In Italia, terra del mio ormai lungo asilo, mi hanno più volte chiesto notizie su Aleksandar Hemon: se lo conosco, se avevo letto i suoi libri. Dicono che viva a Chicago, che scriva in inglese. Lo leggono, e molto. È stato tradotto, pare, in molte lingue. Talvolta, dicono, torna anche nella natia Sarajevo. L’età che ho non mi concede più di seguire proprio tutto quello che viene pubblicato sia nella ex Jugoslavia, che all’estero. Naturalmente, quello che concerne il tema del mio Paese di una volta, mio e di centinaia migliaia di coloro che non vivono più in nessuno dei nuovi Stati creatisi dopo la dissoluzione della Jugoslavia. Da molto tempo sono, aggiungo, fuori. Quando torno dentro, nel corso del mio turismo occasionale a Sarajevo, a Banja Luka, a Subotica o a Zagabria, faccio fatica a raccapezzarmi anche nelle librerie. Numerosi nomi nuovi, ancora più numerosa è la letteratura che richiede di essere compresa. Così suonano le mie risposte. Poi mi riprometto da tempo: un giorno devo leggere almeno uno dei libri di questo giovane scrittore.
Il libro dei racconti The question of Bruno di Hemon, in italiano Spie di Dio, pubblicato dall’editore torinese Einaudi, l’ho preso in prestito l’anno scorso in una delle biblioteche di Udine. Il caso volle che mi recai là per trovare alcune opere di Ivo Andrić e di Danilo Kiš in italiano. Cominciai a leggere le Spie di Dio in treno, sulla tratta Udine-Padova, un giorno verso la fine dell’anno scorso. Nel momento in cui il treno si era fermato per un guasto, nel mezzo di una fitta nebbia, ero arrivato con la lettura alla pagina 33, vale a dire fino alla fine del secondo racconto intitolato “La vita e l’opera di Alfons Kaunders”. A piè di pagina di quel racconto trovo questa nota:
Ivo Andrić, bosniaco, è l’unico autore jugoslavo ad aver vinto il premio Nobel. Nel 1941, quando lavorava all’ambasciata jugoslava a Berlino, contribuì a organizzare incontri tra Hitler e i politici jugoslavi collaborazionisti. Era un gentiluomo che scrisse alcuni romanzi su come la gente finisce per restare intrappolata nella storia. Alla cerimonia di consegna del premio, parlò dell’importanza dei ponti. In gioventù fu tra coloro che organizzarono l’assassinio dell’arciduca.
Aleksandar Hemon
Così, con un ritardo di sette anni, lessi come nel libro Spie di Dio A. Hemon presenta ai lettori, prima di tutto a quelli americani, Ivo Andrić. Non vorrei addentrarmi in quello che scrive su Andrić nel sopra citato racconto. Moltissimi lettori, tra coloro che si considerano solo e soltanto lettori, credo, potrebbero pensare che si tratti di una semplice volgarizzazione. Non importa, lascerò questo argomento alla libertà poetica nella quale hanno trovato il proprio posto anche Tito, Gavrilo Princip, Rosa Luxemburg… Vorrei soffermarmi soltanto sulla nota a piè di pagina. (E parlerei pure, ne ho già dato notizia, della fitta nebbia la quale passavo come se mi spostassi attraverso un fitto strato di cotone).
Mi stupisce però, sempre che lo stupore possa ancora essere una caratteristica del bipede detto lettore, che questa nota a piè di pagina sia sfuggita tanto ai critici, quanto agli esperti della nostra letteratura, vuoi nella ex Jugoslavia, che nel resto del mondo.
(Nel paese in cui sono straniero, ho avuto occasione di conoscere pure certi mandarini universitari i quali, al solo nominare Andrić, partono in quinta). Certo, a coloro che non hanno letto il racconto di Hemon va subito il mio perdono. Spero che sia perdonato pure l’autore del presente testo, nel caso in cui venga dimostrato il contrario. Vale a dire nel caso in cui ci siano state reazioni a questa nota. Perché Aleksandar Hemon applica il metodo della riduzione della vita e dell’opera di Andrić, perché riduce tutto a componenti estrapolate e spiegate nella maniera della sua nota? Lo avrà fatto il suo redattore, e lo scrittore ha semplicemente accettato la sua proposta? Le stesse domande le avevo poste all’autore tramite posta elettronica. Sono domande rimaste senza risposta. (A dire il vero, in Italia da molto tempo vige la cultura della non risposta, e ciò è condizionato dall’esistenza delle caste, anche nel campo culturale, perciò un simile fatto non mi sorprende più di tanto). Forse l’autore ha sentito un senso di vergogna? Non lo so, ma finché non mi fornisce una spiegazione vorrei rammentargli che su Andrić nel Paese di sua provenienza esistono studi seri, ottimi saggi i quali, tra l’altro, forniscono pure i dati della vita dello scrittore. Nessuno degli studiosi seri, i quali hanno analizzato e analizzano Andrić (Karaulac, Lovrenović… per nominare soltanto due) hanno trattato Andrić a mo’ di icona, e neppure come personaggio da prendere sotto una specie di tutela. Nel volume I segni lungo la strada, lo stesso Andrić ne parla, in alcuni punti addirittura in modo esplicito.
Se Hemon avesse per caso consultato almeno Dedijer, non avrebbe scritto neppure quello che ha scritto sull’attentato. Avrebbe potuto informarsi, e non solo da questo storico, che Andrić faceva parte del movimento “Mlada Bosna”, ma che non era stato né tra coloro che fecero l’attentato, né nella più stretta cerchia degli organizzatori. E se Hemon avesse sbirciato, non dico tra i libri, ma almeno sui siti Internet, avrebbe potuto informarsi che in occasione del conferimento del premio Nobel, Andrić non parlò dei ponti bensì parlò “Del racconto e del raccontare”.
(Mi dicono che Hemon scriva le prefazioni per alcune edizioni dei nostri libri in America. Sento che aveva scritto pure di Danilo Kiš. Di quello stesso Kiš il quale prima di morire compilò un eccezionale racconto Omaggio, hommage a Ivo Andrić. Di quello stesso Kiš il quale parla di Andrić come di un maestro. Ma forse il segreto giace altrove, forse giace nel fatto che gli editori occidentali spesso cercano il turbante sotto il quale non c’è l’imam. Chi mai si preoccuperà se colui che scrive abbia mai studiato Andrić, Krleža, Crnjanski, Selimović? Osservato da questa angolatura, il libro è soprattutto una merce da vendere. Accomodatevi, acquirenti, prego! “Ora, ecco, abbiamo anche un nuovo Andrić uscito fresco dalla bottega di Hemon, per il mercato americano e per gli altri mercati!”
Per quanto concerne il ruolo di Andrić a Berlino, il materiale per confutare quanto detto da Hemon, è copioso. In quella story of Berlin, come Hemon vorrebbe sottolineare, si può trovare anche il dato che il 25 marzo 1941 Andrić era un funzionario in dimissione. Della sua umanità parlano le ricerche le quali dimostrano di come proprio lui tentava di far pressione alle autorità tedesche affinché fossero salvati centinaia di intellettuali polacchi. È forse necessario ripetere quella santa massima sull’uomo che salva un altro uomo? Vale a dire che, rinfreschiamo la memoria, colui che ha salvato un uomo ha salvato l’intera umanità. Non credo che sia troppo se rammento: Andrić non è stato Hamsun. Dicono sia stato un gentiluomo. Di ciò neppure Hemon è in disaccordo, ma non informa che quel gentiluomo, nel 1962, aveva donato la metà dell’importo del premio Nobel al Fondo bibliotecario della Bosnia Erzegovina, e tre anni più tardi donò anche il resto. Credo che soltanto l’autore della Spia di Dio potrebbe fornire spiegazioni e i motivi della sua nota su Andrić. Allo stesso modo potrebbero farsi vivi tutti gli esperti i quali hanno letto il libro in questione, spiegando il motivo del loro silenzio. (Ma forse soltanto Crnjanski potrebbe meglio di tutti darci una spiegazione. Una volta gli domandarono perché per il suo Romanzo di Londra aveva scelto come protagonisti i russi? La sua risposta fu eloquente: perché soltanto la nostra emigrazione era più misera di tutte).
Infine, mi stupisco come una simile nota abbia potuto trovar la strada della pubblicazione presso un editore che non è un editore qualsiasi, bensì è Einaudi, che vanta una grande storia. Se si tratta di un errore, allora neppure tutti gli errori sono uguali.
Ma torno un attimo a Hemon. Un mio conoscente di Milano, grande esperto di letterature scandinave, mi dice che su Ibsen o su Strindberg nessuno osa buttare fango. Hemon lo sa? Possiamo forse immaginare che qualcuno butti fango o spari fandonie su Göethe oppure, mettiamola così, su Dostojevskij? Le critiche sono benvenute! Ma il fango?
Chi lo sa, forse sul monte di libri venduti intorno a questo autore della nota a piè di pagina si condenserà una nebbia ancora più fitta di quella che mi circondava quella mattina? Qualcuno, ai pendii, teme che da quella altezza non sia infangato? È vero, lo dovrebbero sapere meglio coloro che si intendono di montagne simili.
Mi ha consolato per un momento il fatto che, almeno, dopo la partenza del treno, la nebbia della pianura padana fosse stata naturale.
Bozidar Stanisic è nato a Visoko (Bosnia) nel 1956. Già professore di lettere a Maglaj, località a nord di Sarajevo, dal 1992 vive con la sua famiglia a Zugliano, in Friuli. Oltre ad offrire il suo attivo contributo letterario, pubblicistico ed educativo a diverse iniziative di pace e non violenza per i diritti civili dei rifugiati e degli stranieri, Stanisic ha sempre collaborato alle inizative culturali dell'Associazione - Centro di accoglienza "E. Balducci", con cui ha pubblicato le raccolte poetiche Primavera a Zugliano (1994), Non-poesie (1995) e Metamorfosi di finestre (1998). Diverse di queste liriche sono state incluse nel Quaderno Balcanico I della collana Cittadini della poesia, diretta da Mia Lecomte (Loggia de' Lanzi ed. 1998) e in Conflitti - Poesie delle molte guerre, a cura di Idolina Landolfi, (Avagliano ed. 2001). In prosa, oltre a numerosi contributi letterari e saggistici in riviste e quotidiani, ha pubblicato le raccolte di racconti I buchi neri di Sarajevo (Trieste 1993), uno dei quali è stato inserito nel Dizionario di un paese che scompare, a cura di Nicole Janigro (Roma 1994), Tre racconti (Associazione - Centro di accoglienza "E. Balducci ed. 2002) e Bon voyage ( nuova dimensione ed.2003); ed è presente con un racconto in Provincia pagana, Storie dell'estremo Nord-Est - un'antologia di fine millenio, a cura di Gianni Spizzo (Trieste 1999).
Alcuni dei suoi lavori sono tradotti in sloveno, francese e albanese.
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