Nell’opera narrativa di Buzzati il tema della morte è centrale. Individuare perché e come attraverso di essa sia prevalsa nello scrittore questa attenzione al destino mortale dell’uomo è questione di difficile soluzione. Ci restano le sue opere, complesse, composite, per nulla di semplice di lettura, malgrado le apparenze.
Ad esempio, è ben nota la curiosità rivolta dal giovane Buzzati, insieme al fido amico Brambilla, all’egittologia, al punto che egli prediligeva impersonare Anubis, divinità mortuaria; inoltre, immaginiamo che restar orfano di padre in età adolescenziale dovette essere un’esperienza traumatica; egualmente possiamo supporre che, per un bambino, crescere e attraversare una guerra – e poi, da adulto, una seconda – abbia comportato un percorso esistenziale e una formazione mentale influenzati da tali drammatici e luttuosi eventi.
La morte, o la paura, il sentore, la prospettiva, l’ineluttabilità, la quotidianità, della morte, sono dunque temi centrali della narrativa di Buzzati: basta fare un rapido ripasso mentale delle sue principali opere, in ordine cronologico: Barnabo, il Segreto del Bosco Vecchio, Il deserto dei Tartari, Il grande ritratto, Un amore e, tra queste, gli innumerevoli racconti (e le poesie, e le opere teatrali, liriche, a fumetti, i quadri...); gran parte di esse affronta direttamente o indirettamente il problema della morte, o quanto meno della fragile caducità umana.
Se la scrittura è meditazione, l’opera narrativa di Buzzati dà corpo a una lunga e articolata, progressiva meditazione sulla morte, destino comune degli esseri umani. È anche per questo, forse, che le opere di Buzzati si avvertono come « classici », nel senso definito da Calvino in più versioni. Eccone una selezione:
Perché leggere i classici - « I classici sono libri che esercitano un‘influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale »1.
Dopo aver letto e riletto le opere di Buzzati, capita di riconoscerne le atmosfere, le intuizioni, le spore, in altri libri, in altri classici, di autori diversi, sia precedenti che posteriori. Per ciò che è stato scritto prima – vedi Kafka! – la tentazione di attribuirgli una affinità genetica è sempre forte; tuttavia, indimostrabile o negata una derivazione diretta, resta il fatto che persiste un’aria di fratellanza tra un testo di Buzzati e un altro classico.
« I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume) ».
Cosicché un’opera di Buzzati non è sostanziata solo e meramente dalle letture e dalle esperienze fatte dall’autore, ma anche dalle nostre, come la moderna semiotica della ricezione avverte. Il fatto che le coordinate spazio-temporali, fornite da Buzzati ai contesti narrativi delle sue opere, ciò nonostante molto spesso risultano vaghe, è un elemento stilistico di grande importanza per comprendere come la riflessione e la meditazione, implicite nel testo, possano più agevolmente emergere ed essere accolte con particolare adesione da parte del lettore.
Il « deserto dei Tartari »: dove si trova? In Asia? Ma i soldati sembrano europei... E poi si tratta di una leggenda... o no? E questi soldati, con cognomi talora bizzarri: Drogo, Tronk, Matti... la fortezza Bastiani... siamo in Italia, in Alto Adige, o in qualche territorio coloniale...? Il solo fatto di farci brancolare alla ricerca di una collocazione certa, senza peraltro riuscire a fissarne una, costituisce uno degli elementi narrativi più forti e decisivi della scrittura buzzatiana. Incertezza e ambiguità, malgrado la « certezza » di denominazioni topografiche e di appellativi, sottraggono alla vicenda quella concretezza che, viceversa, spinge il lettore a concentrarsi sulle emozioni, sui concetti filosofici, sui temi universali presenti nel testo. La Milano di Un amore è in parte una città-altra, è il territorio di Laide, « un mondo intero popolato da una infinità di personaggi [...] » (p. 29), il « regno sconosciuto » (p. 47), « mondo avventuroso e probito »(p. 52), « segreta Milano estranea alla cronaca e ai Baedeker »(p. 231), un « mondo popolaresco » , in cui esistono confini.
Dino Buzzati
« È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno. [...] È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona ».
Il miracolo del Deserto dei Tartari è che viene pubblicato in un’epoca di guerra e di censura (1940), pur parlando di guerra e, non solo, ma della rassegnazione di un militare, un ufficiale, di fronte all’ineluttabilità della morte, comunque questa venga e possa cogliere l’uomo. Nel Deserto dei Tartari, infatti, l’allontanamento dal fronte, dal luogo dello scontro imminente tra le truppe del Nord e la guarnigione della fortezza Bastiani, fornisce al maggiore Drogo, all’autore e al lettore lo spunto per portare a termine un percorso iniziatico e formativo durato un romanzo: per concludere che è eroico chiunque affronti la propria morte a viso aperto, riconoscendone la signoria sull’esistenza umana, comprendendone la naturale e pacifica ragion d’essere. Sotto l’apparenza di romanzo militarista, il Deserto dei Tartari è, a mio parere, un romanzo pacifista, pregno com’è di commossa attenzione per la futilità degli affanni umani rispetto al fatale momento ultimo dell’esistenza.
Parlando della forma epica Franco Moretti cita Hegel: « L’epos ha a suo oggetto lo svolgersi di un’azione che deve pervenire ad intuizione in tutta l’ampiezza delle sue circostanze e rapporti, come ricco avvenimento connesso con il mondo in sé totale di una nazione e di un’epoca » 2. È un romanzo epico, il Deserto dei Tartari? Se, come in tempi più recenti ha scritto Blanchot « l’eroismo è rivelazione, mirabile intensità luminosa dell’Atto in cui si uniscono essenza e apparenza » ; se « l’eroismo è la luminosa sovranità dell’atto » e « solo l’atto è eroico, mentre l’eroe che non agisce non è nulla » 3, cosa dobbiamo pensare di Giovanni Drogo, allontanato per malattia dal fronte e destinato a morire in un’anonima stanza di pensione? Moretti ci mostra tuttavia come il dottor Faust, eroe creato da Goethe, sia in realtà « uno spettatore » , denominazione che si attaglia perfettamente, in qualche modo, anche al buzzatiano maggiore Drogo. Questi perviene alla fortezza, inizia a guardarsi intorno, a osservare, a cogliere dettagli, ad avere intuizioni; nel frattempo invecchia, si ammala di una malattia che probabilmente si chiama « vita » e che aveva contratto appena nato, come tutti; assiste ai preliminari di un’agognata battaglia, ma viene estromesso dal teatro di guerra, condannato a terminare la propria meditazione in piena solitudine, in contatto con il cielo e l’oscurità. « Un’epica senza eroe » , scrive Moretti del Faust.
Se ho chiamato causa Moretti e il suo denso saggio sulle « Opere-Mondo » , è per la manifesta e confessata ambizione universalistica del romanzo di Buzzati, che allude alla condizione umana, di qualunque essere umano. Mi ha colpito, in particolare, il discorso sulla « non-contemporaneità »(p. 47) risalente a Ernst Bloch: in uno spazio delimitato « coesistono forme sociali e simboliche storicamente disomogenee, e spesso originarie di luoghi del tutto diversi » . Così « il Faust non è ‘tedesco’, come non è ‘irlandese’ Ulisse, o ‘colombiano’ Cent’anni di solitudine » , come non è ‘italiano’, vorrei aggiungere io, il Deserto dei Tartari. Deserto e montagna, città, fortezza militare, luoghi di uno stesso mondo e tuttavia antitetici coesistono nel testo buzzatiano, legati ai differenti rispettivi modi di vita, tra i quali oscilla per tutto il romanzo Giovanni Drogo, fermandosi infine in una specie di indistinto centro topografico, a metà strada tra città e fortezza, al primo piano di una pensione, fra il tramonto del sole e il calar della notte, tra vita e morte.
« Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. [...] Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso ».
Ho letto molte volte il Deserto dei Tartari, in particolare, e ogni volta ho trovato qualcosa di nuovo, anche perché nel frattempo ero cambiato io, avevo letto e vissuto ancora e di più. Quando un libro continua a rivelare a a rivelarsi, è un classico.
« D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima » .
E adesso veniamo a una definizione di classico che ci avvicina al tema di questo contributo, Buzzati e l’Oriente: « Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani » .
Intanto, cos’è l’Oriente? Anche se provo a ubicarlo geograficamente, la relatività del mio piccolo umano punto di vista mi spinge a girare come una trottola intorno al mondo e ai due Poli. Come spiega Franco Cardini, « la parola « Oriente » è etnocentrica e ambigua. Etnocentrica, perché squisitamente ed esclusivamente occidentali sono i concetti di « Oriente » e « Occidente ». Ambigua, perché nella nostra cultura esistono molti « Orienti » , uno Vicino, uno Medio, uno Estremo, uno immaginario, uno « lontano » (far East), uno fiabesco, uno poetico, uno letterario, uno religioso, e via discorrendo » 4.
Buzzati non impiega frequentemente il termine « Oriente », però situa talora i suoi racconti e le sue storie in luoghi che hanno un « non so che » di orientale; la storia di Giovanni Drogo, ad esempio. Cos‘ha di orientale, dunque? In primo luogo, il deserto, entità geografica ai margini dell’Europa, gigantesca terra di miraggi e tentazioni, di carovane e di mercanti, di predoni e di insperate oasi, di messia e di eremiti, di crociate e di Islam, di mille e una fiaba, di teologia e matematica, di scienza idraulica e astronomica... In secondo luogo, questa incombenza dei Tartari i quali, se la fortezza Bastiani non sta in Oriente, certamente dall’Oriente asiatico erano arrivati. Inoltre, l’organizzazione militare-monastica della guarnigione, non ignota all’Occidente, certo, ma che pure, altrettanto nitidamente, rinvia al monachesimo buddista, o scintoista, o induista.
Il deserto dei Tartari non allude a un Oriente « diverso » ma concreto, bensì a un Oriente culturale e filosofico, con il quale condivide, nelle sue tesi di fondo, molto più di quanto a prima vista si possa cogliere. E ritorno, volentieri, alla definizione di Calvino or è poco citata: « Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani ».
Mi sia ora concessa una momentanea digressione.
Nel 1934 la Reale Accademia d’Italia di Roma pubblicò la Cronaca della Missione Scientifica Tucci nel Tibet Occidentale (1933) di Giuseppe Tucci, celebre studioso di religioni e filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente. Nello stesso periodo, con una serie di articoli di A. Fraccaroli il « Corriere della Sera », a partire dal 14.1.1933, testimoniava il rinato interesse nei confronti dell’Oriente, con particolar riguardo all’Asia himalayana e al buddismo. Lo stesso Tucci, appena rientrato, espose in diverse conferenze, di cui il giornale milanese diede talora notizia, i risultati delle sue affascinanti investigazioni; egli fu inoltre intervistato in più occasioni da Alfredo Panzini, celebre firma del « Corriere », su temi come « Tibet misterioso » (14.1.1934); « Fascino del Tibet » (31.1.1934); « I Buddha viventi » (9.2.1934); « Misticismi corrotti e esperienze magiche » (23.2.34); e « Cronache della missione scientifica Tucci nel Tibet » (13.10.1934). L’attenzione del « Corriere » non decade, malgrado i tempi e le circostanze politiche, fino al fatidico 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia e della pubblicazione del Deserto dei Tartari. Il 4 gennaio troviamo ancora un articolo dedicato alle « Magiche esperienze dei Lama tibetani ».
Giuseppe Tucci era tornato una seconda volta in Tibet, nel 1935, ben intenzionato a distinguersi dai suoi predecessori, i quali avevano dato – dice - « poco più che il nome dei luoghi visitati »; mentre egli « di ogni centro abitato, di ogni gompa – come in tibetano chiamano i monasteri – e di ogni rovina » avrebbe « segnalato quello che dal punto di vista religioso, storico e artistico » potesse ancora interessare. Anche il resoconto di questa spedizione fu pubblicato, nel 1936; infine, nel 1939, in una terza spedizione poté visitare, descrivere e fotografare « un gran numero di oggetti d’arte e migliaia di manoscritti »5.
Si trattò, come si può intuire, di viaggi ricchi di preziose esperienze, con « un contatto diretto e ispiratore » dice lo stesso orientalista « con gente che vive in altra dimensione ».
Nella sua « Prefazione » alla riedizione di Tibet ignoto6, Tucci afferma che homo sapiens non significa « saggio »: « l’uomo, al contrario, è soprattutto l’immenso tumulto dell’irrazionale da cui salgono improvvise le fantasie e le immaginazioni, dove egli ritrova se stesso e abbraccia l’infinito, non solo lo abbraccia ma se ne impossessa in esaltazioni e sublimazioni che ci sollevano a meditazioni, gaudi o tormenti i quali ci avviano ad afferrare quel Vuoto-Tutto in cui è pace; la scienza stessa progredisce ed avanza per lampeggiamenti e intuizioni inattese, talché, quando queste intuizioni sconvolgono la certezza cristallizzata della scienza, tutto il mondo accademico, la tradizione, grida all’eresia. No, io non tengo affatto alla mia parte razionale che può tutto dimostrare; con il sillogismo più corretto si dimostra sia l’esistenza sia la non esistenza di Dio. Ma resta certo il mistero e non solo come un limite, ma come un possesso, il sole della nostra divina solitudine ».
Se possiamo leggere il Deserto dei Tartari come il racconto di un’iniziazione e di una rivelazione mistica (benché, questa, conseguita in extremis), ricordando che la città e la Fortezza vengono paragonate a labirinti7, rivolgiamo allora la nostra attenzione al concetto tantrico di mandala. Questo termine, spiega Eliade, significa « cerchio », « centro », « ciò che circonda ». Da un punto di vista iconografico il mandala
« è suscettibile di infinite varianti: alcuni mandala hanno le parvenze di un labirinto, altri di un palazzo, con baluardi, torri e giardini [...] il mandala è allo stesso tempo un’immagine dell’Universo ed una teofania [...]. In origine, ogni altare o luogo sacro era considerato uno spazio privilegiato, separato magicamente dal resto del territorio: in questo spazio qualitativamente diverso, il sacro si manifestava mediante una rottura di livello che permetteva la comunicazione tra le tre zone cosmiche: cielo, terra, regione sotterranea »8.
Alla periferia del mandala « si aprono quattro porte cardinali », difese da immagini terrificanti, denominate i « guardiani delle porte » - analoghi a Hermes-Mercurio e ai cinocefali capeggiati da Anubis; essi hanno sia il compito di difendere « la coscienza contro le forze disgregatrici dell’inconscio », sia di « portare la lotta nel campo stesso del nemico », « per avere presa sul mondo fluido e misterioso dell’inconscio ». Essi e le altre divinità terribili che si trovano all’interno del mandala
« sottolineano il carattere iniziatico della penetrazione in un mandala. Ogni iniziazione presuppone il passaggio da un modo di essere ad un altro, ma questo cambiamento di regime ontologico è preceduto da una serie più o meno grande di ‘prove’ che il candidato deve superare. La prova tipica dell’iniziazione è la ‘lotta con il mostro’ [...] A livello tantrico, i ‘mostri’ raffigurano le forze dell’inconscio uscite dal ‘vuoto’ universale: si tratta di vincere l’orrore che suscitano »9.
Poiché i mandala hanno talora « un disegno nettamente labirintico » , per Eliade l’aspetto dell’iniziazione sopra menzionato « rivela alcune somiglianze di struttura tra il mandala ed il labirinto ».
« Tra le funzioni rituali del labirinto, soprattutto due ci interessano: da un lato, esso simboleggiava l’al di là; chiunque vi penetrava, grazie all’iniziazione, realizzava effettivamente un descensus ad inferos (‘morte’ seguita da ‘resurrezione’); esso rappresentava, inoltre un ‘sistema di difesa’, sia spirituale (contro gli spiriti cattivi e i demoni, forze del caos) che materiale (contro i nemici). Poiché la città costituiva, come il tempio o il palazzo, un ‘Centro del Mondo’, la si difendeva per mezzo di labirinti o di mura contro gli invasori e contro le forze malefiche, contro gli ‘spiriti del deserto’, che cercavano di riportare le ‘forme’ allo stato di amorfismo da cui erano uscite. Considerata sotto questo punto di vista, la funzione del mandala - come quella del labirinto - sarebbe per lo meno duplice: da un lato, l’inserimento in un mandala disegnato sul terreno equivale ad una iniziazione; d’altro lato, il mandala ‘difende’ il discepolo contro ogni forza distruttiva e lo aiuta nel medesimo tempo a concentrarsi, a trovare il proprio ‘centro’ »10.
Anche in quest’ultimo brano troviamo riscontri utili per una lettura « creativa » del Deserto dei Tartari. Il mandala è dunque la rappresentazione iconografica, simbolica, dell’« intrico delle forze che soggiacciono alla multivaga varietà del mondo»11. Ivi si raffigura il « dramma della disintegrazione e della reintegrazione », ossia l’esistenza dell’individuo alle prese con le forze della mâyâ, « quella pluralità, nella quale è frantumata la nostra psiche ». Il mandala viene costruito per rendere l’allievo cosciente della propria condizione di ignoranza; il duplice processo di disintegrazione e di reintegrazione della coscienza viene rappresentato però tramite « simboli che, ove siano saggiamente letti dall’iniziato, suscitano l’esperienza psicologica liberatrice »12. Solo un iniziato, cioè un ad-apto, può leggere e interpretare un mandala13.
D’altra parte è possibile trascorrere un’intera esistenza all’interno di un edificio costruito per usi militari, ma anche luogo di pratiche apotropaiche, un massiccio mandala delimitato da mura materiali e psicologiche, senza penetrarne l’intima essenza e soprattutto il metaforico insegnamento. Condizionati dai giochi oppositivi che la società ha insegnato loro (bene/male, amici/nemici, attacco/difesa), trincerati nella loro Fortezza-labirinto, i commilitoni di Drogo desiderano fino all’ultimo che essa venga presa d’assalto, come avviene puntualmente. Quasi nessuno, tuttavia, sviluppa un senso di distacco, una capacità di estraniamento, un proprio percorso filosofico-cognitivo. Se per motivi di salute Drogo dovrà abbandonare il luogo della confusione e delle contraddizioni insanabili, ciò comporterà, d’altro canto, la sua salvezza. L’infermità risulta pertanto essere, al tempo stesso, causa di morte e di salvezza dell’individuo, perché ne accelera il cammino verso la resurrezione. Debilita il corpo rafforzando lo « spirito » , preparandolo alla metamorfosi nel passaggio attraverso la morte14.
Il mandala può allora essere considerato come un testo, materiato di simboli - cioè di segni - da interpretare al fine di meditare sulla propria esistenza, di perseguire la conoscenza delle verità mistiche, di pervenire alla comprensione del senso della propria vita, di percepire la propria « luce interiore » . Di questo strumento pedagogico buddista il romanzo di Buzzati ha molto, sia nella forma che nei contenuti.
La vicenda di Drogo si svolge in gran parte presso una linea di frontiera e di difesa contro una possibile, temuta e anelata invasione dall’esterno; nella sua rappresentazione di un tratto della parabola esistenziale di un individuo, sottesa tra la città, la fortezza e il luogo del sacrificio finale, analogamente a un mandala il testo buzzatiano si può considerare « un cosmogramma » , un « universo intero nel suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e di riassorbimento: l’universo non solo nella sua inerte distesa spaziale, ma come rivoluzione temporale »15.
Come accennato, nel maggio del 193516 Giuseppe Tucci ritornò in Tibet, ancora accompagnato dal capitano medico Eugenio Ghersi, autore di numerosissime foto relative alle zone esplorate. Il resoconto di questo secondo viaggio fu pubblicato – informa l’autore, nel 193617.
Di per sé preziosi e suggestivi, questi materiali documentari, corredati da fotografie, costituiscono un importante punto di riferimento per definire il contesto culturale in cui Buzzati portò a termine la gestazione di Il deserto dei Tartari.
Notevoli sono, innanzi tutto, le analogie nell’ambientazione panoramico-geografica: per lo scrittore bellunese la narrazione del viaggio di Tucci sul « Tetto del Mondo » sarebbe potuta essere una lettura molto suggestiva sotto vari aspetti, foriera di sensazioni emotive, e non solo una fonte d’ispirazione, che l’alpinista Buzzati anche ritrovava tra le sue Dolomiti (si parva licet). Tucci è un abile narratore, ben capace di suscitare lo stupore estetico dei suoi lettori:
« La fatica dell’ascesa ha fiaccato anche i carovanieri più resistenti. Marciano come bestie da soma, l’occhio a terra, ciechi ed insensibili a quel trionfo di bellezza in cui noi sentiamo la presenza di Dio. Camminare come essi fanno mi sembrerebbe inutile tormento. Abbiamo lasciato alle nostre spalle le gole anguste e tetre: di fronte a noi si apre a perdita d’occhio l’ondeggiamento delle montagne tibetane: rocce nude e multicolori, ora dune immense di deserto sterminato, ora immani castelli di ciclopi. Il cielo di turchese distende velami azzurri che che quasi nascondono in una trasparenza luminosa le cime più alte »18.
Il passo, già evidentemente significativo, così continua:
« Giù per il pianoro in leggero declivio, scendiamo a Taklakot, uno sperone giallastro sormontato da un’erta corona di rocce a picco che si frantumano in ciottolaia franante nel fiume. Sulle pareti quasi inaccessibili occhieggiano le celle degli anacoreti e gli eremi invernali dei monaci »19.
C’è una tempera di Buzzati, La parete (1958), che viene correttamente associata all’assidua frequentazione delle Dolomiti da parte dello scrittore; la si può ammirare sulla copertina dell’edizione « Classici Moderni Oscar Mondadori » (Milano, 1989) di Il deserto dei Tartari. Nel catalogo della mostra « Dino Buzzati: parole e colori » , il quadro è accompagnato da un brano narrativo, egualmente intitolato La parete. Ivi si racconta di un’escursione sulla « parete sud-est della Ota Muragl nelle Alpi Oniriche », immaginaria pendice rocciosa, « popolata da gente che scriveva in piccoli uffici, leggeva, lavorava, ma per lo piú si affollava a far chiacchiere nei caffè sistemati sulle cenge e in certe caverne »20. Il tema dell’edificio-formicaio è peculiare nella narrativa come nella pittura di Buzzati. Colpisce tuttavia la somiglianza tra le buzzatiane pareti rocciose abitate e quell’occhieggiare di celle ed eremi più d’una volta descritto da Tucci nel suo resoconto di viaggio21. Anche la tappa di Mangnang (agosto 1935) offre immagini « buzzatiane »:
« Con marcia breve ma faticosa [...] siamo arrivati sulle ampie rive del Mangnang passando sotto il forte di Senge Dsong; una montagna ostile che non offre nessun punto di accesso. Le pareti salgono erte come muraglie: tutto il monte sembra un torrione gigantesco. Non é improbabile che anticamente le vie al forte fossero scavate nell’interno dei suoi fianchi argillosi. Finestre che si aprono a rari intervalli sulle rupi a picco sembrerebbero indicarlo »22.
Le non rare considerazioni di Tucci sul rapporto tra paesaggio e psicologia ravvivano di continuo il confronto tra il viaggio di esplorazione di Tucci e il viaggio esistenziale di Drogo; ragion per cui, non ci sembra sufficiente giustificare le analogie di atteggiamento contemplativo tra il narratore tucciano e quello buzzatiano, con la mera concomitanza di aspetti suggestivi tra le Dolomiti e il Tibet, con una semplice sintonia estetica tra due assidui frequentatori di montagne. Peraltro, il resoconto di Tucci offre molti altri spunti di riflessione, per una proficua comparazione tra le due scritture in oggetto, tra le quali vige non meno di un’intensa empatia.
In Tibet, patria del Libro dei morti23, il tema della morte e della metempsicosi è imprescindibile: « più che alla vita e alle sue recondite sorgenti – spiega Tucci – l’orientale guarda alla morte e all’incessante rinnovarsi delle cose »24. I pellegrini esposti alle intemperie accettano ogni disagio con impassibilità: « la morte incontrata durante il pellegrinaggio è come la porta del cielo e la conclusione di questo tormentoso viaggio che è il vivere »25. Come non pensare all’anziano maggiore Drogo, in viaggio di ritorno verso casa, malato, colto dall’intuizione della « verità » pochi attimi prima di morire? Il « dramma della vita », considera Tucci, è per il buddismo un « dramma necessario, perché non vi può essere palingenesi senza che vi sia stata prima genesi, se con piena consapevolezza non si compia a ritroso quel lungo cammino per cui ciò che era nella mente di Dio si è dispiegato nella realtà visibile e concreta della vita »26. Coloro che pervengono a « questa consapevolezza redentrice » , i « sadhu », i « perfetti », hanno superato, in tale consapevole unità con l’Essere, tutti i contrari, gli opposti, le relatività e le contingenze che cozzano inconciliabili nel divenire »27.
Peraltro, spiega un « sadhu » a Tucci,
« la gente non può tutta sollevarsi d’un tratto alle vette della nostra contemplazione: la vita dello spirito è un’ascesa – chi comincia da lontano chi da vicino; ma se le vie sono diverse – e debbono essere necessariamente diverse, perché gli uomini pensano, comprendono e sentono in maniera diversa – se le vie sono diverse, uno solo il punto di arrivo »28.
Nelle prime pagine della relazione di viaggio, il lettore aveva già avvertito la prospettiva filosofica caratteristica dei popoli che Tucci gli avrebbe fatto incontrare: « questa serenità spirituale non si conquista d’un tratto: deve essere preceduta da rinunce penose, da lotte e da travagli tremendi, quasi solenne preparazione a quella beatitudine interiore che ci permette di guardare in faccia al più grande dei misteri: al mistero della morte »29.
Per gli asceti tibetani, dice Tucci, la vita è
« contemplazione e meditazione: il turbine che agita noi occidentali e ci conduce rabbiosamente verso il temuto nulla, senza che abbiamo avuto il tempo di riflettere sul perché della nostra vita, è ignoto a questi romiti »30.
Chi aspiri alla « verità » e alla « beatitudine » deve « sentirne l’ansia e la sete, e cominciare da solo, ubbidendo a un prepotente impulso interiore, la difficile ascesa »31. Ricordiamo allora il giovane tenente Drogo iniziare solitario l’ascesa verso la fortezza Bastiani, in preda ad oscure sensazioni, « un vago presentimento di cose fatali »32, che la breve compagnia dell’amico Vescovi non riesce a diradare; e lo vediamo, lungo il suo viaggio esistenziale, solo nelle sue riflessioni, nei suoi dialoghi con se stesso, nelle sue intuizioni graduali, fino agli attimi finali, « solo nella camera », « solo al mondo e malato », « nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine »33. È nella solitudine che comprende come fosse stata « povera cosa [...] quell’affannarsi sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa »34; è nella « terra desolata » del Tibet, racconta Tucci, che
« siamo come smarriti in un’afona solitudine; in tali silenzi l’uomo sembra confondersi con le forze cosmiche; scompare in lui ogni velleità demiurgica; lo abbandona il demone che lo sospinge ad inseguire le sue tragiche fantasie e i suoi sogni folli. Lo riafferra il senso dell’unità elementare delle cose; germoglio espresso dalla terra egli si spersonifica identificandosi con la versiforme energia fluente nel Tutto »35.
Non sorprende che ciò accada in mezzo a quelle montagne,
« perché non si può immaginare terra più di questa capace di mettere l’uomo in contatto con l’eterno: l’immensità triste e le catene di monti che pare non abbiano fine suscitano ardori di rinuncia »36.
Giovanni Drogo non è nato eroe: come la maggioranza dei suoi simili prima di pervenire all’illuminazione finale deve percorrere il proprio arduo cammino di conoscenza, per arrivare a comprendere solo in punto di morte la vanità delle sue ambizioni terrene, l’importanza della rinuncia al mondo delle apparenze37. Solo i « sadhu » , i maestri del sapere filosofico buddista, sono veri « eroi della rinuncia, scrutatori sagaci delle profondità del nostro io, mirabili evocatori delle forze in esso latenti ed esperti investigatori delle recondite e pur innegabili vie che uniscono il mondo dell’animo con quello del corpo »38.
Tuttavia, « molti dei santoni che vanno raminghi per l’India e campano la vita speculando sulla credulità delle folle sono una parodia dei sempre più rozzi e nobili superstiti di un mondo che lentamente scompare », lamenta Tucci39. Egli accenna qui a un tema che sembra stargli molto a cuore, e che ancora una volta ci spinge a riscontrare analogie in Il deserto dei Tartari: la vanità dei riti ormai svuotati del significato originario. Nell’opera di Buzzati, incontriamo Drogo in frequente contrasto con l’assurda applicazione di regole, che superano il comune buon senso, la logica e persino l’umanità degli individui: si pensi al divieto di osservare la pianura del Nord fuori dall’orario di servizio40, alle elucubrazioni di Tronk, individuo con una fisionomia da monaco, sui turni di guardia, al rituale della parola d’ordine che costa la vita a Lazzari41. « Solo con Tronk – rivela il narratore buzzatiano - i soldati seguivano alla lettera il regolamento»42. Di un amico asceta Tucci scrive: « Il Tibet occidentale avrebbe bisogno di molti uomini come il mio amico: ne avrebbe bisogno per ridare alla fede l’ardore d’un tempo, per restaurare il trionfo dello spirito sul cieco rispetto della lettera [...] »43. La vita militare nella Fortezza Bastiani, presso il deserto dei Tartari, con l’isolamento cui costringe i suoi abitanti, consuma la sensibilità estetica, rende sordi e ciechi gli individui al richiamo di tutto ciò che non riguardi la percezione del nemico, isterilisce la vita interiore nel pedissequo routinario rispetto dei regolamenti. I soldati sorvegliano i confini di un ambiente ideale per la meditazione e per la ricerca di risposte esistenziali, ma la maggior parte di loro non ne coglie l’intima essenza, « ciechi ed insensibili – come i carovanieri di Tucci - a quel trionfo di bellezza ».
Un altro personaggio simbolo della grettezza di chi non ha saputo trarre profitto dalla propria situazione di isolamento è il maggiore Matti, « sempre col regolamento alla mano per soffocare ogni cosa piacevole, ogni tentativo di personale respiro »44.
Tuttavia molti, alla Fortezza Bastiani, vengono colti dallo stupore come Drogo45, e a poco a poco si abituano, benché si perdano dietro al falso obiettivo della difesa eroica da un attacco nemico, in attesa del quale sopportano l’isolamento e si aggrappano all’esecuzione di formali regole militari, senza progredire da un punto di vista cognitivo, dissipando l’iniziale carica suggestiva infusa loro dall’ambiente montuoso-desertico. Di tanto in tanto qualcuno, talora « non [...] molto intelligente », è perciò ben contento di rientrare, di andare « a spasso per la città »46.
Nel suo diario di viaggio in Tibet, Tucci annota molte volte la presenza di costruzioni, dai semplici ruderi agli edifici ancora abitati, che via via definisce « fortilizi » o « castelli », « conventi » o « monasteri ». Si tratta talora di costruzioni ibride, come a Taklakot: qui intorno ai resti di un tempio si riconoscono « difese posticce di muri a secco e pietre accatastate alla rinfusa »47. Sono le tracce probabili del passaggio di un famoso e ormai mitico generale Zoravar Singh, della tribù dei Dogra, « che dopo aver conquistato il Ladak ideò la folle impresa di saccheggiare il Tibet e di spogliare Lhasa dei suoi leggendari tesori (1842) », e « fece deserto sulla sua strada », morendo in battaglia, « da eroe come era vissuto »48. Incuriosisce l’assonanza tra il nome della stirpe del generale e quello dell’eroe buzzatiano, così come l’antitesi tra la fine dell’uno e quella dell’altro49. Ma il luogo che, sebbene « sulla via del ritorno verso il Ladak e il Kashmir [...] sembra [...] portare ancora più lontano dal mondo, verso nuove solitudini e nuovi silenzi »50, è Tashigang. Qui, « sui dirupi della montagna che domina il paese [...] salgono le mura merlate di un castello di rovina; forse l’antica dimora dei principi di Namru o posto di guardia sul vecchio confine »51. Tucci si trova infatti in una zona di frontiera, « luogo celebre nella storia del Tibet occidentale e del Ladak: fu qui che si rifugiarono i resti dell’armata mongolo-tibetana sconfitta a Basgo dalle truppe ladache alleate con la forza dei Moghul52: e fu di qua che passò la furia devastatrice di Zoravar »53. Qui, apprendiamo, « il castello costruito dagli antichi re è stato trasformato in convento [...] »54.
Nel repertorio fotografico che accompagna l’edizione Newton Compton di Tibet ignoto, spicca un’immagine di « Tashigang ai confini fra il Tibet ed il Ladak: convento e rovine del vecchio castello ». Vale la pena, almeno per curiosità, di dare un’occhiata a quest’antica foto in bianco e nero: potrà essere uguale a molte altre, raffiguranti castelli e monasteri, ma a noi, che dinanzi agli occhi abbiamo il diario di Tucci e il romanzo di Buzzati, sembra di vedere la Fortezza Bastiani55.
« Ma di questi gaudi non si può fare discorso: sono tesori che si custodiscono nel fondo dell’anima e più uno ne parla e più essi si offuscano » (G. Tucci).
Vittorio Caratozzolo:
Genova, 28/03/1960
Laurea in Storia Moderna e in Lingue (Genova, 1983, 1985)
Dottorato in Italianistica (Zurigo, 1997) e in Iberistica (Bologna, 1999)
Docente di Italiano e di Italiano L2 presso la Scuola media "G. Bresadola" di Trento.
Principali pubblicazioni:
- La finestra sul deserto. A oriente di Buzzati, Acireale-Roma, Bonanno, 2006.
www.bonannoeditore.com/bonanno/scheda_libro.asp?id=527
Il mio quaderno di poesia, Vittorio Veneto, Kellermann, 2008, pp. 80
[poesie celebri ricopiate a mano e illustrate]
www.kellermanneditore.it/default.php?page=catalogo_novita
- Scrivere come Frankenstein. Elementi di chirurgia testuale, Molfetta, La Meridiana, 2007, pp. 174 [esilaranti/poetiche elaborazioni di celebri testi letterari]
www.lameridiana.it/default2.asp
- Viaggiatori in Egitto. Vicente Blasco Ibáñez, Eça de Queirós, Giuseppe Ungaretti, Torino, Ananke, 2007, pp. 110.
http://www.ananke-edizioni.com/clienti/cl001/big278.jpgrate]
- Valencia, una città-mondo, Milano, Unicopli, 2007, pp. 184 [una guida della città attraverso le opere di Vicente Blasco Ibáñez]
www.edizioniunicopli.it
- G. Vicente, La Farsa di Inés Pereira, Roma, Carocci, 1994 pp. 130 [introduz., trad., note].
- G. Vicente, Il Giudice della Beira, Roma, Carocci, 2006, pp. 108 [c. s.].
- Il teatro di Gertrudis Gòmez de Avellaneda, Bologna, Il Capitello del Sole, 2002, pp. 360.
- L' <<inverecondia categorica>> di "Un amore" tra prostituzione testuale e necessità, in AA.VV., LA SAGGEZZA DEL MISTERO. Saggi su Dino Buzzati, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo, pp. 97-140.
Disponibili, inoltre, on-line:
- Cinque variazioni sul "Don Giovanni" di Da Ponte-Mozart.
www.lulu.com/content/2459660
- Attraverso i "Quadri di un'esposizione" di M. Mussorgskij.
www.lulu.com/content/2313408
La versione bilingue ladino-italiano di questo testo è stata pubblicata nel mese di ottobre 2008 dall'Istituto Ladino di Fassa (TN), in un audiolibro illustrato dagli studenti dell'Istituto d'Arte di Fassa.
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