No, non siamo certo in Francia, dove l’anno scorso i due premi letterari più prestigiosi – il Goncourt e il Renaudot – sono stati dati rispettivamente all’afghano Atiq Rahimi e al guineano Tierno Monénembo: a due scrittori insomma – come si dice – “francofoni”, stranieri che hanno adottato la lingua di Voltaire per esprimersi. E non siamo nemmeno in Gran Bretagna – altro ex paese coloniale -, dove alcuni dei più celebrati romanzieri sono si origine indiana, pakistana o caraibica, da Salman Rushdie a Hanif Kureishi a Zadie Smith.
Eppure anche in Italia qualcosa sta succedendo. L’immigrazione non è più soltanto un’emergenza, la cronaca di carrette del mare alla deriva, di scafisti senza scrupoli o di delitti efferati. Anche nel Belpaese – terra di sbarchi e di approdi disperati, ponte di transito verso l’Europa – sta ormai prendendo piede una letteratura meticcia, una narrativa migrante che porta una ventata di novità e di freschezza nelle nostre lettere: una narrativa prodotta da autori stranieri trapiantati in Italia che hanno scelto di scrivere in italiano.
Del resto, i tre milioni e mezzo di immigrati regolari censiti dall’Istat si fanno strada nella nostra vita sociale ed economica, nel commercio, nelle professioni, nell’imprenditoria, dove quasi il 7 per cento delle aziende è gestito da extracomunitari. E adesso anche con la penna scrittori provenienti dal Marocco o dall’Iraq, dall’Albania o dal Brasile vogliono dimostrare che l’immigrato non offre solo braccia per pulire case o construire palazzi. Ma può anche – con quelle mani – consegnarci storie che vengono da lontano, storie di marginalità, di sofferenza, di rivolta, di amicizia, di oppressione che ci aiutano a capire una realtà multietinica che facciamo fatica a capire.
Il fenomeno è in pieno sommovimento. Ed è un fenomeno che parte da lontano, dagli inizi degli anni Novanta, quando Salah Methnani con Immigrato e Nassera Chohra con Volevo diventare bienca tengono a battesimo la stagione della letteratura migrante. Un filo narrativo che in quasi vent’anni non si è mai spezzato. E che, anzi, si è via via irrobustito. Con sempre nuovi autori e nuovi temi d’indagine. Tanto che i romanzi e i rracconti dei “migrant writers” occupano ormai uno spazio crescente nelle nostre librerie. E anche in queste settimane, tra gli scaffali, fanno capolino le storie del bosniaco Silomovic Mesa (Il derviscio e la morte, Baldini e Castoldi) e del brasiliano Julio Monteiro Martins (L’amore scritto, Besa), dell’indiana Laila Wadia (Amiche per la pelle, E/O) e dell’albanese Ornella Vorpsi (La mano che non mordi, Einaudi).
Ma la mappa degli scrittori stranieri che hanno scelto di adottare la lingua italiana è vasta e populata da figure anche molto diverse tra di loro. Con autori che hanno conquistato posizioni di punta, come l’algerino Tahar Lamri (suo è il prezioso e poetico L’amore con l’alfabeto maiuscolo), l’iracheno Younis Tawfik (ormai al terzo romanzo con Bompiani), l’albanese Ron Kubati, l’iraniano Hamid Ziarati o l’altro algerino Amana Lakhous, pluripremiato per suo graffiante e coinvolgente Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. E queste non sono che alcuni voci della letteratura migrante. Perché l’altro aspetto da sottolineare è il forte protagonismo femminile che segna questo fenomeno. Ecco allora la brasiliana Christiana de Caldas Brito e la greca Helene Paraskeva, ed ecco ancora la peruviana Gladys Basagoitia Dazza e la capoverdina Maria de Jesus Lourdes.
Alla vivacità della letteratura delle migrazioni corrisponde un interesse crescente da parte dell’editoria. Già negli anni Novanta immigranti hanno trovato ospitalità sotto i grandi marchi editoriali – Garzanti, Einaudi, Bompiani. Ma oggi c’è un vero e proprio pullulare di case editrici, piccole e combattive, specializzate nella pubblicazione di romanzi e racconti firmati da autori stranieri che vivono e scrivono in Italia: le edizioni dell’Arco, Fara, Besa, Mangrovie, Traccediverse. Non solo: spuntano siti internet e riviste come El Ghibli che raccolgono storie di immigrati. E si moltiplicano i concorsi letterari rivolti ai “migrant writers”, “Lo sguardo dell’altro” a Napoli, “Eks&Tra” a Bologna, “La Biblioteca di babele” a Torino.
Che succede, insomma? Succede che questa “letteratura di guado” – le storie scritte da autori che hanno scelto l’Italia come casa, rifugio, scommessa e sopravvivenza – ci consente di gettare uno sguardo sull’ “altra società”, sugli spazi della marginalità dimenticati che sono in mezzo a noi. Ma è uno sguardo che ci permette anche di capire meglio chi siamo e dove va la nostra identità. Tra le pagine della narrativa della migrazione prendono vita i lunghi percorsi e le scorciatoie di chi emigra in Italia: i lavori di sopravvivenza, la ricerca costante di una svolta, le difficoltà e i momenti traumatici del vivere in una nuova terra. Solitudine e incomprensioni affrontate con amarezza ma anche con l’intelligenza e l’ironia di chi vede il lato assurdo delle cose: perché quasi sempre nelle pagine degli scrittori migranti trovi la risata di cuore o il sorriso teso di chi impara l’arte di arrangiarsi in un Paese che sente sempre più “suo”.
(Tratto da Il Messaggero: Cultura & Spettacolo, Roma, 10 Febbraio 2009)
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