1. Non ci sono luoghi che accendano tanto la nostra fantasia
di europei come il Brasile, che ha tradizionalmente costituito nel nostro immaginario
una specie di altrove edenico su cui si proiettano desideri, sogni, attese, a
volte anche incubi e ossessioni. La prima conseguenza di questa condizione per
certi versi privilegiata, dal punto di vista della comunicazione o dell'immagine,
è la messe di stereotipi che si generano sul piano delle rappresentazioni
e delle retoriche. Basta prendere in mano qualunque brochure o pubblicità
turistica a stretto uso e consumo europeo per scorgere la forza del luogo comune.
Il fenomeno non è grave. Anzi. Esso alimenta le politiche promozionali
a sostegno del turismo di massa, dove il Brasile offre pacchetti perfettamente
confezionati, che non deludono mai le attese dei consumatori. Se
però dal luogo comune si vuoi passare a una riflessione “seria” intorno
alla cultura brasiliana, ecco allora che dimensioni e pervicacia degli stereotipi
possono nuocere alla conoscenza del Brasile “vero”. Vi è sempre una tendenza
alla semplificazione o mistificazione quando si parla di Brasile e di cultura
brasiliana, anche in quei contesti dove ci si aspetterebbe al contrario un approccio
ben più documentato. Un filtro fa da schermo alla conoscenza di una
realtà complessa e in fondo inafferrabile (“Il Brasile non è per
principianti” filosofava il celebre musicista e padre della bossa nova
, Tom Jobim). Un deposito di codici distorti e impropri che rende ancor più
difficile, se non impossibile, decifrare una cultura che costituisce una delle
riserve di diversità culturale più vaste del pianeta. Tuttavia,
sarebbe inesatto considerare lo stereotipo esterno nei confronti del Brasile l'unico
filtro che oscura un contatto più diretto e veritiero con la realtà
brasiliana. Infatti, la stessa complessità – umana, geografica, storica,
culturale – di questa realtà, produce a sua volta una vasta rete di stereotipi
ad uso e consumo interno, che rappresenta un ulteriore ostacolo a una comprensione
più ampia della cultura brasiliana. Tali luoghi comuni, interni ed esterni,
sono pertanto alla base dei secolari stereotipi prossimi o remoti di cui il Brasile
è al contempo fonte e destinatario. Ricercare le radici di tali stereotipi
costituisce un buon modo per avviare una riflessione non epidermica sulla cultura
del Brasile. 2. Nella storia della cultura
brasiliana, c'è un momento, tra gli inizi del Novecento e gli anni Venti,
in cui il modernismo di matrice paulista elabora un'ideologia del moderno strettamente
collegata alla capitale «morale» del Brasile – la San Paolo prima
del caffè, poi dell'industria. In questa fase, la storia culturale del
paese e le sue ingombranti radici coloniali vengono rivisitate in chiave critica
a partire da una rimozione degli stereotipi che si sono prodotti nel corso dei
secoli e disseminati nei meandri della mitologica «cultura nazionale»,
ormai maturata dopo quasi un secolo di indipendenza politica. Le
appendici di questi “mali dell'origine” (titolo di un'importante monografia di
inizio Novecento di Manoel Bonfim, América latina: males de origem
), dal punto di vista della costruzione dei primi luoghi comuni che filtrano
la rappresentazione del Brasile, sono profonde: risalgono alla nascita stessa
(o alla «riscoperta», dal punto di vista portoghese), ad inizio Cinquecento,
del nuovo mondo brasiliano. L'idea di un approdo, di uno sbarco che in verità
è un ritorno in un luogo sepolto della geografia immaginaria dell'Occidente
medioevale, collegata al mito dell'isola paradisiaca perduta dagli europei, condiziona
da subito le prime rappresentazioni del Brasile. Il tratto edenico del Brasile-Paradiso
terrestre, alimentato dalla natura esuberante e incontaminata, da un'umanità
bella, salubre e innocente, che avrebbe forse potuto riscattare la corruzione
morale del viaggiatore europeo favorendone una possibile palingenesi, è
presente nel documento più famoso relativo allo sbarco della flotta di
Cabral nella Terra della Vera Croce: quella Lettera di Pero Vaz de Caminha
che, sul filo di uno pseudodiario mimetico, interpreta già attraverso un
filtro mitico la realtà del Nuovo Mondo. Da questa soglia in poi, sino
al Novecento, tale atto cli fondazione simbolica del Brasile farà dunque
sì che questa terra si connoti sempre in senso fortemente metaforico. Se
la fondazione del Brasile già si apre a una deriva edenica, qualche decennio
più tardi, quando si avvia la fase di costruzione della colonia, essa si
combina con l'altra e opposta immagine dell'America portoghese. Il Paradiso
terrestre è contiguo allo spazio infernale e diabolico non tanto della
natura, quanto dell'indio dedito a pratiche insane e censurabili come la lussuria,
il cannibalismo e, soprattutto, la pigrizia indolente, che non permette il suo
inserimento nel sistema di sfruttamento coloniale. Del resto, se il Brasile
fosse stato un Eden ritrovato dai portoghesi, che bisogno vi sarebbe stato di
una colonizzazione che ne correggesse la storia e, nel giro di un secolo e mezzo,
lo trasformasse nell'opulento e dorato Secondo Impero portoghese? Sin dalle origini,
sono dunque già operanti tutti i miti culturali che funzioneranno
in sincronia con il progetto coloniale e su cui farà leva la società
autoritaria, come sostiene la filosofa uspiana Marilena Chaui. I
miti nativisti che esaltano la grandezza del Brasile rimarranno tenacemente avviluppati
nell'involucro della cultura coloniale prima, di quella nazionale poi, giungendo
a condizionare anche la nascita dell'ideologia moderna dello Stato repubblicano.
L'apice di tale processo è costituito dal celebre libello nazionalista
– Por que me ufano do meu país (Perché mi vanto del mio
paese) – scritto dal figlio del visconte di Ouro Preto, Afonso Celso, sulla soglia
del Novecento, in occasione dei 400 anni dalla scoperta del Brasile. Il pamphlet
dà alla corrente dell'orgoglio retorico e patriottico l'ideologia
che le mancava. Nasce così l'ufanismo, che si propagherà nei
meandri autoritari della storia novecentesca, come negli anni di piombo della
dittatura militare (1964-1985), quando la stagione di tortura, barbarie politica
ed esili si motivava con lo slogan patriottico “Brasil: ame-o ou deixe-o” (“Brasile:
amalo o lascialo”). La modernità culturale
brasiliana si può sinteticamente rappresentare come una reazione consapevole
all'immenso archivio figurativo delle rappresentazioni consacrate del Brasile.
Già a fine Ottocento il romanziere simbolo della letteratura brasiliana,
Machado de Assis, demolisce alcuni cliché di una modernità solo
di superficie e periferica, propri della élite nazionale. È
tuttavia alle soglie della modernità culturale novecentesca che gli stereotipi
falsi, le ipostatizzazioni mitiche del Brasile declamatorio sono attaccate al
cuore. Il pioniere di tale esercizio dissacratorio rivolto a uno smascheramento
di un “reale” occultato, è lo scrittore Lima Barreto, “premodernista” mulatto
e povero, flâneur massimalista della Rio della belle époque.
In Triste fim de Policarpo Quaresma (1911), la retorica ufanista viene
demolita attraverso la falsa ingenuità della sua traduzione in atto, che
converte le utopie millantate della grandezza brasiliana in catastrofi storiche,
al punto da trasformare la farsa storica della Repubblica in tragedia. Saranno
poi i modernisti paulisti, in tempi più maturi, a rovesciare del tutto
l'archivio di immagini distorte del Brasile astratto, rivendicando un'idea di
moderno che è innanzitutto una riscoperta della realtà al di
fuori delle maschere dei luoghi comuni. Un'originalità che si fonderà
sulle insufficienze di un'identità condannata all'indefinizione, a
essere permanentemente instabile e polimorfica. Come il Brasile che intende rappresentare,
insomma. Su questo terreno di revisioni, si radicheranno
poi i migliori saggi di autointerpretazione della formazione brasiliana,
come per esempio Raízes do Brasil (1936) di Sérgio Buarque
de Holanda, che ricostruisce, con lo sguardo sul presente inquieto, la storia
della colonia e del suo passaggio incompiuto a nazione non solo in chiave antimonumentalistica,
ma anzi attraverso una critica impietosa alla sopravvivenza delle cattive
radici dell'esperienza coloniale, che il Brasile ha avuto in lascito dal Portogallo.
3. Pensare oggi alla cultura brasiliana vuole
dire in primo luogo districarsi in un labirinto di immaginari formatisi sin dall'inizio
della storia moderna del paese e che hanno costituito un resistentissimo deposito
di codici. Tali preconcetti finiscono col mettere a repentaglio qualunque approccio
al Brasile reale, anche perché – come insegna Walter Lippmann, che della
traslazione lessicale di stereotipo fu l'artefice – essi restituiscono una visione
complessivamente coerente e dunque, in un certo senso, confortante di una realtà
invece molto più drammatica e perturbante. Del
resto, il turista che si reca in Brasile ritorna, salvo imprevisti, con l'impressione
che tutti i suoi miti siano stati ratificati dalla realtà. Il sostrato
edenico agisce non solo su quelli che gli inglesi definiscono i primati brasiliani
della «lettera S. (Sun, Samba, Sands, Soccer, Sex), appiattendo un paese
ricchissimo in termini di diversità culturale, ma anche sull'indiscusso
primato che si attribuisce alla festa nella configurazione del tempo storico brasiliano.
Il carnevale, minimizzato a fenomeno puramente esteriore e non inteso come epifania
culturale, dove la dialettica tra ordine e disordine mostra la sua tragica insolubilità,
è considerato, alla stregua del calcio, il tratto pieno di identificazione
della "brasilianità". In egual modo
opera anche un preconcetto opposto, secondo cui la violenza – che è
un problema vero e non astratto del Brasile, in particolare a Rio de Janeiro –
è considerata così pervasiva da non risparmiare alcun turista. A
tale visione non si può che contrapporre quanto la sociologia brasiliana
ha da sempre evidenziato, ovvero come un paese segnato da conflitti così
aspri produca tutto sommato meno violenza di quanto ci si potrebbe aspettare,
proprio per le reti comunitarie in esso ancora esistenti. A
questo apparato di preconcetti proprio di chi guarda il Brasile dall'esterno,
si sommano, come già accennato, gli stereotipi per così dire interni,
che gli stessi brasiliani hanno fondato e di cui sono, in qualche modo, artefici
e vittime. Si tratta di stereotipi comunque funzionali a costruire e conservare
un'identità culturale di non facile rappresentabilità, refrattaria
alle sintesi facili. Anche qui, sorge una retorica
dualistica. L'antropologo Roberto Da Matta, in un memorabile saggio dal titolo
O que faz o brasil, Brasil (Cosa rende il brasile, Brasile), sonda i
luoghi comuni dell'autorappresentazione nazionale e mette in luce le due facce
della cultura brasiliana: quello espiatorio del Brasile piccolo e subalterno
e quello esaltatorio del Brasile dei miracoli nei tempi di crisi. Due cliché
non troppo distanti da quelli con cui da fuori si guarda a questo paese. Eppure,
egualmente densi di significato. Un esempio emblematico
è quello della “cordialità brasiliana”, quella tendenza a eliminare
le distanze, a chiamare tutti per nome, a rendere informale ogni circostanza,
anche quelle protocollari. Questo tratto del carattere brasiliano, in realtà,
solo all'apparenza costituisce un attributo positivo. La cordialità, infatti,
altro non è che la permanenza dei vincoli personalistici legati all'elemento
del favore, trapiantati in Brasile dai portoghesi, ma che ancora condizionerebbe
in profondità i rapporti pubblici e privati. La cordialità, in questa
prospettiva, spiega la relazione affatto complessa tra padroni e schiavi,
nel paese che per ultimo in Occidente (1888) proclama l'abolizione della schiavitù.
Laddove Io schiavo, da compagno di vita quotidiana dei signori delle fazendas
, poteva essere messo, da un istante all'altro, al pelourinho per la fustigazione,
in virtù del capriccio padronale. Nel Brasile
non più arcaico, le leggi non scritte dei vincoli personali sono giudicate
negative, perche impediscono la costruzione di un vero spazio pubblico, fondato
sull'impersonalità dei rapporti. Tuttavia, il familismo continua ad alimentare
numerose mitologie fondanti, come quella dell'indeterminatezza del confine tra
ordine e disordine, tra strada e casa, tra pubblico e privato, cui si associa
la visione del jeitinho (l'espediente) come il più appropriato
strumento d'azione all'interno della società brasiliana. Collegato
a tale stereotipo è quello tenace della decantata democrazia razziale.
Anch'esso di origine coloniale, stato fortemente alimentato da interpretazioni
come quella di Gilberto Freyre in Casa Grande & Senzala (1933),
che accredita il mito di una società miscigenada, di cui lo schiavo nero
elemento fondante al pari del padrone bianco, a testimonianza del presunto affiato
fraternizzatore della colonizzazione portoghese. Dopo la seconda guerra mondiale,
l'Unesco commissionò ad alcuni dei migliori scienziati sociali brasiliani
il compito di studiare i processi di costruzione della presunta democrazia razziale
e, al termine delle ricerche, gli studiosi giunsero alla conclusione che quello
della democrazia razziale era solo un radicatissimo luogo comune, quando in realtà
dominavano ancora il preconcetto e l'esclusione. Il che, a sua volta, indica
come lo smantellamento dello schiavismo si sia sostanziato in una sofisticata
operazione di fusione del vincolo tra razza e classe, tanto che ancora oggi il
colore della pelle è il contrassegno della condizione sociale. In
chiusura di questa carrellata di stereotipi ad uso interno, non può mancare
quello di un presente che funziona come il tempo delle avanguardie storiche, ovvero
come un'anticipazione del futuro. A fondare, almeno sul piano nominale, il luogo
comune del Brasil, País do futuro (1941), fu lo scrittore austriaco
Stefan Zweig, qui riparato per sfuggire al furore della repressione nazista. Ancora
oggi, la sensazione che il presente brasiliano sia un tempo di messianica attesa
di un dopo che verrà, è molto forte e si associa alla forte presenza
di popolazione giovane. Si tratta però di un futuro che non matura, di
un'attesa che non si compie, di un tempo sospeso e inquieto, al punto da
alimentare la sensazione di un Brasile "cronicamente impossibile", come
lo disegna il regista Sergio Bianchi. Forse aveva ragione Levi-Strauss quando,
rievocando nei Tristi tropici gli anni del suo soggiorno brasiliano,
scorge un tempo proprio delle città del Nuovo Mondo, che “senza fermarsi
alla maturità passano dal nuovo al decrepito”. 4.
Ma allora può esistere un modo corretto per pensare alla cultura brasiliana,
come contenitore delle molteplici culture non sovrapponibili che la costituiscono,
muovendo dalla pletora di stereotipi, esterni e interni, dalle sue rappresentazioni
e percezioni, che ne condizionano e segnano inesorabilmente il profilo? La
risposta alla domanda passa necessariamente per la coscienza della sostanziale
inafferrabilità del concetto di cultura brasiliana, la cui capacità
di resistenza all'erosione dei luoghi comuni risiede, come già evidenziato
dai modernisti, nella paradossale mancanza di una fisionomia determinata. Del
resto, proprio l'assenza di carattere ( Macunaíma. O herói sem
nenhum caráter , si intitola la rapsodia di Mário de Andrade
del 1928) e la capacità di incorporazione cannibalesca delle altre culture
(sempre nel 1928, Oswald de Andrade scrive il Manifesto antropófago
) costituiscono le più solide icone della modernità di una
cultura ibrida, mobile e polimorfica, che non si lascia fissare in formule stabili.
In questo senso, tale cultura ha in sé, come
si era compreso negli anni ruggenti dello sperimentalismo paulistano, gli anticorpi
per attaccare gli stereotipi con cui essa viene museificata. Così, in questo
continuo slancio vitalistico, che combina – pur senza risolverle – contemporaneità
e topografie culturali diverse, il Brasile può operare "la trasformazione
permanente del Tabù in totem" (Oswald). Per questo, non stupisce per
esempio che la estória più nota di João Guimarães
Rosa, A terceira margem do rio (La terza sponda del fiume, apologo di
un'identità cartesiana impossibile) possa essere messa in musica da Milton
Nascimento e in parole da Caetano Veloso, o che dall'universo degradato delle
periferie provenga la spinta al rinnovamento del cinema e della letteratura nazionali.
In questo senso, Gilberto Gil, attuale ministro della
Cultura brasiliano, attingendo all'inesauribile serbatoio della diversità
culturale nazionale, ha dimostrato che l'investimento in campo culturale costituisce
un moltiplicatore di crescita e di integrazione, nonché uno strumento essenziale
per correggere le secolari asimmetrie del Brasile. In
fondo, quello che si esige è solo una conoscenza rispettosa e attenta di
una cultura complessa e appassionante, non più esiliata in alcun paradiso
o inferno, ma saldamente ancorata al tempo e al luogo in cui si trova: un Brasile
che spera di produrre cittadinanza e non più esclusione. L'allegria, diceva
sempre Oswald de Andrade, è la prova del nove. (Tratto
dalla rivista Limes - rivista italiana di geopolitica, quaderno speciale: Brasile,
la stella del sud, edizione del giugno 2007.)
Roberto
Vecchi è professore associato confermato al dipartimento di Lingue
e letterature straniere moderne, facoltà di Lingue e letterature straniere,
Università di Bologna. |