il fascismo, gli artisti italiani celebravano la velocità, la giovinezza, l’energia, l’istinto e la capacità di sfidare la morte. I sociologi tedeschi degli anni Trenta erano affascinati dall’opposizione tra l’eroe e il borghese: Händler und Helden (Mercanti ed eroi) di Werner Sombart e Der bürgerliche und der heldische Mensch (L’uomo borghese e l’uomo eroico) di Bogislav von Selchow sono solo due esempi del genere. Von Selchow era solo uno tra i tanti autori, non necessariamente tedeschi, che sostenevano che la società liberale era divenuta fredda, frammentata, decadente, mediocre, inerte. Il borghese, scriveva von Selchow, si costruisce una vita priva di pericoli nella quale nascondersi; è ansioso di eliminare “la lotta contro la Vita, essendo privo della forza necessaria per dominarla nella sua nudità e asprezza in modo virile.”
Per i sodali di von Selchow o di Ernst Jünger, la prima guerra mondiale aveva portato alla luce un lato diverso e più eroico dell’uomo. La battaglia di Langemarck, uno degli episodi più spaventosi del conflitto, a cui aveva preso parte lo stesso Jünger, divenne così un’icona del culto degli eroi. In una serie di attacchi del tutto inutili, persero la vita circa 145.000 uomini. Ma si narrava che i giovani eroi, molti dei quali provenienti dalle più prestigiose università, come i piloti kamikaze giapponesi trent’anni più tardi, corressero incontro a una morte precoce cantando il Deutschlandlied. Le famose parole di Theodor Körner, scritte un secolo prima, erano spesso evocate a tale riguardo: “La felicità consiste nel sacrificio della propria vita”. Nella prima settimana dell’attuale guerra in Afghanistan, un quotidiano inglese ha riportato la seguente dichiarazione di un giovane guerriero afghano: “Gli americani amano la Pepsi Cola, noi invece amiamo la morte.” Esattamente gli stessi sentimenti che animavano il culto di Langemarck.
Perfino gli autori che non nascondevano le loro simpatie per l’Occidente democratico, come Alexis de Tocqueville, hanno sottolineatola mancanza di grandeur, il conformismo intellettuale e la mediocrità culturale ritenuti inerenti a questo sistema di governo. La democrazia, ammoniva Tocqueville, può trasformarsi facilmente in dittatura della maggioranza. Notava inoltre che in America non vi erano grandi scrittori, né in effetti nulla che potesse definirsi grande (in senso culturale). È una critica frequente ma non del tutto fondata. Infatti, non si può dire che il panorama artistico e culturale di New York sia più mediocre di quello di Damasco o di Pechino.
È vero che nelle nostre società opulente, orientate al mercato, vi è molto di mediocre e non c’è nulla di ammirevole nel lusso fine a se stesso, ma quando il disprezzo per il comfort borghese diventa disprezzo per la vita sono le stesse basi della società occidentale a essere attaccate. Questo disprezzo può avere diverse origini, ma attecchisce più facilmente tra quanti si sentono impotenti, emarginati, esclusi o denigrati: l’intellettuale che si sente incompreso, lo studente d’arte senza talento in una città piena di brillanti ingegni, l’uomo qualunque disperso nella folla, il giovane immigrato che si sente beffato dalla superiorità occidentale; la lista dei potenziali adepti del culto della morte è virtualmente infinita.
Il liberalismo – ha scritto uno dei primi teorici del nazismo, A. Moeller van der Bruck – è la “libertà per ciascuno di essere mediocre”. L’uscita dalla mediocrità, suggeriscono le sirene del culto della morte, consiste nel sommergere il proprio piccolo ego in un movimento di massa, le cui formidabili energie saranno messe al servizio del Führer, dell’Imperatore, di Dio o di Allah, per compiere qualcosa di grande. Il Capo è l’incarnazione delle ambizioni di ciascuno dei suoi seguaci. Cosa conta la vita di uno, due o mille uomini, quando è gioco qualcosa di più importante della vita stessa? Questo principio giustifica le peggiori violenze contro gli altri: ebrei, infedeli, borghesi liberali, sikh, musulmani o chiunque debba essere eliminato per fare posto a un mondo più grande e più glorioso. Un cappellano americano, un certo Francis P. Scott, era stato incaricato dal Tribunale per i crimini di guerra di Tokyo di indagare le cause della straordinaria brutalità dei militari giapponesi durante la guerra. Dopo molte interviste con ex-combattenti, Scott giunse alla conclusione che i soldati “erano convinti che nessun nemico dell’Imperatore potesse essere nel giusto, cosicché per mostrarsi fedeli all’Imperatore, dovevano comportarsi nel modo più brutale possibile.”
La figura più autentica del santo guerriero, tuttavia, non è il torturatore, ma il pilota kamikaze. Il sacrificio di sé è il massimo onore che si possa raggiungere nella guerra contro l’Occidente. È l’esatto contrario della paura per la propria vita tipica del borghese. I giovani sono i più disposti a sacrificare sé stessi, come dimostra il fatto che la maggior parte dei kamikaze aveva da poco terminato le scuole superiori. Come ha detto bin Laden, “la fascia tra i quindici e i venticinque anni è la più portata alla jihad e al sacrificio.”
Contro l’emancipazione femminile
Nel suo La guerra contro l’Occidente, Aurel Kolnai sosteneva nel 1938 che “la tendenza all’emancipazione delle donne (è) fortemente caratteristica dell’Occidente”. Questa affermazione un po’ categorica può essere letta come una reazione alle posizioni dei nemici di Kolnai, come, per esempio, quella espressa da Alfred Rosenberg, il propagandista di Hitler: “L’emancipazione delle donne dal movimento per l’emancipazione femminile è la prima richiesta avanzata da una generazione di donne che si propongono di salvare il Volk, la razza e l’Inconscio-Eterno, fondamento di ogni cultura, dal declino e dalla distruzione”. Se si prescinde da ciò a cui questo pensatore dalle idee confuse voleva riferirsi con le parole Inconscio-Eterno, il significato complessivo è abbastanza chiaro. L’emancipazione femminile porta alla decadenza borghese. Il ruolo della donna è quello di generare nuovi eroi. Uno dei motivi per cui i tedeschi importavano migliaia di lavoratori dalla Polonia e dagli altri paesi occupati era la necessità di rispettare il dogma per cui le donne tedesche dovevano rimanere in casa.
Anche bin Laden è ossessionato dalla questione della virilità e dal ruolo sociale delle donne, che sono al centro della sua ideologia antioccidentalista. “I governanti di quella regione [gli stati del Golfo] sono stati privati della loro virilità”, ha dichiarato nel 1998, “e pensano che il popolo sia composto di donne. Ma, in nome di Dio, le donne islamiche si rifiutano di farsi difendere da queste prostitute americane ed ebree.” L’Occidente, secondo lui, è deciso a “privarci della nostra virilità. Ma noi sappiamo di essere uomini.”
Poche società moderne sono dominate dai maschi come il Giappone del periodo bellico. La brutale politica che obbligava le giovani donne coreane, cinesi, filippine e anche giapponesi a servire nei bordelli militari rifletteva la scarsa considerazione della donna nella società giapponese. Eppure proprio la guerra ebbe l’effetto di emancipare le donne giapponesi in una misura probabilmente imprevista. Poiché la maggior parte degli uomini abili si trovava al fronte, erano le donne a doversi prendere cura delle loro famiglie, a trafficare al mercato nero e a lavorare nelle fabbriche. A differenza degli uomini, che percepirono la sconfitta come una profonda umiliazione, molte donne giapponesi videro la vittoria degli Alleati come un primo passo verso l’emancipazione. Uno dei cambiamenti più importanti introdotti in Giappone nel dopoguerra fu il diritto di voto alle donne, che se ne servirono in massa sin dal 1946. La nuova costituzione fu opera principalmente di giuristi americani, ma gli articoli riguardanti i diritti delle donne si devono in gran parte al lavoro di un personaggio fuori del comune, Beate Sirota, che riuniva in sé molte delle caratteristiche più odiate dai nemici dell’Occidente: infatti era una donna europea, colta e per di più di religione ebraica.
Tutti coloro per i quali la disciplina militare, la propensione al sacrificio, l’austerità e l’adorazione del Capo rappresentano i più alti ideali sociali, si sentiranno sempre terribilmente minacciati dal potere della sessualità femminile. Le donne sono da sempre dispensatrici e custodi della vita. La libertà delle donne è incompatibile con il culto della morte. In effetti, l’esibizione della sessualità femminile è percepita come una provocazione non solo dai puritani, ma anche da tutte le persone represse che si esaltano sognando la morte in nome di una grande causa. Le immagini di donne occidentali parzialmente svestite, utilizzate per pubblicizzare un film, una bibita o qualcos’altro, con allusioni più o meno esplicite ad atti sessuali, sono altrettanto diffuse nel mondo delle immagini dello skyline di Manhattan, e generano altrettanta frustrazione, confusione e, a volte, ira in chi le osserva. Anch’esse contengono infatti la promessa di un mondo infinitamente piacevole, ma irraggiungibile per le persone comuni.
I veleni del monoteismo
Non c’è nessuno scontro di civiltà in atto. Ma la maggior parte delle religioni, soprattutto quelle monoteistiche, ha la capacità di generare il veleno antioccidentale e tutte le culture possono dare origine a una specifica variante del fascismo secolare. Il conflitto attuale non riguarda quindi l’Oriente e l’Occidente, gli angloamericani e il resto del mondo o la religione giudaico-cristiana e quella islamica. Il culto della morte è un virus mortale che al momento prolifera, per tutta una serie di ragioni storiche e politiche, tra i seguaci dell’estremismo islamico.
L’ antioccidentalismo è oggi l’ideologia dei rivoluzionari islamici, che si propongono di unificare il mondo sotto la guida della sharia (la legge islamica), secondo l’interpretazione che ne hanno dato i suoi studiosi più accreditati, formatisi nella jihad (leggi “rivoluzione”). È un appello alla purificazione del mondo islamico dalle contaminazioni dell’Occidente idolatra, esemplificato dall’America. L’obiettivo è colpire i santuari pagani e mostrare al mondo, nel modo più spettacolare, che gli Stati Uniti sono vulnerabili, una “tigre di carta”, nel gergo rivoluzionario. Attraverso questa “propaganda con i fatti” contro l’arroganza americana, le forze della jihad pensano di unificarsi e di imporre al resto del mondo islamico la loro rivoluzione.
L’ayatollah Khomeini era uno “stalinista”, nel senso che pensava si dovesse consolidare la rivoluzione in un solo, importante paese, l’Iran, prima di esportarla altrove. Bin Laden, al contrario, è un “trockista”, che considera l’Afghanistan come una semplice base da cui esportare la rivoluzione nel resto del mondo islamico. Nel movimento islamista esiste una tensione tra “stalinisti” e “trockisti”. Dopo l’11 settembre, questi ultimi appaiono in vantaggio. Al-Qaeda sta mettendo in atto un serio tentativo di innescare una rivoluzione islamista, per rovesciare gli attuali governi dall’Indonesia alla Tunisia. Finora questo tentativo non ha avuto successo.
Dobbiamo attenderci un’intensificazione della “propaganda con i fatti” contro gli Stati Uniti e le installazioni americane, accompagnata da una violenta propaganda antioccidentale. L’Occidente, e non solo quello geografico, dovrebbe rispondere in modo intelligente, opponendo al fanatismo tutta la forza dell’antieroismo borghese e calcolatore. L’impiego di contabili incaricati di sondare i conti bancari fantasma e di agenti in incognito dotati dei mezzi necessari per corrompere i nemici darà alla lunga risultati migliori dell’uso di unità speciali di Rambo pronti ad aprirsi la strada nelle caverne afghane a colpi di mine. Ma se una cosa è chiara in questa sporca guerra, è che non potremo vincerla contrapponendo all’antioccidentalismo una subdola forma di antiorientalismo. Se cedessimo a questa tentazione, vorrebbe dire che il virus ha infettato anche noi.
(Articolo tratto dal sito www.letterainternazionale.it. Traduzione di Stefano Salpietro.)
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