"Di tutto ciò che l'uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello per me dei ponti", diceva Andrić. Le sue parole riecheggiavano nelle mie orecchie sin dai primi passi che feci su quella terra discontinua, i Balcani. Mi diedero il senso del valore dei legami, la forza dì superamento dei vuoti, naturali o imposti. Si fecero osservare con stima quei monumenti silenziosi che impersonavano la comunicazione tra gli opposti. Eguali e indiscriminatori, i ponti facevano confluire sulle loro spalle i bisogni di tutti, a prescindere dalla provenienza e dalla meta di destinazione. Trasmettevano la saggezza di chi ci ha preceduti. Offrivano la fiducia nel trascendere i tempi, promettevano di consegnare le memorie a coloro che sarebbero conseguiti bramosi di comprendere, nello stesso modo in cui facevano da maestri a noi.
Capitava che la terra tremasse. Eppure i ponti incutevano la stabilità, retta dal lavoro delle generazioni e degli sforzi immessi nella loro costruzione. Il tempo e il credo investiti nelle loro fondamenta non si lasciavano sconfiggere dai venti iracondi. Le scosse non inquietavano i ponti rigogliosi, sorretti dalle relazioni secolari. Difendevano il potere di costruzione, d'integrità, coloro che mai sono stati "asserviti al segreto o al malvagio".
Le cose peggiorarono. La follia non si placò e un giorno la tempesta di furia nelle terre irrequiete ebbe la meglio. Il ponte di Mostar non poté reggere l'ondata di odio che scorreva sotto le sue curve. Crollò. Nemmeno la fervida immaginazione di Andrić poteva contemplare un risvolto di tale violenza. Quel ponte fu ignaro di aver segnato il destino degli altri. Non sapeva che il crollo dì uno significava il crollo di tutti i ponti. La Drina si spaccò in due. Sussegui la Sava, il Danubio. Le città e la gente rimasero segnati. Cadevano uno dietro l'altro, quei ponti legati da un senso interiore. Era un filo solido a unirli e tenerli puntellati uno sulla forza dell'altro, a risolvere gli attacchi dell'oscurità dei tempi passati in futili tentativi dissolti nella circoscrizione della barbarie. Tuttavia, nelle condizioni non contemplate, la forza si tramutò in debolezza. Il grido di uno chiamò la caduta dell'altro. Ogni luogo fisico e mentale legato ad Altro dal desiderio di riconoscersi, cominciò a perdersi nel susseguirsi dei cedimenti di senso.
I ponti crollati non tacciono. Separano, rimarcano la distanza. Rendono plausibili le incomunicabili differenze. Non pongono le domande, non aprono le questioni, bensi chiedono sangue e vendetta. Allontanano le sponde nello stesso modo in cui una volta le facevano sembrare vicine. Si trasformano in carnefice, raccolti nelle loro macerie di sofferenza.
Non potei stare ferma a contemplare la vista delle voragini dove una volta giacevano i mediatori. I frantumi di senso si disperdevano nelle ferite aperte. Non potei capire l'ostinazione della distruzione. Non potei ascoltare le grida minacciose che emergevano dai passati silenzi rassicuranti. Decisi di agire. Dunque, scappai. In fretta e a meta da destinarsi, con l'unico pensiero guida: ritrovare il senso perduto.
Partì in cerca di un posto che dei ponti se ne intende, che potesse restituirmi certezze. Vagabondai a lungo. Ne incontrai di moltissimi tipi: piccoli, grandi, lunghi, stretti, pericolosi, pendenti, sporgenti, solidi, lignei, di pietra, antichi, nuovi, pomposi, timidi, brutalmente imponenti. fini, eleganti, spenti, ad arcata, illuminati, spigolosi, nascosti, orgogliosi, vasti, corti, neri, grigi, grezzi, raffinati, colorati. Per quanto diversi, utilizzati o in disuso, esprimevano una sensazione comune: I'esclusività. Erano unici e insostituibili. Ovunque fossero stati eretti sono stati pensati, meditati, studiati a lungo, hanno reso il vanto delle generazioni a venire. E loro li hanno accuratamente preservati, come se fossero i ponti a caratterizzare i luoghi degli uomini e non viceversa. Esprimevano convincimenti, davano il senso al bisogno di comunicare, di unire, di trasmettere, di toccare. Ma io conoscevo la debolezza del filo e non era facile liberarsene. Volevo qualche cosa di più.
Continuai la ricerca. Senza darmi pace li cercavo sempre più lunghi, sempre più stretti, sempre più variati e diversi, come se le loro forme potessero svelarmi il mistero perseguito.
Giunsi a Venezia, la terra dei ponti. Ebbi fin da subito l'impressione che a Venezia avrei trovato la risposta di cui avevo bisogno. Decisi di fermarmi. Volevo stabilirmi sulla sponda di uno dei ponti per poterlo osservare, per poter imparare dalla sua storia, per poter ricostruire i miei ponti, lontano da dove me ne ero andata. A Venezia i ponti erano le storie che raccontavano la storia. Parlavano dei Mori, dei Greci, dei Pugni, degli Armeni, degli Scalzi, dell'Olio, dei Sospiri, della Libertà, di infiniti mondi e pensieri che l'avevano attraversata. Non vi era nulla di univoco, di uguale, eppure i loro anni, le loro trame per quanto diverse c lontane una dall'altra esprimevano un taciturno senso di concordia. Decisi di ripercorrere le strade battute e di attraversarla anch'io pensando e sperando di poter cogliere il segreto del filo di Venezia. Tuttavia, per quanto camminassi, per quanto mi impegnassi non riuscivo ad instaurare la desiderata sintonia. Non trovavo un luogo in cui potessi sentirmi serena, con il suolo sotto i piedi. Cominciava a mancarmi la mia casa. Intuivo che le sponde avessero dei significati, radicati e profondi, ma per me rimanevano velati, incomprensibili. Non coglievo le ragioni dei legami, le scelte di unire alcune sponde e lasciare separate le altre. Facevo fatica ad interiorizzare i passaggi. Le mie domande mi sembravano talmente ovvie da sentirmi di dovere delle spiegazioni nel momento in cui sceglievo uno dei due lati in cui sostare. Questo più che placarmi aumentava la confusione.
Le soste di sollievo le facevo sulle spalle degli amici, in cima dei ponti. Mi fermavo per ritrovare il pensiero, per riordinare le appartenenze, per osservare da una posizione neutrale la strada dalla quale venivo e dove ero diretta, per ricordarmelo nuovamente di frontiera in frontiera. Quella era la terra di nessuno, di non adesione. Sovrastava il vuoto, demarcava l'invisibile frontiera che nessuno avrebbe potuto superare se non ci fosse la benefica presenza. Tuttavia, non si poteva sostare a lungo. A Venezia vigeva una legge singolare "non soffermarsi sui ponti, in quanto i luoghi di passaggio". La legge dello scorrimento di traffico per me dettava e imponeva un modo di essere. "Cammina, attraversa, non sostare, il tuo rallentamento potrebbe bloccare gli altri: continua a cercare." F. mentre mi costringevo a far susseguire un passo dopo l'altro, nello scorrere la sensazione di confusione cominciava a trasformarsi in armonia.
Posizione ed opposizione, la lotta tra l'eterno e l'insaziabile desiderio di unire, di rappacificare, di collegare, di parificare e l'irrefrenabile impulso ad allontanare, a scomporre, a rimuovere, a dominare. La misurazione tra le due forze offre l'unica soluzione di continuità. L'alternanza induce a risvolti curiosi, di cui ci rendiamo attori, i responsabili diretti, per quanto i principi possano trascendere l'agire dell'individuo. I luoghi vuoti, le frontiere di separazione tramutavano in alti e bassi i vissuti dell'animo umano, trascesi da un attimo all'altro per riproporsi ancora e di continuo. E i ponti si sciolsero. Improvvisamente si sminuì la loro centralità. Invece di ritrovarli compresi la possibilità di dissolverli. I miei ponti distrutti cessarono di gridare. I ponti decostruiti, ricostruiti liberarono l'enigma, distolsero l'attenzione dal loro protagonismo. Ed era tutto li, nella semplicità di uscire dalla scena. Lasciarono lo spazio alle sponde comunicanti. Parve limpido un pensiero latente: a prescindere dall'esistenza fisica, dall'intermediario o dalla terza parte, una sponda non può esistere senza la sua controparte, l'io rimarrebbe senza la possibilità di riconoscersi in assenza dell'altro. Spontaneamente la mente cominciò a ricomporre e a tessere un filo nuovo, ricordando ancora le parole di Andrić slegate dalle dipendenze e chiare nella loro verità in cui "tutto tende verso l'altra sponda, come verso una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso".
(Articolo tratto dalla raccolta Migrazioni e paesaggi urbani, a cura di Melita Ridhter Malabotta, CACIT Editore, Trieste, 2008.)
Vesna Jaric, nata a Belgrado nel 1978. Arrivata a Venezia nel 1998 dove si è laureata in Lingue e civiltà orientali all'Università Ca' Foscari e dove ha lavorato attivamente come mediatrice linguistico culturale e sulla costruzione del dialogo interculturale. Ha scritto due manuali sulla mediazione culturale, elaborando l'esperienza operativa nei modelli trasferibili in diverse realtà. Scrive brevi racconti di cui uno é stato
premiato al concorso "Pordenonelegge.it" nel 2003. Dopo quasi dieci anni passati in Italia verso la fine del 2007 è tornata a città natale, dove lavora come giornalista, collabora con diverse realtà del terzo settore e segue gli studi di postlaurea in Relazioni internazionali presso l'Università dì Belgrado.
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