Luisa Accati Parole rivelatrici
Nel 1968 io ero ancora all'Università,
stavo finendo, mi restava solo la tesi di laurea, a cui peraltro lavoravo già
da tempo. Ero già stata a Roma dove, all'Archivio di Stato, avevo raccolto
materiale sulla occupazione delle terre nel sud dell'Italia per il periodo 1921-22.
L'avrei discussa nel luglio del '68. Ero un po' più
vecchia di quelli che sarebbero stati i protagonisti del '68, nati perlopiù
fra il '45 e il '48, mentre io ero nata nel '42. Ero in ritardo rispetto ai miei
compagni di corso, già laureati, perché mi ero sposata nel '64 e
nel '66 avevo avuto una figlia. In sostanza, benché ci fossi, mi
sentivo ed ero in parte esterna a quel che capitava. In primo luogo partecipavo
alle assemblee solo se mia madre o mio marito o qualche baby sitter poteva
occuparsi di mia figlia e, comunque, sempre per spazi di tempo limitati. Questo
era largamente sufficiente per tagliarmi fuori dall'attività vera e propria,
frenetica, del movimento e dei gruppi. Ma non era solo questo a farmi sentire
esterna, del resto c'erano anche fra i leaders persone della mia età,
qualcuno era più vecchio e altri avevano figli. La mia situazione, intermittente
e marginale, mi metteva in una posizione di osservazione: una estraneità
partecipante che mi stava bene. Infatti quello che sentivo e vedevo mi sembrava
eccezionale ed entusiasmante, mi pareva che davvero qualcosa potesse finalmente
cambiare, ma c'erano anche tanti motivi di perplessità. Per
"rivoluzione" io immaginavo un fatto semplice: il rovesciamento delle
priorità, l'idea insomma che si facesse un progetto sociale partendo dal
bene comune, invece che partendo dagli interessi individuali, di casta e di corporazione.
Il sapore tattico e il tono profetico, misurato sulla rivoluzione russa e sul
leninismo che fioriva intorno alla parola "rivoluzione" nelle assemblee,
mi pareva astratto e non realizzabile, anni luce di là da venire. Per me
ottenere risultati concreti era troppo importante, non avevo gran interesse a
lavorare per un futuro mitico. Tuttavia non osavo
molto dirlo, perché pensavo di non conoscere a fondo la situazione e pertanto
di non potere valutarla bene e, per altro verso, la mia condizione di donna sposata
con una figlia mi faceva guardare con un certo sospetto dalle mie compagne. La
prossima rivoluzione mi sembrava in realtà lontanissima, anzi il gran parlarne
mi pareva un modo per differire obiettivi raggiungibili e concreti. Che
cosa intendevo per "obiettivi raggiungibili e concreti"? A me era sempre
parso che il tratto saliente della situazione italiana fosse una straordinaria
ignoranza della popolazione, coltivata nel tempo dalla Chiesa cattolica. Una straordinaria
ignoranza di come debba e possa funzionare una società di individui responsabili.
Quella in cui eravamo immersi era una cultura della delega morale all'autorità
ecclesiastica: una profonda sfiducia nelle capacità delle persone di gestire
se stesse che parrocchie e vescovadi, tanto più durante il fascismo, avevano
coltivato da sempre. Una cultura della dipendenza dall'autorità, dai suoi
luoghi comuni, dai suoi stereotipi, dalle sue immaginette: una cultura povera,
avvilita e avvilente, dove la superficialità dell'informazione era considerata
un buon strumento di governo. Cose semplici per i semplici che è bene che
restino semplici e senza pretese. Poiché il movimento era un movimento
studentesco e aveva i suoi leaders dentro l'università io speravo
in una trasformazione radicale dell'istruzione e della cultura. Immaginavo una
estensione a tutto il tessuto sociale della cultura cosiddetta alta, della cultura
critica e della cultura dei diritti e dei doveri. La cultura alta non mi pareva
infatti difficile per buoni motivi, ma semplicemente elitaria, deliberatamente
e inutilmente difficile, non perché dovesse esserlo, ma perche in parte
aveva una componente escludente. Dunque si trattava di tradurre il sapere e di
fare in modo che programmi e contenuti fossero riformati in vista di ampi obiettivi
di istruzione ai massimi livelli per tutti. Ragione critica per tutti, robusti
strumenti per uscire dalle imposture della religione. Liberare il paese dall'ignoranza
pretesca mi pareva un condizione preliminare a qualsiasi altra e mi pareva anche
liberatoria. Con la mente libera dalle illusioni si sarebbe trovata la strada
giusta anche per pareggiare o almeno per ridurre le disuguaglianze economiche.
La mia delusione diventava crescente osservando che
molti erano i bersagli politici dei miei compagni, ma mai si era nemmeno pensato
ad attaccare l'imperante cultura cattolica. Oggetto degli attacchi erano i professori,
i giudici, i padroni, i capi, i borghesi, i fascisti ma nessun vescovo, nessun
papa, nessuna monaca, nessun pregiudizio clericale. Le mie istanze culturali più
profonde non avevano nessuno spazio. Negli anni del
liceo avevo preso parte alle riunioni di una sezione socialista lombardiana, cioè
della sinistra socialista, e avevo anche frequentato assemblee di lavoratori metalmeccanici
alla Camera del Lavoro, nei limiti assai stretti che l'educazione severa della
mia famiglia mi lasciava. Non così stretti tuttavia da impedirmi di capire
l'importanza che a Torino avevano gli operai della Fiat e delle altre fabbriche,
non così stretti da impedirmi di osservare come questi operai fossero culturalmente
diversissimi dalle masse di ignoranti allevati dalle parrocchie. Il loro modo
di esprimersi, in un italiano dall'intenso accento piemontese, pieno di francesismi,
le loro richieste, le loro conoscenze dei modi e dei ritmi della produzione rivelavano
una cultura materialista, razionalista e concreta. Persone autonome e critiche,
persone che erano finalmente uscite dalla schiera dei semplici non chiedevano
né carità, né protezione. Proponevano aumenti di salario,
migliori condizioni di lavoro e avanzavano i diritti all'istruzione e alla previdenza:
una dignità sconosciuta ai semplici di pertinenza vescovile. Due
parole dominavano, infinitamente ripetute, negli interventi di tutti: lotta
e dio faus o, in forma abbreviata, diofà, un intercalare
essenziale, un segno di appartenenza. Tanto che spesso mi ero detta che la lotta
era contro la falsità, le illusioni, il futuribile immortale e contro il
falso dio, cioè il denaro, inteso come mezzo di potere, anziché
come mezzo per vivere meglio nella realtà non spirituale o falsamente spirituale
del mondo reale, materiale e fisico. Gli avversari
degli operai erano i padroni, il lavoro, riferimento morale e materiale per entrambe
le parti, il durissimo terreno di scontro. Sui padroni
la sapevo lunga, infatti ero figlia di uno di loro e anch'io avevo le mie ragioni
da farmi con lui in quegli anni. Forse ero alla camera del lavoro anche per questo.
Ma i padroni dei metalmeccanici erano ben diversi, per esempio, dai padroni "da
li belli braghi bianchi" delle mondine e questo era molto più chiaro
agli operai che agli studenti. Quello che gli operai volevano dai padroni era
chiaro e quantificato, quello che i padroni volevano dagli operai era chiaro e
quantificato: lo scontro, senza esclusione di colpi, era nondimeno produttivo
e non distruttivo. Il padrone dei metalmeccanici
lavorava tantissimo, lavorava tutta l'estate e trovava «stranissima l'usanza
delle vacanze, destinata a scomparire». Le vacanze potevano servire a coloro
che facevano lavori fisicamente pesanti, ma erano del tutto inutili perdite di
tempo per chi faceva "lavori a tavolino" come i dirigenti e a maggior
ragione "i titolari" delle aziende; le vacanze dunque servivano per
andare all'estero a imparare le lingue e a trattare con le aziende straniere.
Mare? Per i bambini, per gli adulti, poco e solo se lo ordinava il medico. Consumi
confortevoli, ma senza sprechi. La resistenza al
lavoro era un feroce terreno di sfida che autorizzava a eliminare chiunque si
dimostrasse debole o fragile (mio padre non era più tenero degli altri);
ma la capacità di resistere alla sfida era certamente riconosciuta come
una reale possibilità di arricchimento, di conquista di diritti e di ascesa
sociale. Mio padre non diceva dio faus e
nemmeno diofà, diceva cribbio versione eufemistica di
Cristo e infatti, all'occorrenza, diceva anche Cristo. Cristo, com'è
noto è la vittima per eccellenza, sicché l'associazione Cristo-diritto
che accompagnava il suo modo di affrontare i rapporti in fabbrica, significava:
anche le vittime della società hanno dei diritti. Non era generosità
la sua, era convinzione che se non esisteva una ricchezza minima diffusa e dovuta,
mancavano le condizioni stabili perché il più alto numero possibile
di cittadini comprassero gli oggetti che le fabbriche producevano: punto e basta.
La lotta si svolgeva dentro l'etica del
lavoro a cui i due avversari, che si rispettavano reciprocamente, rispondevano.
Carità nessuna, elemosine ancor meno ma un rapporto contrattuale in cui
al lavoro svolto corrispondeva un doveroso riconoscimento economico e previdenziale,
sempre migliorabile. Da una parte e dall'altra una logica che eliminava i semplici,
gli umili, i bisognosi e i loro melensi intermediari. Sicché
l'asprezza realistica del confronto permetteva di scaricare la violenza sociale
e di convertirla in forza politica, in leggi che riconoscevano i diritti all'istruzione,
alla salute, alla casa; in beni e ricchezza per strati sociali sempre più
ampi. Altra cosa – dicevo – erano "i padroni"
e "gli operai" all'università, nelle assemblee studentesche.
Mitologica l'avida cattiveria dei primi e altrettanto mitologica l'aspirazione
disinteressata a cambiare il mondo dei secondi. La natura e le possibilità
contenute nel conflitto che li metteva in rapporto non erano un vero oggetto di
attenzione. Le critiche che avevo sentito alla camera del lavoro verso i padroni,
per quanto scioccanti inizialmente, non mi avevano messo in conflitto con me stessa,
per certi versi e con alcuni distinguo, mi erano servite a venire a capo di conflitti
personali, mi avevano fatto capire molte cose del mondo in cui vivevo, le tensioni
fuori della famiglia mi avevano insegnato ad affrontare le tensioni della maturazione
e dell'autonomia dalla famiglia. Mi colpiva invece l'astrattezza delle richieste
studentesche, la genericità dei loro "padroni" e della loro "borghesia"
e mi colpiva tanto più perché padroni e borghesi erano i loro padri,
che ben conoscevo, tanto quanto il mio. Mi colpiva che fossero considerati "padroni"
e/o "borghesi" persone tra loro diversissime (avvocati, medici, imprenditori
e finanzieri) e anche i professori venivano attaccati in blocco come "autoritari",
personaggi che usavano bocciare tre o quattro volte ogni studente, che avevano
evidenti pregiudizi contro le ragazze e uomini che io consideravo possibili alleati
nei miei propositi di trasformazione della cultura e dell'istruzione. A me pareva
che l'ipotesi di dover cambiare la struttura economica per poter fare qualsiasi
cambiamento significativo fosse un'interpretazione mitica di Marx. Questa lettura
non era altro che un fiume di parole e un modo generico e non realistico di assumere
i fatti, simile più a una crisi verso i padri, a una difficilissima maturazione
giovanile che a una realistica volontà di fare quello di meglio che si
poteva. ____________________________________________
Pina Raso Il
mio '68 Il mio '68, come tutte le storie che
si rispettano, ha un prologo e un epilogo. Il prologo risale a qualche anno prima.
Provengo da una famiglia dal forte impegno politico;
mio padre è stato iscritto al Pci fin dal 1943 – lo rimarrà fino
al 1989 – la mamma è stata candidata alle elezioni amministrative già
alla fine degli anni '50. Si è provveduto a iscrivere tutti al partito,
via via che raggiungevamo l'età. A metà degli anni '60 tutta la
famiglia, compresi nonni e zii, paterni e materni, è iscritta al Pci. Le
tessere di mio padre sono ancora conservate nella casa calabrese. Un
giorno, siamo agli inizi degli anni '60, ci viene a trovare il segretario della
federazione provinciale giovanile che dice: «La prossima settimana faremo
un'importante manifestazione dei giovani comunisti a Reggio Calabria, contiamo
sulla tua presenza». A questo punto arriva il divieto paterno: essere iscritti
al partito è importante, ma è assolutamente impensabile che una
ragazza vada fuori paese da sola; manifestazione o altra iniziativa che sia, non
se ne parla neppure che una donna vada in giro così! A
dire il vero, non è che me la passassi tanto male, specie in confronto
alle mie coetanee. Non avevo limitazioni, per esempio, sull'abbigliamento: ho
sempre portato i calzoni, la minigonna non ha fatto fare neanche una piega in
famiglia. Potevo uscire liberamente in paese, ho scelto da sola il mio corso di
studi, sia liceali sia universitari, libertà che allora erano impensabili,
almeno al sud, per la maggior parte delle ragazze, il cui unico destino sembrava
essere quello di sposarsi e far figli. Ma ero pur
sempre una donna: si poteva concedere una tale libertà? E cosa avrebbe
detto la gente? Questo è stato il primo scontro
con mio padre, che osa iscriversi, a soli 23 anni, a un partito ancora fuorilegge,
ma non riesce ad affrontare le proprie contraddizioni. Ne
sono seguiti tanti altri, che sono durati fino quasi alla sua morte. L'epilogo
invece è di una decina di anni dopo, il '74, quando, giovane insegnante,
già in Friuli, mi sono sentita dire da uno studente di Avanguardia Operaia,
durante un'assemblea all'Istituto d'Arte, dove insegnavo, che non avevo diritto
di parola perché «ogni insegnante è, indipendentemente dalle
idee dichiarate, reazionario». In quel momento
ho capito che era finito, per me, il tempo della contestazione ed era cominciato
quello del fare. Se si decodifica adeguatamente la frase dello studente, al di
là delle esagerazioni del momento, il significato è chiaro. Tu non
sei più una giovane, sei dall'altra parte, hai "il potere" di
fare. Avevo solo 27 anni, ma ero già sposata, avevo un bambino piccolo
e un lavoro stabile, non potevo più, in effetti, mischiarmi ai giovani
contestatori, potevo semmai partecipare alle lotte dei lavoratori. Cosa che ho
fatto, aderendo alla Cgil e partecipando, seppur con un ruolo molto marginale,
alla nascita del sindacato scuola. Ma andiamo con
ordine e torniamo al '68. Quell'anno mi vede studentessa
di matematica all'Università di Messina. Se però qualcuno pensa
che, con quella formazione familiare e quel clima, io parli di un periodo epico,
commette un grande errore. Le cose, almeno all'inizio, sono andate diversamente.
Siamo all'inizio di un anno particolarmente freddo;
frequento il primo anno di matematica in una città che mi è estranea.
Alloggio in una pensione in cui oltre al freddo, anomalo per quella regione che
non ha bisogno di riscaldamento, soffro di solitudine per essermi allontanata
per la prima volta dall'ambiente familiare. All'inebriante senso di libertà
fa da contrappunto lo scoramento per non avere alcun punto di riferimento durante
intere lunghe giornate in cui, finito di studiare, non so cosa fare. Comincio
a partecipare alle prime assemblee. Sto così al caldo e conosco nuovi amici.
Non è che capisca molto dei discorsi che vengono fatti, sia perché
sono solo una matricola, sia perché non ho mai partecipato a questo tipo
di riunioni. Oggi i giovani partecipano alla loro
prima assemblea già a 14 anni; la mia generazione a scuola doveva solo
studiare, obbedire e, soprattutto, tacere. Io, a dire il vero, studiavo, qualche
volta ubbidivo, ma farmi tacere no, non c'è mai riuscito nessuno. Per quanto
riguarda il rapporto tra docenti e alunni, si diceva, per scherzo, ma non tanto,
che «il professore ha sempre ragione, soprattutto quando ha torto».
Parlare di politica poi! Basti pensare che al ginnasio avevo persino paura che
si sapesse dell'impegno familiare dentro il Pci. L'unico sciopero cui ricordi
di aver partecipato mi procurò una figuraccia che non dimenticherò
mai. Ero in quarta ginnasio; il giorno dopo la manifestazione,
il preside, dopo averci fatto la ramanzina, rivolto a me, seduta al primo banco,
fa: «Sentiamo, parlami dello sciopero e dei motivi che ti hanno indotta
ad aderirvi». È stata forse la peggiore figuraccia che io abbia fatto
a scuola, ma ho rispettato il preside che ha saputo trovare gli argomenti giusti
per richiamarci al senso di responsabilità. Tornando
alle assemblee, la storia si ripete. Un giorno un ragazzo mi dice: «Perché
non intervieni mai?». Lascio immaginare il panico. Ma è stato utile,
ho cominciato a sforzarmi di capire, a comprare tutti i giorni il quotidiano,
ad ascoltare e confrontare le posizioni, a confrontare quanto sentivo con tutti
i discorsi che da sempre si facevano in casa. Scoprii, a questo punto, oltre a
tutti i problemi della scuola e dell'università noti a tutti, situazioni
inimmaginabili. Sacche di privilegio, studenti fuoricorso da tanti anni che stavano
alla casa dello studente non per meriti di studio o per svantaggio economico,
ma per "meriti goliardici". Quella era
una società fortemente classista, in cui il privilegio di pochi era un
diritto acquisito e intoccabile, mentre la massa della classe operaia lavorava
per loro. Forse pochi sanno oggi che prima dei diritti sindacali conquistati in
quel periodo, un operaio aveva diritto alla liquidazione solo se veniva licenziato
dal padrone, niente gli toccava se era lui a lasciare. Lascio immaginare cosa
capitava nel caso il datore di lavoro volesse, per qualsiasi motivo, liberarsi
di un dipendente. Per non parlare delle donne cui,
sul lavoro, non era neanche riconosciuto il diritto alla maternità. _____________________________________
Melita Richter Tra
Parigi e Zagabria. Il mio '68 Sulla scia della
protesta lo stesso scenario, biciclette rovesciate, macchine danneggiate, vetrine
dei negozi rotte, librerie nella vicinanza della Sorbonne bruciate, segni
di rabbia ovunque, facce giovani tese che gridano slogan infiammanti, cortei infiniti,
il muro minaccioso delle forze dell'ordine... Parigi, primavera del 2006 come
il maggio del 1968. Non è la stessa cosa. Il
1968 serbava in seno l'illusione della storia e allo stesso tempo la grande speranza
che la storia si fosse messa in cammino. La situazione era estremamente coinvolgente,
alludeva alla rivoluzione, ma i semi della rivoluzione culturale li aveva gettati
per davvero. Le barricate erette nel Quartiere Latino dimostravano che le cose
si facevano seriamente, anche se su quelle barricate nessuno è stato ucciso
a differenza del G8 del 2001 a Genova quando un giovane dei no-global è
caduto vittima della violenza della polizia. Lo shock
al quale la società francese era esposta è stato provocato
prima di tutto dalla manifesta unione tra il movimento studentesco e il grande
movimento operaio. Una bomba inattesa con potenziali detonazioni impensabili.
L'inizio non fu in Francia, ma la Francia detiene il primato del suo fulcro intellettuale
e filosofico e rimane l'immagine simbolo dello storico movimento europeo del 1968.
Quel primo maggio mi trovavo a Parigi. Anche
per me tutto ebbe inizio lì. Toccai il nervo vitale del forte smottamento
della società in quel luogo-fulcro dell'ondata del movimento studentesco
che si è diffuso in Europa come un vento minaccioso per chi deteneva il
potere e pieno di promesse per noi, giovani di allora... Sulle rive della Senna
i platani appena annunciavano i primi getti e la primavera si trascinava lenta,
gravosa. Al leggero sole delle Tuileries la gente si acquietava distesa
sulle panchine e allungava le membra secche in cerca del tepore. Una strana sensazione
serpeggiava nell'aria: ovunque ti trovassi, sapevi con buona dose di certezza
che le cose importanti stavano succedendo altrove. Nei pressi della Sorbonne.
Più uno si avvicinava all'area dell'università
più si sentiva avvolto dal pregnante clima dell'avvenimento che prendeva
le sembianze di un'autentica rivolta. Tra la Sorbonne e il teatro Odéon
c'erano dei continui meeting, dei punti di accentramento di giovani
e di meno giovani; si poteva percepire nell'area l'esplosione della parola. Dappertutto
discorsi pubblici, dibattiti, proclami, annunci, poster con richieste
degli studenti affissi sui tronchi degli alberi, sulle vetrine dei negozi, incollati
ai portoni degli enti pubblici, nei passaggi sotterranei della metropolitana,
brossure che ti venivano recapitate a mano agli incroci, sui tavolini
dei caffè... la trasformazione della rivolta in parola scritta che accompagnava
quella pronunciata nei raduni in strada era diventata impressionante. Bisogna
però ricordare lo sfondo ideologico e filosofico dell'epoca, anche se non
direttamente legato agli avvenimenti della rivolta, ma dimostratosi il suo humus
fertile. Già nel 1966 Lacan
scrive i suoi Ecrits, Derrida
pubblica i libri uno dietro l'altro: L'Ecriture et la différence,
La Grammatologie, esce Le Mot et les Choses di Foucault
, Lévi-Strauss
è seguitissimo, come lo sono gli altri autori dell'area antropologica,
etnologica, della linguistica strutturale, della psicoanalisi. C'è Althusser
, Barthes , ma ci
sono anche Godard, Truffaut...
Il cinema diventa particolarmente importante. Ecco come lo descrive il grande
Bernardo Bertolucci, l'autore di un film importante e molto discusso sul 1968
parigino, i Dreamers: Tutto è
cominciato con il film. La polizia e diventata molto violenta per la prima volta
quando ha attaccato gli studenti filmofili e gli intellettuali parigini. Hanno
attaccato Truffaut e Godard, tutto è cominciato con il film. E poi si è
esteso a Londra, a Roma, alla Germania, a Berkley e alla Columbia University.
Tutte le brame e tutti gli obbiettivi erano connessi con il cinema. Il cinema
è diventato straordinariamente importante. Si trattava della proiezione
delle illusioni che avevano il valore cinematico. Si
profila quindi un "continente intellettuale" come lo dirà Marcel
Gauchet, e questo continente alla ricerca di una comune teoria scientifica dell'uomo
e della società, si può considerare la parte inscindibile, anche
se meno visibile, dell' iceberg che galleggerà minaccioso sulla
scena politica e culturale della Francia (e dell'Europa) alla fine degli ann i
'60. |