La Lavagna Del Sabato 16 Maggio 2009


LE OMBRE, AMICI E PARENTI

Joe Lansdale





Vennero da me per la prima volta una notte buia, diversi mesi fa, una notte senza neve e senza pioggia e senza freddo, ma una notte scura senza nuvole e con l’aria un bel po’ calda, una notte davvero umida, appiccicosa come un paio di mutande sporche. Mi svegliai e mi misi a sedere sul letto, e dalla finestra filtrava la debole luce che proveniva dal cortile. Mi voltai a guardare mia moglie, sdraiata accanto a me, con i capelli biondissimi che con quel chiarore sembravano d’argento. La guardai a lungo, poi mi alzai e andai in salotto. Il nostro cagnolino, che dormiva sempre vicino alla porta di casa, mi si avvicinò e mi annusò, e io mi chinai per fargli due carezze. Rimase lì a farsi coccolare per un minuto, poi cercò di nuovo la sua cuccia accanto alla porta e si sdraiò.
Alla fine spensi la luce esterna e uscii sulla veranda. In mutande. Nessuno poteva vedermi, non con tutti quegli alberi, e anche se qualcuno mi avesse visto non me ne fregava niente. Mi misi a sedere sulla sedia girevole e fissai la notte, e pensai al lavoro che non avevo e al fatto che mia moglie si era messa a parlare di divorzio, e che ai miei suoceri non piaceva che vivessimo insieme a loro, e pensai anche che ogni volta che facevo una cosa fallivo, e in modo drammatico. Mi sentivo strano, vuoto e perso.
Mentre osservavo la notte, il buio si lacerò e una parte di esso risalì fino alla veranda a passi pesanti, pieni di tutte le ombre del mondo.
Ero spaventato, ma non mi mossi. Non riuscivo a muovermi. L’ombra, che sembrava una forma umana ricoperta di catrame, arrancò pesantemente lungo la veranda e si piantò davanti a me, guardandomi dall’alto in basso. Quando alzai gli occhi, tremante, vidi che non c’era una faccia, ma solo oscurità densa come un budino di cioccolata. Si chinò verso di me e appoggiò delle cose a forma di mani sui lati della sedia e avvicinò al mio il suo volto senza faccia, mi alitò addosso: un respiro caldo e smorto che mi fece sentire male.
«Sei quasi uno di noi» disse, poi si voltò e si allontanò lentamente lungo la veranda e giù per i gradini, fino a scomparire fra le ombre. Il buio, compatto come un muro, si diradò e si divise, e assorbì il mio visitatore; poi le ombre frusciarono via in tutte le direzioni come pipistrelli allarmati. Sentii un suono, come uno scricchiolio di foglie secche in mezzo agli alberi.
Mio Dio, pensai. Ce n’erano a frotte.
Là fuori.
Che aspettavano.
Che vigilavano.
Ombre.
E una di loro mi aveva parlato.

Ricordo tutto questo mentre siedo nella poltrona e fuori infuria la tormenta, soffiando neve e facendo turbinare piccoli mulinelli d’acqua che poi si congelano uno dopo l’altro. Ricordo tutto questo mentre protendo di nuovo la mano per guardarla.
Le ombre fra le mie dita non sono più sbiadite.
Sono scure.
Hanno una relazione con la carne.
Sono me.

Chi sono le ombre?
Sono tutti coloro che sono come me.
Sono la congrega degli inutili. Quelli senza faccia. I falliti.
La gente vuota e triste che vaga per la vita e ti passa accanto e non riceve mai nemmeno un’occhiata; nullità come me, che vivono dentro la propria testa e immaginano di vincere alla lotteria e di avere successo con le ragazze e fiducia in sé stessi. E invece camminiamo a testa bassa, siamo calvi e arrabbiati, teniamo le mani in tasca, e non stringiamo soldi, ma le nostre palle flosce.
La vita vera è un affare faticoso.
Nessuno, se non un altro perdente come me, può capirlo.
A parte le ombre, perché sono quelli come me. Sono i perdenti e i perduti, e capiscono e non giudicano mai.
Sono fatti della mia stessa carne o, per essere più precisi, io sono fatto della loro stessa ombra. Mi accettano per quello che sono.
Sanno ciò che si deve fare e gradualmente me lo rivelano.
Le ombre
. Sono uno di loro.
Be’, quasi.

Mia moglie, i miei suoceri, ogni essere umano che si muove su questa terra, tutti mi sottovalutano.
Ci sono delle cose che so fare.
So fare i giochi al computer e so anche vincere. Ho creato i miei personaggi. Sono diversi dagli umani. Sono migliori degli umani. Sono il potenziale che c’è dentro di me e che non io sarò mai. Oh, so fare anche certe altre cose. Non ho citato tutte le cose che so fare bene. A dispetto di quello che la mia famiglia pensa di me. So fare un bel po’ di cose che loro non apprezzano, e invece dovrebbero.
So fare un ottimo frappè di latte e cioccolato.
Mia moglie lo sa e, volendo, potrebbe ammetterlo. Prima lo diceva. Adesso non più. Si è chiusa a me. Dall’interno. Dall’esterno.
Ha chiuso ogni portello. Dentro e fuori.
In basso. Nella sua piccola, bella navicella, quel portello è sigillato, chiuso a chiave.
Ma c’è un’altra cosa che so fare bene.
So usare un fucile.
Me l’ha insegnato mio padre, fra una sberla e l’altra. Era l’unico momento in cui stavamo bene insieme. Quando stringevamo un fucile fra le mani.

In cantina ho un baule.
Dentro il baule ci sono le armi da fuoco.
Un bel po’.
Fucili, doppiette, rivoltelle e pistole automatiche.
Le ho raccolte nel corso degli anni.
Uno dei fucili appartiene a mio suocero.
C’è anche una quantità di munizioni.
A volte, nel corso della giornata, se non riesco a dormire, quando mia moglie è al lavoro e i miei suoceri si godono la pensione giocando a golf, mi metto a sedere, pulisco le armi, le carico, poi le risistemo nel baule. Lo faccio con cura, lentamente, come i preliminari di un rapporto sessuale. E quando ho finito le mie mani puzzano di olio lubrificante. Me le strofino sulla faccia e sotto il naso, e l’olio ha un odore che somiglia un po’ a una specie di muschio.
Ma adesso, con il ghiaccio e il freddo e il buio, con noi congelati qui dentro e senza un posto in cui andare, le pulisco di notte. Non durante il giorno, quando loro non ci sono.
Le pulisco di notte.
Al buio.
Dopo essermi incontrato con le ombre.
I miei amici.
Tutti quelli scuri, radunati da ogni parte del mondo, passati e presenti. Radunati nel mio cortile – nel cortile dei miei suoceri – ad aspettarmi. Ad aspettare che diventi uno di loro, che mi unisca a loro.
L’unico circolo che mi abbia mai voluto.

Ce ne sono molte, di quelle ombre, e adesso so chi sono. Lo so dal giorno in cui ho preso il nastro isolante per idraulici e me ne sono servito per sigillare le porte della camera da letto di mia moglie e quella dei miei suoceri.
Il cane è con mia moglie.
Non riesco più a dormire nel nostro letto.
Mia moglie, come gli altri, ha cominciato a puzzare.
Il nastro tiene dentro un po’ della puzza.
Verso dell’acqua di colonia su tutto il tappeto.
Funziona.
Un po’.

Com’è successo. Ve lo riassumo.
Una notte sono uscito e mi sono messo a sedere, e le ombre sono venute sulla veranda così numerose che intorno a me e dentro di me c’era solo il buio, e io ero diciamo un po’ spaventato, ma in qualche modo felice, sprofondato in un grosso sacco nero, tenuto da mani che mi amavano.
Eppure, nello stesso tempo, ero libero.
Li sentivo che mi toccavano, che mi respiravano addosso. E seppi allora che era giunto il momento.

Giù in cantina aprii il baule e presi un’arma ben oliata, un fucile da caccia. Risalii su e feci tutto in modo rapido. Prima mia moglie. Non si svegliò mai. Sotto la sua testa, sul cuscino, alla luce della luna, si allargava un fiore del colore dell’olio lubrificante.
Mio suocero sentì lo sparo e lo incrociai davanti alla porta del bagno. Un colpo solo. Poi un altro per mia suocera che se ne stava seduta sul letto con la faccia nascosta nell’ombra… ma un’ombra diversa. Non una delle mie ombre amiche, ma un’ombra fatta semplicemente di assenza di luce, e non di assenza di essere.
Il cane mi morse.
Immagino che fosse per via del rumore.
Sparai anche al cane.
Non volevo che si sentisse solo.
Chi si sarebbe preso cura di lui?

Trascinai mio suocero fino a letto, vicino a sua moglie, e gli tirai su le coperte fino al mento. Anche mia moglie ha le coperte belle rimboccate a coprirle la faccia. Le ho messo vicino il cagnolino, Constance.
Quanto tempo era che non facevo più un’opera buona?
Non me lo ricordo.
Stranamente ripenso a mio suocero. Portava sempre il cappello. Gli sembrava strano che gli uomini non lo portassero più. Era cresciuto in un periodo, gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui gli uomini portavano il cappello.
Me lo aveva detto un sacco di volte.
Lui portava il cappello. Gli uomini portavano il cappello, e per lui era strano che non lo facessero più, e pensava che gli uomini senza cappello fossero mezzi uomini.
Allora mi guardava. Non avevo il cappello. Mi squadrava da cima a piedi. Ai suoi occhi non solo ero senza cappello, ero un mezzo uomo.
Mezzo uomo?
Che modo di dire.
Il vento ulula e la notte è luminosa e le ombre si agitano, e la luna offre loro un po’ di chiarore per danzare.
Sono molti e io sono uno, e sono quasi uno di loro.

Strano, ma durante la notte il ghiaccio ha cominciato a scivolare via e tutto il bianco se n’è andato, e l’aria, anche se pungente, non era tanto fredda, e le ombre si sono raccolte sul tappetino di benvenuto e adesso sono scivolate dentro come buste sospinte da sotto la porta. Si uniscono a me.
Mi consolano.
Pulisco le mie armi.

È notte fonda, o prima mattina, a seconda di come la si considera. Ma le armi sono bene oliate e non c’è più ghiaccio. Adesso la notte è chiara come la mia mente.
Porto il baule su per le scale e lo trascino lungo la veranda, fino al pick-up. È pesante, ma riesco a caricarlo sul pianale posteriore. Poi mi ricordo che in garage c’è un carrello. Il carrello di mio suocero.
«Questo fottuto carrello può trasportare tutto» diceva sempre. «Tutto.»
Prendo il carrello, lo carico, aggiungo qualche attrezzo che trovo in garage e parto.

Non ce l’ho fatta a entrare all’università.
Non sono riuscito a superare il test.
Dovrei essere in gamba.
Quando ero piccolo mia madre mi diceva che ero un genio.
C’erano stati dei test.
Ma sembrava che non riuscissi a portare a termine niente.
Non ho nemmeno finito il liceo. Alla fine ho strappato un diploma generico. Non ho avuto un gran voto nemmeno lì, ma sono passato. Per un pelo.
Che razza di genio sono?
Poi sono riuscito a iscrivermi all’università. Quattro anni dopo tutti gli altri.
Ma non ce l’ho fatta. Non riuscivo a tenere niente in testa. Rimaneva tutto intasato dentro, come se ci avessero cacciato a forza un kleenex.
Il mio insegnante di storia mi disse: «Figliolo, forse è il caso che tu prenda in considerazione l’idea di trovarti un lavoro.»

Guido lungo il campus. La mia mente è chiara come la notte. La torre dell’orologio si staglia nitida nell’oscurità, illuminata in cima e tutt’intorno. Un fallo gigante che prende a pugni la luna.

È facile arrivare fino alla torre e scaricare dal carrello il baule con le armi.
Mio suocero aveva ragione.
Questo carrello è straordinario.
E la mia testa è così chiara. Niente kleenex.
E le ombre, compatte e numerose, sono con me.

Mi tiro dietro il carrello, e con il piede di porco (uno dei tanti attrezzi del garage) infilato nella cintura punto verso la torre. Indosso una tuta da lavoro. Grigia. Una divisa da operaio. Per un po’ di tempo mi hanno assunto nella portineria del campus. Il mio tentativo di trovarmi un lavoro. Mi hanno licenziato perché leggevo nella guardiola.
Ma mi è rimasta la tuta.

L’atrio è aperto, ma gli ascensori sono chiusi.
Trascino il carrello su per le scale.
È una faticaccia, uno strattone per volta, ma le cinghie del carrello tengono fermo il baule e sento le armi che sbatacchiano dentro, quasi volessero uscire.
Quando arrivo in cima sudo come una fontana e mi sento fiacco. Non ho idea di quanto ci sia voluto, ma certo un bel po’ di tempo. Le ombre sono state con me, mi hanno incoraggiato. Grazie, dico loro.

La porta in cima alla torre dell’orologio è chiusa.
Tiro fuori il ferro del mestiere. Il piede di porco. Mi metto al lavoro.
È facile.
Oltrepassata la porta, appoggio il carrello dal basso contro la maniglia e la blocco. Ci vorrà un bel po’ per liberarla.

Dentro la torre c’è un’altra rampa di scale.
Devo trascinarmi dietro il baule con le armi.
Un lavoraccio. La cinghia che uso come maniglia si spezza e il baule precipita.
Lo riporto su.
Per poco penso di non farcela. Quel baule pesa un accidente. È pieno di fucili e pistole. E di tante belle munizioni.

Finalmente arrivo in cima, facendo forza con le spalle e con le gambe.
La porta sul terrazzino che gira tutt’intorno alla torre non è chiusa.
Mollo il baule, esco fuori e faccio tutto il giro, guardando giù le cose minuscole.
Fra un po’ giungerà la luce, e anche le persone.
Mi volto per dare un’occhiata alle gigantesche lancette dell’orologio. Le quattro.
Spero che il tempo non scivoli via. Non voglio ritrovarmi a casa accanto alla finestra, a guardare fuori.
Le ombre.
Svolazzano.
Si agitano.
Il terrazzino ne è pieno. Si accalcano, e sono tante quanti sono gli smarriti del mondo. Tante quanti sono i disperati del mondo. Tante, e fitte, sempre più fitte. E ancor più lo saranno quando mi unirò a loro.

A un angolo del terrazzino c’è un ottimo punto di osservazione. Dovrei cominciare da lì. Ci piazzo un fucile, quello che ho usato per mettere a dormire la famiglia e il cane.
Piazzo altri fucili tutt’intorno alla torre.
Probabilmente passerò da una postazione all’altra.
Le ombre mi danno dei suggerimenti.
Tutti buoni, naturalmente.
Mi infilo una pistola nella cintura.
Sistemo un fucile da caccia vicino all’ingresso del terrazzino, nascosto dietro l’angolo del muro, in una piccola sporgenza di mattoni ben disposti. Ci sta che è una bellezza.
Per tutta la lunghezza del terrazzino ci sono dei grossi vasi da fiori pieni di felci. Ci ficco dentro le pistole.
Quando ho finito torno a guardare l’orologio.
È passata un’ora.

Di nuovo a casa nella mia poltrona, a guardare fuori la notte che muore. Di nuovo a casa in poltrona, con l’odore della mia famiglia che sta diventando familiare come quello di una camicia portata da troppi giorni.
Come quello che ho addosso. Come il cappotto pesante che porto.
Guardo fuori dalla finestra e non è la finestra, ma la piccola feritoia nel muro del terrazzino. Ce ne sono per tutta la lunghezza.
Mi giro a guardare il posto che ho scelto e mi ritrovo a guardare dalla finestra di casa, e mentre guardo la finestra si fonde e così anche la casa.
L’odore.
Quello non se ne va insieme alla finestra e alla casa.
L’odore rimane con me.
Le ombre sono fin troppo vicine. Ne sono quasi soffocato. Respiro a fatica.

La luce esplode sulla sommità della torre e ricade giù sugli alberi del campus e corre lungo il terreno come miele caldo appena versato.
Mi rannicchio nel cappotto, lo stringo forte. Fa molto freddo. Quasi non mi sento le gambe.

Mi alzo e faccio due volte il giro del terrazzino, controllando tutte le armi.
Ben oliate. Ben cariche.
Tutte piene di annunci di piombo caldo.
Telegramma: sei morto.

Tornato alla mia postazione, quella da cui comincerò, vedo dei movimenti. Il giorno è iniziato. Infilo il fucile nella feritoia dentro il muro e inquadro un tizio alto che sta attraversando il campus. Potrei colpirlo facilmente.
Ma non lo faccio.
Aspetta, dicono le ombre. Aspetta che il piccolo mondo là sotto sia affollato.

Le lancette dell’orologio si muovono rumorosamente, producono lo stesso fracasso delle macchine che sento nella testa. Scricchiolano e sferragliano e si muovono.
L’aria si è fatta stranamente tiepida.
Sotto la giacca sento caldo.
Me la tolgo.
Sto sudando.
Il giorno è venuto, ma le ombre sono rimaste con me.
I veri amici sono così. Non ti abbandonano.
È bello avere dei veri amici.
È bello avere con me quelli che mi vogliono bene.
È bello non essere giudicati.
È bello sapere che so cosa fare e che lo sanno anche le ombre, e questo ci conforta tutti.

Il campus è vivo. Le persone scivolano lungo i marciapiedi di cemento come pesciolini in un canale.
Pesciolini dappertutto nei loro eleganti vestiti nuovi, pronti a sostenere i loro esami, a sostenere i loro scritti e a incontrarsi, in modo da potersi fare una bella scopata. Tutti con un futuro. Ma io sono la macchina che ruba il futuro.

Mi ricordo che una volta, quando ero bambino, andavo a pesca con le esche vive. Infilavo i pesciolini negli ami e li gettavo nell’acqua. Alla fine della giornata non avevo preso nulla. E avevo violato il codice del pescatore. Non rimettevo in acqua i pesciolini rimasti per dar loro la libertà. Li lasciavo a terra.
E li calpestavo.
Ero io ad avere il controllo.

Una bella ragazza, forse sui diciott’anni, alta quanto una modella, che cammina come se fosse un sogno, sta attraversando il campus. La luce le colpisce i capelli, che sembrano molto biondi, come quelli di mia moglie.
La inquadro nel mirino.
Le ombre si accalcano. Bisbigliano. Toccano. Mi mostrano i loro volti.
Adesso hanno dei volti.
Volti semplici.
Come il mio.
Faccio scorrere l’occhio per tutta la lunghezza della canna.
Senza che me ne renda davvero conto, il fucile emette un rumore secco nella luce del mattino. La ragazza cade a terra in un’esplosione di qualcosa che sembra marmellata di prugne.
I pesciolini si agitano. I pesciolini scappano.
Ma ce ne sono tanti, e sono tutti in preda al panico. Come se qualcuno li avesse gettati a terra a dimenarsi e a rantolare fuori dall’acqua.
Comincio a fare fuoco. Colpo dopo colpo dopo colpo.
Ogni sparo del fucile un rinculo sul ginocchio.
Vanno giù.
Calpestati.
Non porto il cappello, suocero mio, ma non sono affatto un mezzo uomo.

Il giorno avanza, sempre più caldo.
Chi l’avrebbe detto?
Mi sposto da un angolo all’altro della torre.
Ne ho fatti secchi un bel po’.
Sono arrivati gli sbirri.
Ho accoppato anche molti di loro.
Sento dei rumori nella torre.
Credo che siano riusciti a togliere di mezzo il carrello.
La porta del terrazzino si spalanca.
Una donna poliziotto si fa avanti. Il mio primo colpo la coglie alla gola. Ma quasi contemporaneamente spara anche lei. Con una rivoltella. Colpisce vicino a me, dove me ne sto accucciato contro il muro.
Un altro poliziotto entra dalla porta. Faccio fuoco e lo manco.
È la prima volta che fallisco un colpo.
Lui spara. Sento qualcosa di rovente che mi penetra nella spalla.
Mi accorgo che sto scivolando, con la schiena appoggiata al muro. Non riesco a tenere in mano il fucile. Cerco di prendere la pistola dalla cintura, ma non ce la faccio. Il braccio è inerte. L’altro, be’, nemmeno quello risponde. Il colpo mi ha lacerato qualcosa dentro. I fili che muovono le braccia. Questa marionetta non funziona più.
È spuntato un altro poliziotto. Ha un fucile a pompa. Si china su di me. Digrigna i denti e ha gli occhi umidi.
E proprio mentre spara le ombre mi dicono: «Adesso sì che sei uno di noi.»




(Racconto tratto da Repubblica XL, maggio 2008.)


Joe Richard Harold Lansdale (Gladewater, 28 ottobre 1951) č uno scrittore statunitense, autore di romanzi e testi per la televisione, i fumetti e la fantascienza.



 


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