Viaggiando verso Plovdiv, i Balcani veri e propri - il massiccio montagnoso che si stende dall'est all'ovest della Bulgaria e ha dato il nome all'intera regione - compaiono subito fuori Sofia. Neve sulle cime, e sui dorsali abeti, larici, betulle. Più in là ecco i Rodopi, un'altra catena delle montagne bulgare, una delle tante che dai Carpazi occidentali al Dormitor montenegrino, dalla Bosnia al Peloponneso, attraversano la penisola balcanica. E fu infatti alla vista di tutte quelle montagne che gli ottomani chiamarono Balkan prima il massiccio bulgaro, e poi tutto il pezzo dell'Europa sud-orientale dove s'erano riversati con i loro eserciti, Pascia, harem dei Pascia e tamburi, nel XV secolo. Perché in turco "balkan" significa montagna.
Tra l'Otto e il Novecento, tra la pace di Santo Stefano e le guerre balcaniche, i diplomatici e gli storici chiamavano questa parte del continente - dove la dominazione ottomana s'era protratta per una buona metà dello scorso millennio - "la Turchia in Europa".
E ancora turchesca si presentava negli anni dei miei primi viaggi nella regione. Qualche immagine come esempio. Quando misi piede per la prima volta in Macedonia, una quarantina d'anni fa, Skopje ricordava le fotografie d'un vecchio libro di geografia. Tra il bel ponte ottomano e il bazar, ancora passavano albanesi con lo zucchetto bianco e i calzari allacciati al polpaccio, contadini serbi col berretto d'astrakan, zingare con le collane tintinnanti, bosniaci con le pantofole a punta ricurva, mentre una quantità di donne continuavano a portare i pantaloni a sbuffo. Dai minareti delle sue moschee - le più belle dell'Europa ex ottomana - veniva il richiamo alla preghiera, lo yogurt era in vendita dentro grandi secchi di zinco, e il mezzo di trasporto dei contadini restava la carretta slavo-turca, bassa e slargata, che con un mulo tra le stanghe aveva arrancato per secoli tra il Kossovo e la Bielorussia.
Col tempo e la caduta dei regimi comunisti della regione, qualcosa cominciò a cambiare. Ma dieci anni fa, viaggiando dalla Romania alla Bosnia attraverso la Bulgaria, l'Albania, la Macedonia greca e il nuovo stato di Macedonia uscito dalla dissoluzione jugoslava, le memorie della "Turchia in Europa" erano ancora così presenti e vivide che se ne restava meravigliati. A parte l'Islam con le sue moschee, da Sofia a Bucarest, da Plovdiv a Pristina, da Skopje a Tirana e a Sarajevo, gli stessi odori aggredivano le nari quando s'entrava in una locanda o trattoria: agnello arrostito sui carboni, caffè forte, tabacco orientale, grappa di prugne. Oltre all'agnello, anche gli altri cibi, un incrocio tra il mangiare anatolico e quello greco-bulgaro dell'epoca bizantina, ricordavano la dominazione ottomana. E intatta restava l'incuria che i viaggiatori della prima metà del secolo scorso, da Rebecca West a Evelyn Waugh, avevano chiamato "balcanica": la polvere, le strade pietrose, gli alberghi infestati da nugoli di mosche, i pavimenti mal lavati, i piatti unti, i bicchieri sempre opachi.
Questo era il fondale. E in primo piano c'erano le patologie socio-politiche del mondo balcanico. L'arretratezza dell'economia, il mosaico o groviglio delle etnie, lingue e religioni, gli odii implacabili tra vicini che erano scaturiti da quel groviglio, l'ossessione nazionalistica pronta a produrre improvvise esplosioni di violenza. Insomma, i resti della "question balcanique". Quell'insieme di problemi, di dispute su ogni frontiera o "enclave", di endemici scontri a carattere etnico-religioso, che la diplomazia europea del primo Novecento aveva cercato innumerevoli volte - ma senza mai successo - di risolvere. E che sarebbero divenuti il detonatore, in soli quattro anni, prima delle due guerre balcaniche (1912 e 1913) e poi della Guerra mondiale. Una situazione che alla fine dei Novanta, al mio ultimo viaggio in quei paesi, non era poi tanto cambiata, visto che tra Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Kossovo stazionavano quasi trentamila uomini dell'Onu e della Nato incaricati d'evitare nuovi, atroci massacri tra le etnie contrapposte.
Fa impressione scorrere le foto degli incontri in cui i ministri degli Esteri delle grandi potenze tentavano all'inizio del Novecento di disinnescare la polveriera balcanica, e pensare che ancor oggi i governi dell'Occidente sono alle prese con un'altra, l'ennesima, crisi nei Balcani. Alle prese cioè con la nascita controversa, e già molto allarmante per le sue possibili conseguenze, d'un nuovo stato della regione, il Kossovo.
In tuba e finanziera scura, tutti sovrappeso com'erano allora gli uomini importanti, il francese Poincaré, il russo Sazonov, l'inglese Grey, l'austriaco Berchtold avevano dal 1907 in poi inutilmente discusso sul come evitare che i Balcani s'incendiassero. Non c'erano riusciti (una parte delle memorie di Raymond Poincarè s'intitola infatti Les Balkans en feu), così come l'Occidente e la Russia non riuscirono novant'anni dopo a fermare le guerre della disgregazione jugoslava. Ed ecco riaffacciarsi oggi, a riprova che ancora non esistono rimedi alle convulsioni balcaniche, una nuova spaccatura dalle conseguenze imprevedibili: da una parte l'America e la maggior parte degli europei favorevoli all'indipendenza degli albanesi del Kossovo, dall'altra la Serbia, Putin e i cinesi che rifiutano di riconoscerla, e promettono battaglia.
E' vero, non siamo più negli anni Venti e Trenta del Novecento. Allora, da poco uscite dalla gabbia dell'Impero ottomano e non ancora poste in custodia stretta dai regimi comunisti succeduti alla Seconda guerra mondiale, le nazioni dei Balcani furono preda d'una continua, inguaribile frenesia nazionalistica. Ognuna di esse pretendeva che i suoi confini tornassero lì dov'erano al tempo della propria massima potenza nel Medioevo. Più volte in un paio di decenni le frontiere vennero rettificate, una volta a favore dell'uno e la volta dopo a favore d'un altro stato balcanico, seminando risentimenti, revanscismi, violenze. Dalla Macedonia specialmente, contesa da jugoslavi, bulgari e greci, provennero per molti anni scosse fortissime alla pace in Europa.
Fu lì, in quel frammento d'Europa etnicamente più complesso e variegato (bulgari, turchi, bosniaci, albanesi, greci, rumeni, serbi, ebrei, montenegrini, zingari), che emersero infatti le forme del terrorismo moderno. L'Imro, l'organizzazione degli irredentisti bulgari che volevano uscire dal regno di Jugoslavia per unirsi alla Bulgaria, spaventò mezza Europa. Bombe e pistolettate contro tutto e tutti, e soprattutto ovunque: a Vienna, a Belgrado, a Parigi, nei ristoranti di Atene e sulle rotaie dell'Orient Express. Così che gli storici della materia non hanno dubbi: fu la lezione dell'Imro macedone ad essere studiata nei successivi decenni, a partire dal terrorismo arabo ed ebraico nella Palestina del Mandato britannico, in tutti i rifugi e riunioni clandestine dei gruppi terroristici che hanno sconvolto il mondo contemporaneo.
Né il resto dei Balcani, mentre esplodevano le bombe dell'Imro, rimaneva tranquillo. Si succedevano infatti gli assassinii politici in Jugoslavia, i ventimila morti del "terrore bianco" in Bulgaria, l'ex primo ministro e illustre storico rumeno, Nicolae Iorga, soffocato ficcandogli in gola un giornale di tendenze liberali, il primo ministro bulgaro Stambolijnski costretto a scavarsi la fossa, quindi ripetutamente mutilato da vivo, e infine ucciso a bastonate. Fu per tutto questo che nell'"entre deux guerres" si cominciò a parlare d'un "carattere balcanico", una natura propensa alla ferocia, sviluppatasi nei secoli tra le stragi compiute dai turchi e le stragi di turchi compiute dagli irredentisti della regione. Discorsi che si sentivano ancora pochi anni fa, al tempo della "pulizia etnica" tentata da Milosevic contro gli albanesi del Kossovo.
Fole, ovviamente. Una risistemazione economica, sociale e politica dei Balcani dovrebbe risultare infatti - com'è accaduto altrove, e sta già accadendo persino in varie parti della penisola balcanica - in un esaurimento delle violenze. Solo che questa risistemazione non è ancora terminata. Ed perciò che due giorni dopo l'indipendenza del Kosovo, siamo qui a chiederci se dal Kosovo verrà un altro scoppio della "poudrière", (la polveriera, come la chiamava Poincaré) dei Balcani.
(Tratto dal giornale “La Repubblica”, del 19 febbraio 2008)
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