“«Né piacevoli né corretti”. I modelli restano Baldacci e Raboni
“La critica, quando è vera, è sempre militante e quindi antagonista”. Così si potrebbero riassumere le tesi di La ragione in contumacia (sottotitolo La critica militante ai tempi del fondamentalismo), breve e appassionato pamphlet di Massimo Onofri, in questi giorni in libreria (Donzelli, pp. 122, 15), che ben si inserisce nel dibattito aperto dal Dizionario della critica militante di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli, appena uscito da Bompiani. Nel saggio Onofri si rifà alle radici illuministiche della critica («ma non nel senso di quel revival dell’illuminismo che, riproponendo la lex naturale, va nella stessa direzione di Ratzinger», precisa), parla del «ri-uso», come teorizzava Franco Brioschi, in chiave contemporanea dei testi, riafferma la necessità di concetti come «valore» e «canone», di un «giudizio di gusto» che vive della retorica dell’argomentazione. Onofri non considera l’Autore morto, anzi lo interpreta come «un’entità non riconducibile né alla vita né alla scrittura, ma quale risultato della loro misteriosa contaminazione». Degli aggettivi che La Porta, nel Dizionario, gli attribuisce, e cioè «fazioso umorale e rissoso» (ma scrive anche che «leggere le sue pagine è come prendere una boccata d’aria nel nostro ingessato sistema culturale»), Onofri riconosce come suo soltanto il primo, anzi lo rivendica. La faziosità, e cioè la scelta, è insita al mestiere del critico, altrimenti si è un’altra cosa: storici della letteratura, filologi, scrittori. «Negli anni Settanta, quando io andavo a scuola, Soldati non esisteva nei manuali. Credo di essere stato il primo a dargli in un manuale scolastico uno spazio pari a quello di Moravia per esempio. È chiaro che una ricollocazione di Soldati può significare sacrificare qualcun altro, magari Calvino». Onofri sposa l’idea di Giulio Ferroni di «un’ecologia della letteratura»: «Inorridisco quando sento dire che c’è posto per tutti. Non è così: il critico ha il dovere di denunciare "l’ecomostro", anche quando ha successo». Non solo: c’è un altro male: «Il piacere del testo è diventato l’elogio della piacevolezza. Abbiamo dimenticato tutta una tradizione umanistica per cui la bellezza era un processo che passava anche attraverso la sofferenza. Personalmente voglio leggere libri che facciano soffrire, che mi costringano a mettermi in discussione, il piacevole mi annoia». L’intrattenimento, il successo, sono concetti che per Onofri poco hanno a che fare con la critica. «Prendiamo Guido Da Verona e Federigo Tozzi: il pubblico premiò il primo, del secondo soltanto Giuseppe Antonio Borgese riconobbe subito la grandezza. Chi aveva ragione? Oggi, la stessa contrapposizione si può fare tra Tabucchi e la Ramondino. Il primo, soprattutto negli ultimi romanzi, è rassicurante, corretto, la seconda è aspra, misteriosa, di grande eleganza. La sfida delle copie la vince Tabucchi». Un critico militante, secondo Onofri, deve essere necessariamente polemico, «deve saper dire di no ai testi». Molti invece non lo sanno fare. «Carlo Bo, per esempio: paradossalmente era la negazione della critica militante. Un po’come oggi Emanuele Trevi, che ha certamente una bella penna ma è troppo camaleontico, trova preoccupante scrivere di qualcosa che non gli piace. Così come non capisco perché Roberto Cotroneo si sia pentito di aver praticato, negli anni giovanili, la stroncatura. Oggi si è lasciato andare a una certa pratica del consenso, recensendo solo scrittori celebrati e politicamente corretti. Critici militanti per eccellenza sono stati Luigi Baldacci e Giovanni Raboni che nel suo I bei tempi dei brutti libri, giocava sui parallelismi, su coppie di autori da mettere in contrapposizione e tra cui fare una scelta». E se, a differenza di quanto scrivono La Porta e Leonelli nel Dizionario, non possono essere considerati critici militanti Pietro Citati («lo è stato negli anni Cinquanta, adesso ci parla solo dei classici») o Roberto Calasso («un ginnasta degli assoluti»), oggi, secondo Onofri, la categoria gode di buona salute: «La rappresentano bene Alfonso Berardinelli, Raffaele Manica, Giorgio Ficara, Bruno Pischedda, Massimo Raffaelli, il giovane Paolo Febbraro. Anche Andrea Cortellessa ha una grande attrezzatura tecnica, ma, anche lui, a volte, rischia di dire troppi sì».
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A proposito di stroncature, questo testo di Alessandro Baricco, apparso su "La Repubblica" il 1 marzo 2006:
CARI CRITICI, HO DIRITTO A UNA VERA STRONCATURA
Questo è un articolo che non dovrei scrivere. Lo so. Me lo dico da me. E lo scrivo. Dunque. La scorsa settimana, su queste pagine, esce un articolo di Pietro Citati. Racconta quanto lo ha deliziato mettersi davanti al televisore e vedere i pattinatori-ballerini delle Olimpiadi. Lo deliziava a tal punto - scrive - che "dimenticavo tutto: le noie, le mediocrità, gli errori della mia vita; dimenticavo perfino "l’Iliade" di Baricco, e la vasta e incomprensibile ottusità dei volti di Roberto Calderoli e di Alfonso Pecoraro Scanio". Io ero lì, innocente, che mi leggevo con piacere l’esercizio di stile sull’argomento del giorno e, trac, mi arriva la coltellata. Va be’, dico. E, giusto per mite rivalsa, lascio l’articolo e vado a leggermi l’Audisio.
Qualche giorno dopo, però, vedo sull’"Unità" un lungo articolo di Giulio Ferroni sull’ultimo libro di Vassalli. Bene, mi dico. Perché mi interessa sapere cosa fa Vassalli. Malauguratamente, alcuni dei racconti che ha scritto sono sul rapporto tra gli uomini e l’automobile.
Mentre leggevo la recensione sentivo che finivamo pericolosamente in area "Questa storia" (il mio ultimo romanzo, che parla anche di automobili). Con lo stato d’animo dell’agnello a Pasqua vado avanti temendo il peggio. E infatti, puntuale, quel che mi aspettavo arriva. Al termine di una lunghissima frase in cui si tessono (credo giustamente) elogi a Vassalli, arriva una bella parentesi. Neanche una frase, giusto una parentesi. Dice così: "Che distanza abissale dalla stucchevole e ammiccante epica automobilistica dell’ultimo Baricco!". E voilà. Con tanto di punto esclamativo.
Ora, nessuno è tenuto a saperlo, ma Citati e Ferroni sono, per il loro curriculum e per altre ragioni per me più imperscrutabili, due dei più alti e autorevoli critici letterari del nostro paese. Sono due mandarini della nostra cultura. Per la cronaca, Citati non ha mai recensito la mia "Iliade", e Ferroni non ha mai recensito "Questa storia". Il loro alto contributo critico sui miei due ultimi libri è racchiuso nelle due frasette che avete appena letto, seminate a infarcire articoli che non hanno niente a che vedere con me.
È un modo di fare che conosco bene, e che è piuttosto diffuso, tra i mandarini. Si aggirano nel salotto letterario, incantando il loro uditorio con la raffinatezza delle loro chiacchiere, e poi, con un’aria un po’ infastidita, lasciano cadere lì che lo champagne che stanno bevendo sa di piedi. Risatine complici dell’uditorio, deliziato. Io sarei lo champagne.
Potrei dire che non me ne frega niente. Ma non è vero. Mi ferisce poco la gomitata assestata a tradimento, ma mi offende molto il fatto che sia tutto ciò di cui sono capaci. Mi sorprende il loro sistematico sottrarsi al confronto aperto. La critica è il loro mestiere, santo iddio, che la facciano. Cosa sono queste battutine trasversali messe lì per raccogliere l’applauso ottuso dei fedelissimi? Vi fa schifo che uno adatti l’Iliade per una lettura pubblica e lo faccia in quel modo? Forse è il caso di dirlo in maniera un po’ più argomentata e profonda, chissà che ci scappi una riflessione utile sul nostro rapporto con il passato, chissà che non vi balugini l’idea che una nuova civiltà sta arrivando, in cui l’uso del passato non avrà niente a che fare con il vostro collezionismo raffinato e inutile.
E se trovate così stucchevole un libro che centinaia di migliaia di italiani si affrettano a leggere, e decine di paesi nel mondo si prendono la briga di tradurre, forse è il caso di darsi da fare per spiegare a tutta questa massa di fessi che si stanno sbagliando, e che la letteratura è un’altra cosa, e che a forza di dare ascolto a gente come me si finirà tutti in un mondo di illetterati dominati dal cinema e dalla televisione, un mondo in cui intelligenze come quelle di Citati e Ferroni faranno fatica a trovare uno stipendio per campare.
Si dirà che è un diritto dei critici scegliersi i libri di cui scrivere. E che anche il silenzio è un giudizio. E’ vero. Ma non è completamente vero. Lo so che per persone intelligenti e colte come Citati e Ferroni i miei libri stanno alla letteratura come il fast-food alla cucina francese, o come la pornografia all’erotismo. Per usare una frase di Vonnegut che mi fa sempre tanto ridere, mi sa che per loro i miei libri, nel loro piccolo, stanno facendo alla letteratura quello che l’Unione Sovietica ha fatto alla democrazia (non si riferiva a me, Vonnegut, che purtroppo non sa nemmeno che esisto).
Ma quale arroganza intellettuale può indurre a pensare che non sia utile capire una degenerazione del genere, e magari spiegarla a chi non ha gli strumenti per comprenderla? Come si fa a non intuire che magari i miei libri sono poca cosa, ma lì i lettori ci trovano qualcosa che allude a un’idea differente di libro, di narrazione scritta, di emozione della lettura? Perché non provate a pensare che esattamente quello - una nuova, sgradevole, discutibile idea di piacere letterario - è il virus che è già in circolo nel sistema sanguigno dei lettori, e che magari molta gente avrebbe bisogno da voi che gli spiegaste cos’è questo impensabile che sta arrivando, e questa apparente apocalisse che li sta seducendo?
Non sarà per caso che la riflessione nel campo aperto del futuro vi impaurisce, e che preferite raccogliere consensi declinando da maestri mappe di un vecchio mondo che ormai conosciamo a memoria, rifiutandovi di prendere atto che altri mondi sono stati scoperti, e la gente già ci sta vivendo? Se quei mondi vi fanno ribrezzo, e la migrazione massiccia verso di loro vi scandalizza, non sarebbe esattamente vostro degnissimo compito il dirlo? Ma dirlo con l’intelligenza e la sapienza che la gente vi riconosce, non con quelle battutine, please.
Per quello che ne capisco, i miei libri saranno presto dimenticati, e andrà già bene se rimarrà qualche memoria di loro per i film che ci avranno girato su. Così va il mondo. E comunque, lo so, i grandi scrittori, oggi, sono altri. Ma ho abbastanza libri e lettori alle spalle per poter pretendere dalla critica la semplice osservanza di comportamenti civili. Lo dico nel modo più semplice e mite possibile: o avete il coraggio e la capacità di occuparvi seriamente dei miei libri o lasciateli perdere e tacete. Le battute da applauso non fanno fare una bella figura a me, ma neanche a voi.
Ecco fatto. Quel che avevo da dire l’ho detto.
Adesso vi dico cosa avrei dovuto fare, secondo il galateo perverso del mio mondo, invece che scrivere questo articolo. Avrei dovuto stare zitto (magari distraendomi un po’ ripassando il mio estratto conto, come sempre mi suggerisce, in occasioni come queste, qualche giovane scrittore meno fortunato di me), e lasciar passare un po’ di tempo. Poi un giorno, magari facendo un reportage su, che ne so, il Kansas, staccare lì una frasetta tipo "questi rettilinei nella pianura, interminabili e pallosi come un articolo di Citati". Il mio pubblico avrebbe gradito. Poi, un mesetto dopo, che so, andavo a vedere la finale di baseball negli Stati Uniti, e avrei sicuramente trovato il modo di chiosare, in margine, che lì si beve solo birra analcolica, "triste e inutile come una recensione di Ferroni". Risatine compiacenti. Pari e patta. E’ così che si fa da noi. Pensate che animali siamo, noi intellettuali, e che raffinata lotta per la vita affrontiamo ogni giorno nella dorata giungla delle lettere...
Purtroppo però non è andata così. Il fatto è che l’altro giorno ho visto il film su Truman Capote. Si impara sempre qualcosa spiando i veri grandi. Lui in quel film è così orrendo, spregevole, sbagliato, megalomane, imprudente, indifendibile. Mi ha ricordato una cosa, che talvolta insegno perfino a scuola, e che però mi ostino a dimenticare. Che il nostro mestiere è, innanzitutto, un fatto di passione, cieca, maleducata, aggressiva e vergognosa. Posa su una autostima delirante, e su un’incondizionata prevalenza del talento sulla ragionevolezza e sulle belle maniere. Se perdi quella prossimità al nocciolo sporco del tuo gesto, hai perso tutto. Scriverai solo cosette buone per una recensione di Ferroni (no, scherzo, davvero, è uno scherzo). Scriverai solo cosette che non faranno male a nessuno.
Insomma è tutta colpa di quel film su Truman Capote. D’improvviso mi è sembrato così falso starmene lì, come una bella statuina, a prendere sberle dal primo che passa. E’ una cosa che non c’entra niente col mestiere che è il mio. Vedi, se me ne stavo a casa a vedere Lazio-Roma, oggi eravamo tutti più sereni e tranquilli. E penosi, of course.
Massimo Onofri
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