Dopo le innumerevoli ricerche che hanno esplorato il Surrealismo, può sembrare presuntuoso o vano proporre ancora, qui, un discorso a riguardo. In realtà non può che trattarsi di poche e modeste riflessioni intorno ad un giudizio generalizzato che si è consolidato sul rapporto Surrealismo-Romanzo. Quindi, più che una sfida, la mia sarà una timida e timorata formulazione di un dubbio intorno a ciò che il luogo comune della critica potrebbe occultare, o meglio aver lasciato d’impensato.
Gli studi hanno perlopiù considerato il romanzo, nell’ambito del Surrealismo, come un genere condannato, cui era rifiutato il diritto di cittadinanza letteraria. Inconfessabile in seno al gruppo, il romanzo era frequentato furtivamente, nella clandestinità, oppure come messa in opera di meccanismi destinati, nel corso del loro funzionamento, ad eludere il romanzesco. Assolutizzare questa posizione significa ignorare la forza delle critiche che da sempre sono state condotte contro il romanzo e che in fondo ne costituiscono l’humus. L’immaginario romanzesco non esiste che per essere contestato. Diderot, Sterne, Fielding e Crevel: stesso testo e progetto comparabile.
Forse non si è indagato abbastanza il movimento della scrittura che non è soltanto lutto, ma desiderio, strumento euristico. Voglio dire che i testi narrativi del Surrealismo erano stati scritti per passione, fosse anche la passione del bricolage. Certo il carattere irriducibile e solenne della critica al romanzo – annunciata con vigore da André Breton in formule imperative dal ritmo magico – ha, per molto tempo, velato un’evidenza che non deve tuttavia cancellare il rovesciamento di prospettive operato dal Surrealismo stesso. Tale critica si colloca anche nel corso di un lungo dibattito – un dibattito che coincide con l’esistenza e la fisiologia del genere nella letteratura occidentale moderna, un dibattito che, come abbiamo detto, sembra esserne la condizione stessa di sopravvivenza.
Fin dal Don Chisciotte, la contestazione innerva il corso stesso del racconto che mette in derisione l’Amadigi. Insomma il presumibile primo romanzo moderno è un romanzo contro il romanzesco. In Francia – basti ricordare Le berger extravagant di Charles Sorel (1627) e precipitare incontro a Diderot, attraverso tutta la critica cinica del XVII secolo – il romanzo si scrive contro i procedimenti del romanzo. Pare insomma che non si possa essere onesti romanzieri se non si prova disgusto per il romanzesco. Non si riesce a parlare di romanzo senza ricorrere ad astuzie che non suonino ancora come ingiurie.
Dopo il Romanticismo, in cui si agita l’interrogazione intorno allo statuto del genere sullo sfondo di una concezione essenzialista dei generi letterari ma anche sul ruolo sociale del romanzo, fino alla scepsi del ’900, non c’è scuola che non abbia creduto di costituirsi contro ogni forma di verbalismo e di artificio, ma ciascuna mette tutto il suo impegno a trovare per prima cosa un argomento: lo spirito, l’uomo, la società, l’inconscio, che le scuole precedenti le sembrano essersi proposte di occultare dietro le parole. Non solo la critica è dell’ordine formale e del genere, ma anche dell’ordine etico, come denuncia della cattiva coscienza narrativa.
E tuttavia è la contestazione, tanto quella etica quanto quella intellettualistica, a sollecitarne l’esercizio, a nutrire la pratica o meglio le pratiche di scrittura. Anzi queste ambiguità sono affascinanti. Lo humour stendhaliano, la forza creatrice dell’epoca di Balzac, lo spirito grave del Naturalismo hanno un po’ velato la questione, non per molto; essa è risorta come un’enorme onda all’indomani del Naturalismo e l’attacco surrealista è apparso come l’ultimo radicale assalto.
Prima degli anni venti non si era ancora in grado di riconoscere all’immaginario uno statuto di estraneità, che lo ponesse al riparo da una sua classificazione dalla parte del falso o dalla parte del vero. Prima della riflessione di Sartre, il Surrealismo imporrà l’idea di un immaginario tanto più scandaloso quanto più presentato incline verso la parte del vero, cioè un immaginario che deve alludere, o preludere, al cammino di certa verità dell’uomo. Forse, ma è un’ipotesi, la narrazione surrealista è il luogo privilegiato di questa esperienza.
La complessità della questione può essere analizzata da due punti di vista (teorico e pratico) che nel movimento si giustappongono, talora s’intrecciano, tal’altra si oppongono. È altresì legata alla diversità e alla dinamica del gruppo.
Notoriamente, è nel primo Manifesto (1924) che Breton mette apertamente sotto accusa la validità del genere romanzo e mescola la questione del valore con quella della definizione. Va comunque detto che la questione, prima che la disillusione della scrittura automatica avesse cominciato a farsi sentire, si era posta come l’inverso della speranza riposta in essa. Questa crisi si può far partire, in maniera dapprima larvata poi sempre più manifesta, dal 1922 (nel n. 1 di Littérature, marzo 1922, appare la conversazione con Gide, firmata da Breton: André Gide nous parle de ses morceaux choisis). Ciò che rende sospetto il romanzo è l’inserimento sociale che questa attività letteraria permette al suo autore, inserimento più facile di chi scrive poesia, anche della più classica.
Ora, confondere essenzialmente l’esclusione del romanzo con la definizione del Surrealismo sarebbe forse eccessivo. Per quanto radicale e dogmatica sia la formulazione di Breton, essa deve essere collocata nel contesto che è quello del momento in cui il Surrealismo sta costruendosi.
Sarebbe interessante approfondire i meccanismi che, in seno al Movimento che si sta fondando, motivano la diatriba contro il romanzo, qual è stata lanciata da Breton, e le conseguenze che ne hanno desunto i membri del gruppo quando si è trattato di praticare la prosa narrativa. Benché non si possano mettere in discussione la crisi e i limiti del Romanzo, conteso e lacerato tra due polarità, (quella del merveilleux e quella della massima lucidità, dell’entusiasmo e del sarcasmo), credo che occorra riconoscere all’avanguardia surrealista l’aver sottolineato la necessità di prendere atto che non si ha più diritto di lasciare il romanzo nel conforto di una natura aristotelica. Tale atteggiamento sposta il dibattito dalla questione del genere all’eventualità di forme di disposizioni romanzesche e presso l’autore e presso il lettore.
Bastano, per metterci in guardia dalla condanna del 1924, alcuni elementi molto divergenti presenti nell’opera stessa di Breton: per esempio la scrittura di Nadja (1927); ma anche nell’ambito del Manifesto stesso sono riservati spazi ad autori come Apollinaire (Alcools), Sade, Chateaubriand, Benjamin Constant, Aloysius Bertrand, Alfred Jarry, ecc. Si dovrebbe poi aggiungere un’osservazione suscitata dalla lettura del Secondo Manifesto (1929), in cui sono esposti rapidamente, ma intensamente, alcuni procedimenti di «puro disincanto» che, applicati al romanzo, permetterebbero di fissare l’attenzione non tanto sul reale o sull’immaginario, ma sul «rovescio del reale». Parallelamente a questa riflessione, Aragon aveva composto Une vague de rêves (“Commerce”, autunno 1924).
E comunque va ricordato che l’attacco di Breton non sembra aver suscitato lo sviluppo di un’elaborazione teoretica originale. D’accordo, se ne possono cogliere echi in Limbour, Leiris, Crevel, Soupault, Daumal e qualche altro. Piuttosto, sarà soltanto dopo il 1930 che si trovano spunti teoretici originali in autori che hanno abbondato Breton: penso al testo di Tzara: Rêve expérimental (1933), come pure alla riflessione indipendente, posteriore al 1931 di Queneau, il quale si era nutrito del contatto col gruppo fin dal 1923. Inoltre, la critica di Breton, nodo isolabile nella storia del gruppo, deve però essere accostata a quelle che alla sua epoca, non cessano di attaccare il romanzo. Sono le critiche che si accendono all’interno di un dibattito apparso all’indomani del Naturalismo e alimentate dal Simbolismo trionfante.
Realismo, Surrealismo – suggerisce Jean Paulhan – sono nella stessa barca. L’uno e l’altro mettono in codice un curioso sistema di alibi. Semplicemente, nel primo caso, lo scrittore scompare di fronte al documento umano; nel secondo, di fronte al documento sovrumano. Uno scorcio di vita, come uno squarcio di sogno autorizzano lo scrittore a dire: «Io non c’ero». L’argomento comune sarebbe all’incirca: «L’autore precisa che, malgrado l’apparenza, non è un autore».
Alla relativa povertà degli anni 1890-1920, di cui parla Michel Raimond (La crise du roman, des lendemains du naturalisme aux années 20, Corti, 1966), succede un periodo febbrile d’inflazione (un indizio eloquente è fornito dalla miriade di premi letterari che vengono istituiti). Dal disprezzo del romanzo si passa al processo. Il dibattito tra il 1924 e il 1925 esiste dunque. Aragon, nella prefazione a Libertinage (1924) attacca i simboli della cultura: Anatole France, Paul Bourget, Alphonse Daudet, fra molti altri.
Breton, nel Manifesto, opponendo l’atteggiamento realista alla potenza immaginativa dichiara: «L’attitude réaliste, inspirée du positivisme, de saint Thomas à Anatole France, m’a bien l’air hostile à tout essor intellectuel et moral. … Je l’ai en horreur car elle est faite de médiocrité, de haine et de plate suffisance. C’est elle qui engendre aujourd’hui ces livres ridicules, ces pièces insultantes. … Elle flatte l’opinion dans ses goûts les plus bas». Il suo disprezzo nei confronti della facilità e dell’arbitrarietà del genere è in linea con il giudizio implicito di Mallarmé e quello esplicito di Valéry, anche se pubblicati più tardi. Scrive Valery in Rhumbs, (“Tel quel”, 1926): «Quelle confusion d’idées cachent des locutions comme ‘roman psichologique’, ‘vérité de ce caractère’, ‘analyse’, etc. – Pourquoi ne pas parler du système nerveux de la Joconde et du foie de la Venus de Milo».
La critica surrealista rimprovera al romanzo di presentare la copia resa insipida di una realtà umana che occorrerebbe volere e osare cambiare. La realtà, nel senso sociale del termine. Il romanzo, sempre secondo Breton, trasforma «en échecs» il gioco delle relazioni umane.
È possibile cogliere, su un altro piano, una analogia con la proposta che troviamo in Les Faux-Monnayeurs (1925), anche se Gide sceglierà un’altra strada; la proposta è quella di «dépouiller le roman de tous les éléments qui n’appartiennent pas spécifiquement au roman», «de même que la photographie, naguère, débarrassa la peinture du souci de certaines exactitudes». Attraverso questo testo, Gide potrebbe aver suggerito per analogia a Breton di sostituire la descrizione con la fotografia, come nel caso di Nadja. Voglio dire che la critica del Surrealismo al romanzo non è l’unica voce del dibattito.
Non solo, ma un’analisi più approfondita potrebbe mettere in luce che il romanzo non è solo escluso da Breton come capro espiatorio del peccato della letteratura, ma che esso è il luogo di una discussione costante, in quanto comporta la questione del giudizio di realtà e del giudizio di possibilità, entrambe al centro della ricerca surrealista.
Come rendere reale il possibile, il sogno, l’inaudito? Breton propone l’insorgenza di un pensiero della partecipazione o magico, rivendicando un modello propriamente interiore, pensando d’invertire il principio di realismo che fonda l’arte occidentale. Nel testo stesso in cui esclude il romanzo, egli libera la nozione di immaginazione sensibile: invenzione del sogno, invenzione del meraviglioso. Ed è qui che nell’applicazione possibile al romanzo – «le sens de l’éventuel» – (penso all’arbitrarietà e alla produttività degli incipit in Aragon) si aprono al Surrealismo due tendenze: una sensibile, quella del caso oggettivo e della stupefazione; l’altra astratta, più erotica, quella dell’arbitrarietà del linguaggio e del gioco dei significanti (più strettamente avanguardistica). In realtà, queste due tendenze sono in una costante comunicazione e interferenza.
Da ultimo, la prosa narrativa esiste. Da sola rivela l’ambiguità del progetto surrealista. Nel senso che i giochi contro il romanzesco sono i giochi stessi del romanzo. L’esercizio automatico e il racconto onirico. Per esempio Aurora di Leiris (romanzo scritto nel 1927 e pubblicato da Gallimard nel 1946) e Deuil pour deuil di Desnos (Kra, 1924).
Nell’ambiguità dell’altrove immaginario posto dalle prose narrative si fonda la diversità dei surrealisti. Il testo narrativo si erge a pulpito, modulando la propria enunciazione con pagine che sono teoriche o polemiche (pamphlet, manifesti) o politiche, o erotiche.
Insomma, le finzioni surrealiste diventano vere tribune dall’alto delle quali l’autore dispensa un sapere o proclama un credo. La liberazione dell’intelligenza, la necessità di un erotismo audace, la ricerca di un nuovo immaginario trovano delle definizioni che ci appaiono tanto più impressionanti quanto più circoscrivono illustrazioni spontaneamente fornite dai testi, che presentano personaggi liberi e audaci.
Il racconto dell’insolito e la trascrizione del caso oggettivo rappresentano un’altra funzione del testo narrativo. D’altra parte, la cattiva coscienza a narrare insorge essa stessa nel corso del testo e delle sue procedure da tempo utilizzate dai romanzieri. L’atteggiamento di diniego può essere letto anche come un sistema di alibi. Ciò che conta è che tale rifiuto è stato tutt’altro che paralizzante. Il romanzo, più che mai, si è trovato ad essere una retorica in azione. Ha preteso di cessare di raccontare delle storie per mostrarci che era ben più libero di raccontarne, e come e perché era ben più libero.
Così Ulysse di Joyce è un romanzo ed è una teoria del romanzo, Les Faux-Monnayeurs è un romanzo, ma ancor più una riflessione sui legami tra il romanzo e l’opera dello stesso Gide; Le Très-Haut di Blanchot (1948) sarà romanzo, ma principalmente un saggio sul silenzio e la parola, già Joë Bousquet aveva pubblicato Traduit du silence (1941).
Il Surrealismo, con tutte le sue contraddizioni, è stato un tentativo per reintrodurre il sacro nel linguaggio, suscitando la parte oscura e inconoscibile dell’essere, assecondando quella naturale resistenza che il linguaggio oppone alla parola scambiata. Per ascoltare un testo la cui violenza ricordi quella di Breton, occorre attendere il 1950 con La Littérature à l’estomac in cui Julien Gracq critica gli usi e i costumi del mondo letterario; ma parallelamente a queste critiche si sono aperte nuove vie per il romanzo nei riflessi del quale si può riconoscere il Surrealismo: non romanzi del merveilleux, ma modelli mitici di partecipazione al sacro – quel sacro che i trent’anni passati dal 1920 hanno contribuito a far percepire in una dimensione più sociologica.
La divergenza profonda tra Breton e Aragon sul Romanzo deriva forse dalla differenza delle modalità dell’invenzione: connivenza degli intenti, incomprensione dei mezzi. Quando Breton propone delle invenzioni collettive arbitrarie suggerisce dei procedimenti di ordine metonimico, ma la sua ricerca è tesa verso la metafora, da lui rilanciata ogni volta nella scrittura automatica. Aragon, al quale sono dati gli incipit in un processo metaforico, cerca di svilupparli attraverso modulazioni metonimiche.
Il Surrealismo rende più costantemente omaggio ai moralisti del XVIII secolo, e, attraverso di essi, alla libertà di un erotismo che ha potuto condurre fino alla rivolta in tutti i sensi di Sade. Occorre ricordare anche la riabilitazione che il Surrealismo compie del romanzo nero inglese, dei narratori di racconti romantici tedeschi.
Certo, ovunque si è riconosciuto una grande passione per le idee e gli uomini che supera, nei surrealisti, una certa indifferenza rispetto alle tecniche narrative e altre.
(Tratto dal sito www.bibliomanie.it, edizione n° 13)
Adriano Marchetti
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