Sono nato sorridente. Me l'hanno rimproverato spesso, come se io c'entrassi qualcosa. Chi è nato in un'isola ha spesso quel sorriso fisso che irrita gli abitanti delle città. Loro vi leggono chissà quale segreto, un'ipocrisia, o il segno di un animo debole, se non proprio di sempliciotto. Quando si nasce da una madre che proviene da un'isola, si sa d'istinto che un giorno bisognerà tirarsene fuori, affrontare gli altri. Si sa anche, giacché tutti si adoprano per farvelo sapere, che l'universo non si riduce a quel perimetro, che non è piccolo, non è buono, e che, attorno a voi, la gente non ha bisogno di voi. Ecco perché le persone che sono cresciute in quella cerchia ristretta, legate a un'isola natale, si costruiscono quanto prima quel falso sorriso che serve loro da corazza. Quando sono uscito dal mio isolamento, dopo quell'orrenda guerra, avevo quel sorriso fisso. I compagni di scuola m'interpellavano: «Perché sorridi sempre?». Altri aggiungevano, come se fosse una spiegazione: «Non sarai un po' negro, te?».
Io non sapevo cosa rispondere. Non sapevo com'ero. Non conoscevo mio padre. Immaginavo che dovesse essere come me, la pelle scura, le labbra carnose, e quel sorriso immobile che non significava niente. In seguito, ho imparato a difendermi. Dicevo: «Non è un sorriso, è un ghigno». Il solo momento in cui il mio sorriso si cancellava era quando un aereo passava bassissimo nel cielo, e il rombo del suo motore mi straziava le orecchie. C'era la guerra. Non c'erano uomini in casa, salvo mio prozio Monsieur Lucien, ma non ero sicuro che fosse davvero un uomo. Era altissimo e magro, con una voce sottile. Gli volevo molto bene. Mia nonna era bassa e robusta, con una crocchia di capelli neri e occhi grigi grigi. Era lei che decideva tutto, che comandava in tutto e per tutto. Mia madre era bellissima. Mi ricordo di lei a quel tempo, era alta, magra, con capelli nerissimi, una pelle color pan pepato (qualcuno glielo aveva detto, un giorno), occhi a loro volta neri, frange di ciglia fitte. D'estate, passava il tempo in costume da bagno, al sole, nell'erba del giardinetto dietro casa. Lo faceva all'inizio, poi sono arrivati i nemici e mia nonna le ha proibito di stare fuori.
La pelle delle sue gambe, sulle tibie, era scura e lucente, mi piaceva passarci sopra la punta delle dita, era liscia e calda come un sasso levigato dal mare. C'era la guerra. Non c'era niente da mangiare. Non c'erano soldi. Le notizie dovevano essere angoscianti. Eppure, mi ricordo di mia madre come di una persona allegra e spensierata. Le piaceva canticchiare canzoni creole, suonare la chitarra. Le piaceva anche leggere, poteva rimanere per ore sprofondata in un libro come La nascita di Jalna. Grazie a lei, è rimasta in me la convinzione che, quale che sia la difficoltà del momento, la realtà rimane un segreto, e che soltanto sognando si è più vicini al mondo. Mia nonna era diversissima. Era una donna del nord, della zona di Arras o di Compiegne, di una lunga stirpe di contadini duri e autoritari. Si chiamava Germaine. Credo di aver capito prestissimo quanto ci fosse di volitivo, di gretto e di caparbio in quel nome. Ce l'aveva a morte con i nemici che avevano invaso la Francia. Non ne pronunciava mai il nome. Aveva perso il marito durante la Grande Guerra. Aveva allevato il figlio unico, e il fratello minore dopo l'incidente. Tutto questo l'ho capito soltanto molto tempo dopo.
Anche di mio padre, non ho saputo niente. Era partito, un giorno, e non era più tornato. Ma in pratica non avevo alcun ricordo di lui. Un'ombra, forse, una sagoma sfuggente. Di mio nonno paterno rimanevano soltanto poche fotografie incorniciate nella stanza della nonna. Anche una Bibbia, e dei libri di Emanuel Swedenborg su cui ho imparato a leggere. Mia madre aveva un nome dolcissimo. Un nome d'isola e di fiume, che si addiceva al suo sorriso, al colore della sua pelle e alle musiche della sua chitarra. Si chiamava Rosalba. La guerra è quando si ha fame e freddo. Non fa sempre più freddo quando si è in una guerra? Nonna Germaine diceva che le due guerre da lei conosciute, la «Grande» e poi l'altra, la «porcheria», quella scoppiata quando io avevo un anno, erano state entrambe caratterizzate da estati torride, seguite da inverni terribili. Raccontava, ricordo, che nell'estate del '14 le allodole nei campi avevano cantato: «'st'està, 'st'està!». E che due giorni dopo i muri erano tappezzati di manifesti della mobilitazione. Germaine non aveva detto che gli uccelli avevano cantato durante l'estate del '39. Aveva però detto che suo figlio era partito sotto una pioggia torrenziale. Aveva baciato la moglie, mi aveva preso in braccio, e se n'era andato senza voltarsi. In montagna, faceva freddo a partire da ottobre. Ogni sera pioveva.
Le strade erano ridotte a torrenti che facevano una musica triste. C'erano molti corvi appollaiati nei campi, tenevano le loro riunioni, e i loro gridi striduli riempivano il vuoto del cielo. Noi abitavamo al primo piano di una vecchia casa di sasso, all'uscita del paese, verso l'alto. A pianterreno, c'era uno stanzone vuoto che in passato era stato un negozio di generi alimentari e rivendita di patate. Le finestre del negozio erano state murate. Erano gli ordini dei nemici. Temevano gli attentati. Lo stanzone fungeva ancora da magazzino. Un pomeriggio, la proprietaria, la signora Carrignon, aveva aperto la porta e io avevo scorto il negozio in penombra, gli scaffali vuoti, le damigiane unite da ragnatele, e sul pavimento, reso fantasmagorico dalla luce grigia, cenci e sacchi vuoti, simili a cadaveri. «Cosa ci fai qui? Via, sciò!». La signora Carrignon era comparsa sulla soglia, con indosso il grembiule color dei vecchi sacchi di patate, con ragnatele intessute ai capelli. Era pallida, aveva un solo dente che posava sul labbro inferiore. Faceva paura a tutti i bambini del paese. La guerra era soprattutto l'odore, un odore che non posso dimenticare. Un misto di muffa, di fumo, un odore di castagna e di cavolo, qualcosa di freddo, d'inquietante.
La vita passa, si cambia, si dimentica. Ma l'odore della guerra resta, a volte torna senza che ce lo aspettiamo. Con quello tornano i ricordi, la lunghezza, la lunghezza di quel tempo, quando sembra che le giornate, i mesi, gli anni siano senza fine. Che il nemico rimarrà sempre, non se ne andrà mai, che occuperà il suolo e le strade del paese sino alla fine del mondo. La mancanza di soldi. Come se ne accorge, un bambino di quattro anni? Che nonna Germaine ne parlasse talora con mia madre, la sera, dopo la zuppa di rape, mentre io sonnecchiavo coi gomiti sul tavolo guardando i disegni sulla tela cerata che si muovevano? «Come si fa con il latte, il pane, le verdure? Costa tutto così caro!». Non sono i soldi che mancano, sono i modi di passare il tempo. I modi di non pensare più al tempo, di non avere paura del giorno che finisce, della notte, del giorno che sta per nascere. Quella paura che si mescola all'odore del paese, al freddo della valle incassata dall'inverno, all'ombra del picco delle Abeilles che avanza come un'ala. Il picco è lo sperone roccioso che domina la valle, che minaccia il paese. La nostra casa è sul bordo della strada che va verso l'alta montagna, nel punto in cui la valle si restringe forzando l'acqua del fiume verso la chiusa.
Ma a me piace il fiume, il suo rumore, il suo odore. Non è come l'odore di cantina che sale dalle tavole dello stanzone dove i cenci sono spoglie dimenticate. Il fiume fa una musica quasi dolce, mi fa lo stesso effetto della voce di mia madre Rosalba quanto canta accompagnandosi con la chitarra, o quando mi legge qualcosa, la sera, nel suo letto, io e lei avvolti stretti nelle coperte per scaldarci. O la voce della pioggia che deve cadere ogni sera mentre dormo, quando l'ombra del pizzo delle Abeilles avanza come un'ala di corvo. La stanza in cui vivere era la cucina. Le tre camere erano nere e fredde. Davano su una ripa sassosa dove l'acqua scorreva in continuazione. La cucina si apriva sulla strada, con due finestre e un balcone dove la nonna teneva le provviste al fresco. La sera, nonna Germaine metteva la carta blu alle finestre per via del coprifuoco. Io passavo la maggior parte del tempo in cucina. Lì c'era sole anche in pieno inverno. Durante il giorno non c'era bisogno di tende perché non avevamo dirimpettai. La via che passava sotto le finestre di cucina era la strada per i monti. Non ci passava molta gente. La mattina, verso le sette, la corriera asmatica a gasogeno che portava ai paesini di alta montagna faceva un rumore smorzato. Quando la sentivo arrivare, mi precipitavo a vedere l'enorme insetto metallico senza muso e senza cofano, il tetto coperto di carabattole avvolte nella tela e legate.
La fermata del bus era un po' più in giù, sulla piazza. Stando al balcone, potevo scorgere, al di là dei prati a ridosso del fiume, i tetti del paese nuovo con il campanile quadrato e l'orologio con i numeri romani. Non sono mai riuscito a leggere l'ora, credo che l'orologio si fosse rotto all'inizio della guerra. Mi pare che segnasse sempre mezzogiorno. La cucina, in primavera, si riempiva di mosche. Nonna Germaine diceva che erano stati i nemici a portarle. «Prima della guerra non ce n'erano così tante». Mio zio Monsieur Lucien la prendeva in giro. «Come fai a saperlo? Le hai contate?». Lei non demordeva. «Già nel '14 si sono viste arrivare a Compiegne, dovresti ricordarlo. Nuvole di mosche. Si diceva che ne avevano portate a panieri e le lanciavano su di noi per demoralizzarci». Per lottare contro di loro, nonna Germaine appendeva strisce di carta gommata alla lampadina. Data la penuria, usava sempre la stessa striscia, che puliva ogni sera. Così facendo, però, toglieva lo strato di colla e dopo poco, più che da trappola, la striscia serviva da posatoio per le mosche. Quanto a Monsieur Lucien, lui usava un metodo più radicale. Armato di una paletta rabberciata cento volte, ogni mattina partiva in caccia. Diceva che non si sognava nemmeno di fare colazione se prima non aveva ammazzato il suo centinaio di mosche. Era così che avevo imparato a contare [...].
(Tratto dal Corriere della Sera del 27 maggio 2004. Traduzione di Francesco Bruno)
Jean-Marie Gustave Le Clézio
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