“Universo stai in campana! Sto arrivando!”, era una delle frasi tipiche di Alton Kelley – l’artista che ha contribuito in modo fondamentale a stilare i dettami dell’imagerie psichedelica della Summer of Love – e ci piace immaginare che abbia lasciato il corpo, recentemente a Petaluma, in California, a 67 anni, proprio mentre la pronunciava.
È il 1964, quando Kelley, 24 anni, arriva a San Francisco dal New England, richiamato dalla promessa di una vita da bohémien. È un ex meccanico specializzato in elicotteri, carrozziere, corridore motociclistico, frequentatore della scena hot rods, ed è reduce da un viaggio in Messico. In città l’ondata della beat generation si è quasi spenta, sotto l’azione congiunta di media, turisti e repressione poliziesca. I beatnik superstiti hanno abbandonato il quartiere di North Beach e, con i loro epigoni più giovani, hanno iniziato a colonizzare Haight Ashbury. Il mood è cambiato: alla disperazione/depressione dei beat, appassionati di jazz e cultura afroamericana, alla frenesia carburata da pillole e alcool, ai sogni di ricreare una Rive Gauche esistenzialista sull’Oceano Pacifico, si è sostituita una strana, indefinibile gioia di vivere, una voglia insana di esplorare la parte soleggiata della vita. Piccoli gruppi, all’insaputa gli uni degli altri, stanno sperimentando nuove forme di convivenza, sostanze, linguaggi; ammirano la cultura tribale nativa e prendono maledettamente sul serio la storia della Nuova Frontiera; si considerano pionieri, interessati allo spazio geografico e a quello psichico. Li unisce il rifiuto della modernità, dell’american way of life, del progresso, del Complesso Militare Industriale. Sono patrioti a modo loro, l’America che amano è un luogo immaginario e favoloso, una via di mezzo tra Shangrillà e il Vecchio West. Kelley è parte di questa mutazione antropologica, si unisce a un gruppo bizzarro che, fulminato da A Hard Day’s Night, il film di Richard Lester con i Beatles, ha deciso di trasformare la vita in un party radicale. Loro sono la band Charlatans, il cui dilettantismo musicale è bilanciato da un look impeccabile. Hanno capelli lunghissimi e vanno in giro vestiti come cow-boys cosmici, pistole (vere e cariche) comprese. Kelley, che già si abbiglia in stile Wild Bill Hickock, li segue a Virginia City, ghost town del Nevada, dove il Red Dog Saloon li ha scritturati. Grazie a loro il saloon diviene una zona franca dove si sperimenta uno stile di vita che da lì a poco tracimerà in tutta la California. Acidi e pistolettate, rock’n’roll e scazzottate con i locali, ragazze selvagge vestite come sciantose da saloon e light shows. E poi, novità assoluta, piccoli manifestini, ispirate alle taglie nel Far West, per promuovere gli spettacoli: è Kelley a disegnarli. Tornato a San Francisco, con gli altri membri della sua comune, la “Family Dog”, decide di trasferire in città l’atmosfera del Red Dog Saloon. È convinto che “debba esistere qualcos’altro oltre la forza di gravità capace di tenere insieme l’umanità”. Alton Kelley
Tra i suoi amici ci sono Luria Castell, attivista politica con alle spalle diversi soggiorni a Cuba; James Gurley – futuro membro dei Big Brother & The Holding Company –, uno stuntman innamorato di Coltrane che passa ore chiuso in un armadio a suonare la chitarra, ascoltando con lo stetoscopio attaccato alla cassa acustica; Ellen Harmon, fanatica di albi a fumetti, e Bill Ham, che ha inventato le proiezioni luminose battezzate Light shows, uno degli ingredienti fissi degli happening cittadini. È la Family Dog che il 16 ottobre 1965 organizza una festa da ballo in una sala di proprietà del sindacato portuali, la Longshoremen’s Hall. La serata – che presenta anche un gruppo di folk rock, i Jefferson Airplane – è intitolata Tribute to Doctor Strange, un personaggio dei fumetti Marvel molto amato dagli sballati dell’epoca per il disegno vivace, le sue doti soprannaturali e i suoi poteri mistici usati contro le forze del male. È un evento cardine degli anni sessanta, la comparsa ufficiale sulla scena degli hippies. Gli organizzatori, che si aspettavano qualche amico, si ritrovano davanti migliaia di persone, del tutto simili a loro. Chet Helms, il gentile predicatore hip della comunità, manager refrattario al business, preferisce delle parole che entreranno a far parte della storia controculturale: “Siamo troppi! Non possono blindarci tutti!”.
È il segnale che le tribù della zona si sono incontrate per dar vita a un nuovo rinascimento, all’apice in technicolor della civiltà occidentale. In quel periodo Alton Kelley incontra un artista del Michigan, Stanley Mouse, che su a nord si è fatto un nome disegnando dal vivo, con l’aerografo, mostriciattoli sulle magliette degli appassionati di hot rods, durante le convention. Kelley e Mouse diventano un esplosivo sodalizio, in stretto contatto con i musicisti del luogo, da Janis Joplin ai Grateful Dead. Giorno dopo giorno, si inventano un’altra comunicazione visiva per un nuovo medium indissolubilmente legato alla scena degli happening musicali, il “poster psichedelico”: un manifesto pubblicitario dove non appaiono mai le foto dei musicisti, il testo è illeggibile e i colori sono intollerabili. Per Kelley questi poster sono “la versione ottica della musica rock”, e non è un caso che abbiano visto la luce in una delle rare città americane in cui si camminava ancora, e i pedoni potevano strapparli per portarseli a casa. Kelley e Mouse passano ore in biblioteca a saccheggiare libri di storia, di costume e d’arte. Per quanto patiti delle automobili, decidono una moratoria sull’argomento, lanciandosi in una gara di plagiarismo nostalgico senza alcun timore reverenziale nei confronti dell’Arte. Affermano che le loro non sono opere d’arte ma opere d’amore: considerano le immagini esistenti come le parole di un dizionario, e trovano naturale usarle liberamente per creare nuove storie. Eccezion fatta per l’arte moderna, l’astrattismo, l’action painting e la pop art, formule detestate dal movimento, tutto il resto è terreno di caccia aperto: luoghi di aziende, illustrazioni vittoriane, fermi-immagini di film classici, i cartoons di Disney, le donnine di Mucha e di Von Stuck, le foto dei nativi americani di Curtis, i simboli Navajo, avanzi di spinelli e lastre radiologiche.
Tra le opere più famose, quelle realizzate per i Grateful Dead, come lo scheletro rubato da una versione vittoriana del Rubaiyat di Omar Khayam. Tra il ’65 e il ’68 hanno prodotto centinaia di soggetti, sia per locali mitici come il Fillmore e l’Avalon, sia per le copertine degli album dei maggiori artisti pop americani e inglesi. Dopo la fase hippie, Kelley ha continuato a lavorare nel mondo della musica e recentemente è tornato a occuparsi di hot rods e automobili fuoriserie, dipingendole ed elaborandole.
(Tratto dal giornale Il manifesto, giugno 2008.)
Matteo Guarnaccia
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