La spiaggia di A., vicino alla estremità meridionale
della penisola di Izu, per i bagni non è ancora perduta. I fondali sono
irregolari, è vero, e anche alla superficie il mare è spesso agitato;
ma l'acqua è limpida, la spiaggia emerge dolcemente dal mare, condizioni
ideali per nuotare. Non ci sono il rumore e la sporcizia tipici delle località
di villeggiatura vicine a Tokyo, e questo è in gran parte dovuto alla sua
lontananza dalle principali linee di comunicazione. È a due ore di autobus
da Itõ. In pratica, l'unico ristorante è l'Eirakusõ, dove
si affittano anche dei cottage. Vi si vedono solo un paio di quei miseri chioschi
per le bibite che d'estate ingombrano la maggior parte delle altre spiagge. La
sabbia è bianca e abbondante e, proprio nel mezzo della spiaggia, una roccia
ricoperta di pini sporge sul mare quasi fosse opera di un giardiniere paesaggista.
Quando c'è l'alta marea l'acqua la sommerge a metà. Anche la
vista è stupenda. Quando i venti occidentali spazzano via la foschia dal
mare, si vedono le isole, al largo. Oshima sembra a portata di mano; Toshima è
piú lontana e, fra le due, si vede un'isoletta triangolare, Utoneshima.
Al di là del promontorio di Nanago sporge il Capo di Sakai che fa parte
dello stesso monte e che affonda profondamente le sue radici nel mare; oltre ancora,
il capo conosciuto con il nome di Palazzo del Dragone di Yatsu e il Capo Tsumeki,
sulla cui punta meridionale ogni notte si vede ruotare il fascio di luce del faro. Dalla
sua stanza all'Eirakusõ, Tomoko stava facendo un sonnellino. A guardarla
mentre dormiva, nessuno avrebbe sospettato che fosse madre di tre bambini. Dal
vestito leggermente corto di lino rosa chiaro spuntavano le ginocchia. Le braccia
piene, il volto liscio e le labbra leggermente arcuate le davano un'aria fresca
da ragazzina. Sulla fronte e alla radice del naso erano apparse goccioline di
sudore. Le mosche ronzavano pigramente, e nella stanza l'aria era bollente come
sotto una cupola metallica. Il tessuto color salmone si alzava e abbassava tanto
lievemente che sembrava personificare il pomeriggio pesante e afoso. La maggior
parte degli altri ospiti dell'albergo era scesa alla spiaggia. La stanza di Tomoko
era al secondo piano. Proprio sotto la sua finestra c'era un'altalena bianca per
i bambini. Sul prato di poco piú di mille metri quadrati erano disposti
sedie, tavoli e anche dei pioli per il gioco degli anelli. Gli anelli erano sparsi
sul prato. In giro non c'era nessuno. Ogni tanto il ronzio di un'ape solitaria
veniva coperto dal rombo delle onde che proveniva da dietro la siepe. Immediatamente
dopo la siepe sorgevano i pini che cedevano poi posto alla sabbia e alla spiaggia
battuta dalle onde. Sotto l'albergo scorreva un ruscello. Prima di sboccare nell'oceano
formava una polla dove si bagnavano una dozzina di oche che starnazzavano ineducatamente
quando al pomeriggio si portava loro da mangiare. Tomoko aveva due figli, Kiyoo
e Katsuo, di sei e tre anni, e una bambina, Keiko, di due. Erano tutti e tre alla
spiaggia, con Yasue, cognata di Tomoko. Tomoko non si faceva scrupolo di affidare
i bambini a Yasue quando voleva fare un pisolino. Yasue era zitella. Quando,
dopo la nascita di Kiyoo, Tomoko aveva avuto bisogno di aiuto, si era consultata
con il marito e aveva deciso di far venire Yasue dalla provincia. Non c'era mai
stato nessun vero motivo perché Yasue non dovesse essersi sposata. Non
era particolarmente affascinante, infatti, ma non era nemmeno scialba. Aveva rifiutato
una proposta dopo l'altra, finché non aveva superato l'età del matrimonio.
Allettata dall'idea di raggiungere il fratello a Tokyo, aveva colto al volo l'invito
di Tomoko. La famiglia di lei infatti avrebbe voluto farle sposare un notabile
di provincia. Yasue non era troppo sveglia, ma aveva un ottimo carattere. A
Tomoko, che era piú giovane di lei, si rivolgeva come a una sorella piú
anziana e si rimetteva sempre alle sue opinioni. L'accento della provincia di
Kanazawa era pressoché scomparso. Oltre ad aiutare Tomoko nelle faccende
di casa e nella cura dei bambini, Yasue andava a scuola di cucito e faceva dei
vestiti non solo per sé ma anche per Tomoko e i bambini. Prendeva con sé
un notes e disegnava i nuovi modelli esposti nelle vetrine dei negozi del centro.
Talvolta si accorgeva che qualche commessa la stava osservando e a volte qualcuna
persino la rimproverava. Yasue era alla spiaggia. Indossava un elegante costume
da bagno verde. Era l'unica cosa che non si era fatta da sé ma che aveva
comperato in un grande magazzino. Molto orgogliosa della sua pelle chiara tipica
della gente del nord, non aveva quasi nessuna traccia di abbronzatura. Faceva
sempre il percorso dall'acqua all'ombrellone nel minor tempo possibile. I bambini
erano sul bordo dell'acqua intenti a costruire un castello di sabbia, mentre Yasue
si divertiva a lasciar cadere l'acqua mista a sabbia sulle gambe bianche. La sabbia
asciugava immediatamente, formando un disegno scuro, rilucente di minuscoli frammenti
di conchiglie. Yasue la puliva via frettolosamente, come se avesse improvvisamente
temuto di non poterla piú lavare. Dalla sabbia balzò fuori un insetto
semi-trasparente che si allontanò rapido. Yasue raddrizzò le
gambe e si appoggiò all'indietro sulle mani, guardando verso il mare. All'orizzonte
ribolliva un enorme ammasso di nuvole, immenso nella sua tranquilla maestà.
Sembrava che le nuvole assorbissero ogni rumore, persino quello del mare. Si
era nel pieno dell'estate e i raggi del sole picchiavano rabbiosi. I bambini
si erano stancati del loro castello di sabbia. Corsero via scalciando nell'acqua
poco profonda. Yasue usci di soprassalto dal piccolo mondo privato nel quale era
scivolata, e prese a rincorrerli. Ma i bambini non facevano nulla di pericoloso.
Avevano paura del rombo delle onde. Al di qua della linea dove si frangevano le
onde c'era un leggero risucchio. Kiyoo e Keiko, mano nella mano, erano in piedi
nell'acqua che arrivava all'altezza del torace, gli occhi brillanti mentre si
opponevano alla corrente e sentivano la sabbia scorrere sotto la pianta dei piedi. "Come
se qualcuno spingesse," disse Kiyoo alla sorella. Dietro di loro arrivò
Yasue e li ammoni di non andare oltre. Indicò Katsuo. Non avrebbero dovuto
lasciarlo solo, dovevano uscire dall'acqua e andare a giocare con lui. Ma i bambini
non le prestarono attenzione. Se ne stavano nell'acqua, mano nella mano, sorridendo.
Avevano un segreto tutto loro, la sensazione della sabbia che scivolava via sotto
i piedi. Il sole dava fastidio a Yasue. Si guardò le spalle e il petto
e ripensò alla neve di Kanazawa. Si pizzicò dolcemente sopra il
seno. Sorrise avvertendo una sensazione di calore. Aveva le unghie leggermente
lunghe che trattenevano sotto l'orlo un poco di sabbia scura. Avrebbe dovuto tagliarle
quando fosse ritornata in albergo. Kiyoo e Keiko non si vedevano piú. Dovevano
essere ritornati sulla spiaggia. Ma Katsuo era solo. Aveva un'espressione stranamente
alterata, e faceva cenni nella sua direzione. Senti il cuore batterle violentemente.
Guardò nell'acqua ai suoi piedi. L'acqua si stava ritirando, e nella schiuma
a pochi metri di distanza si vedeva un piccolo corpo bruno che rotolava continuamente.
Colse per un attimo il colore blu scuro del costumino da bagno di Kiyoo. Il
cuore le batteva ancora piú forte. Si diresse verso il corpo, guardinga
come se dovesse affrontare un pericolo. Arrivò un'onda piú alta
del solito che si ruppe sotto i suoi occhi. La colpi proprio nel mezzo del petto.
Cadde all'indietro nell'acqua. Era stata colpita da un attacco di cuore. Katsuo
cominciò a piangere e un giovane che stava li vicino lo raggiunse correndo.
Arrivarono altri, correndo nell'acqua bassa. L'acqua schizzava attorno ai corpi
nudi abbronzati. Due o tre videro la donna caduta, senza farci però troppo
caso. Si sarebbe rialzata. Ma in simili occasioni c'è come una sorta di
premonizione e, mentre correvano, erano a metà convinti che ci fosse qualcosa
di tragico in quella caduta. Yasue venne trascinata fin sulla sabbia ardente.
Aveva gli occhi aperti e i denti serrati. Pareva che guardasse con espressione
inorridita qualcosa piantato saldamente di fronte a lei. Uno degli uomini le tastò
il polso. Nulla. Qualcuno la riconobbe. "Sta all'Eirakusõ." Bisognava
chiamare il direttore dell'albergo. Un ragazzo del villaggio, deciso a non permettere
a nessuno di rubargli questo compito, corse via a grande velocità sulla
sabbia calda. Arrivò il direttore. Era un uomo sulla quarantina. Indossava
calzoncini corti, una maglietta spiegazzata e, attorno alla vita, una fascia di
lana consunta in vari punti. Decise che i primi soccorsi dovevano esserle prestati
all'albergo. Qualcuno obiettò. Senza attendere che venisse raggiunto un
accordo, due giovani sollevarono Yasue e cominciarono a portarla in direzione
dell'albergo. Sulla sabbia umida dove era stata sdraiata rimase l'impronta di
un corpo umano. Katsuo li segui singhiozzando. Qualcuno se ne accorse e lo
prese in braccio. Tomoko venne svegliata dal suo sonnellino. Il direttore,
che sapeva fare bene il suo mestiere, la scosse gentilmente. Tomoko sollevò
il capo e chiese che cosa non andava. "La signora Yasue..." "Le
è successo qualcosa?" "Le abbiamo prestato i primi soccorsi,
e il dottore arriverà immediatamente." Tomoko balzò dal
letto e usci in fretta dalla stanza con il direttore. Yasue era sdraiata sull'erba
vicino all'altalena. Un uomo seminudo, inginocchiato a cavalcioni sopra di
lei, le stava praticando la respirazione artificiale. Al suo fianco due uomini
facevano del loro meglio per accendere un fuoco con paglia e rottami di una cassetta
di arance. Le fiamme si spegnevano immediatamente lasciando il fumo. Il legno
era ancora bagnato per il temporale della sera precedente. Un terzo uomo allontanava
il fumo quando questo avvolgeva il viso di Yasue. Il capo rovesciato all'indietro,
pareva a tutti che Yasue stesse respirando. Il sole che filtrava attraverso gli
alberi faceva luccicare il sudore sulla schiena scura dell'uomo a cavalcioni su
di lei. Le gambe bianche, allungate sull'erba, erano paffute e di un colore gessoso.
Sembravano apatiche, come indifferenti alla lotta ingaggiata sopra di esse. Tomoko
si inginocchiò nell'erba. "Yasue! Yasue!" Sarebbero riusciti
a salvare Yasue? Perché era successo? Che cosa avrebbe detto al marito?
Piangendo, saltava incoerentemente da una domanda all'altra. Di colpo si voltò
decisamente verso gli uomini che le stavano attorno. Dov'erano i bambini? "Guarda.
La mamma è qui." Un pescatore di mezza età teneva fra le braccia
Katsuo spaventato. Tomoko guardò il ragazzo e fece un cenno di ringraziamento
al pescatore. Arrivò il dottore e prosegui la respirazione artificiale.
Con le guance che scottavano alla luce del fuoco, Tomoko quasi non riusciva a
rendersi conto dei suoi pensieri. Una formica sali sulla faccia di Yasue. Tomoko
la schiacciò e la gettò via. Un'altra si arrampicò dai capelli
vicino all'orecchio. Tomoko schiacciò anche quella. Lo schiacciare formiche
divenne il suo compito. La respirazione artificiale prosegui per quattro ore.
Alla fine ci si accorse che stava sopravvenendo il rigor mortis, e il dottore
rinunciò. Il corpo venne coperto con un lenzuolo e portato al terzo piano.
La stanza era buia. Un uomo lasciò il corpo e corse ad accendere la luce. Esausta,
Tomoko si senti pervadere da una specie didolce sensazione di vuoto. Non era triste.
Le vennero in mente i bambini. "I bambini?" "Sono nella stanza
da gioco con Gengo." "Tutti e tre? " "Tutti e tre?"
Gli uomini si guardarono l'un l'altro. Tomoko li spinse da parte e scese di
corsa le scale. Gengo, il pescatore, con un kimono di cotone addosso, era seduto
sul divano e scorreva un libro illustrato con Katsuo che indossava una camicia
da adulto sul costume da bagno. La mente di Katsuo era presa da qualcos'altro.
Non prestava attenzione al libro. All'ingresso di Tomoko, gli ospiti dell'albergo
che sapevano della tragedia smisero di farsi vento e la guardarono. Tomoko quasi
si gettò su Katsuo. "Kiyoo e Keiko?" chiese con voce tesa. Katsuo
alzò timidamente lo sguardo su di lei. "Kiyoo Keiko... tante bolle."
Cominciò a singhiozzare. Tomoko scese di corsa alla spiaggia a piedi
nudi. Gli aghi di pino la pungevano mentre attraversava il boschetto. Era sopraggiunta
l'alta marea e per giungere alla spiaggia dove si facevano i bagni fu costretta
a scalare la roccia. Sotto di lei si stendeva la sabbia candida. Vedeva lontano
nell'oscurità. Un ombrellone a strisce bianche e gialle era rimasto sulla
spiaggia. Era il suo. Gli altri la raggiunsero sulla spiaggia. Stava correndo
tra i frangenti senza far caso al pericolo. Quando tentarono di fermarla, li respinse
irritata. "Non capite? Ci sono i miei due bambini là fuori, nel
mare." Molti non avevano sentito che cosa aveva da dire Gengo. Pensarono
che Tomoko fosse impazzita. Sembrava impossibile che per tutte le quattro ore
che era durato il tentativo di rianimare Yasue, nessuno avesse pensato ai bambini.
Gli ospiti dell'albergo erano abituati a vedere i due bambini insieme. E, per
quanto potesse essere sconvolta la loro madre, pareva strano che nessuno l'avesse
avvertita della morte dei suoi due figli. A volte, tuttavia, simili incidenti
fanno nascere un atteggiamento psicologico collettivo per cui ciascuno pensa solo
alle cose semplici. È difficile non rimanerne presi. È difficile
notare discrepanze. Svegliata all'improvviso dal pisolino pomeridiano, Tomoko
aveva recepito solamente ciò che gli altri le comunicavano, e non si era
posta nessun problema. A poca distanza dall'albergo e alla spiaggia, per tutta
la notte si tennero accesi dei falò. A intervalli di mezz'ora, i giovani
si tuffavano alla ricerca dei corpi. Tomoko era con loro alla spiaggia. Non riusciva
a dormire, anche perché aveva dormito troppo al pomeriggio. Per ordine
del gendarme locale, il mattino seguente le reti non vennero posate. Il sole
sorse dietro il promontorio alla sinistra della spiaggia e la brezza del mattino
colpi Tomoko in pieno viso. Tomoko temeva l'arrivo della luce. Le sembrava che
la luce del giorno le avrebbe rivelato tutta la verità, e che per la prima
volta la tragedia sarebbe divenuta un fatto reale. "Non crede che dovrebbe
riposare un poco?" disse uno degli uomini piú anziani. "Se ci
saranno novità, la chiameremo. Faremo tutto noi." "La prego,
gli dia retta, la prego," disse il direttore dell'albergo, gli occhi rossi
per la mancanza di sonno. "Ha già avuto abbastanza sfortuna. Che farà
suo marito se si ammalerà anche lei?" Tomoko temeva l'incontro
con il marito. Vederlo sarebbe stato come affrontare un processo. Ma avrebbe dovuto
vederlo, comunque. Il momento si avvicinava e quasi le sembrava che si avvicinasse
un'altra disgrazia. Di colpo, raccolse tutto il suo coraggio e spedí
un telegramma. Questo le forniva una scusa per allontanarsi dalla spiaggia. Aveva
cominciato a pensare che tutta l'attenzione dei giovani che si tuffavano si fosse
rivolta verso di lei. Mentre si allontanava si voltò a guardare. Il
mare era calmo. Vicino alla spiaggia brillava un riflesso d'argento. I pesci balzavano
fuori dall'acqua. Sembravano come attossicati di piacere. Era spiacevole che Tomoko
dovesse sentirsi così infelice. Il marito di Tomoko, Masaru Ikuta, aveva
trentacinque anni. Prima della guerra, dopo essersi laureato alla facoltà
di Lingue Estere dell'Università di Tokyo, aveva lavorato per una ditta
americana. Parlava un buon inglese e svolgeva bene il suo lavoro. Era piú
capace di quanto non trasparisse dai suoi modi silenziosi. Ora era dirigente di
una società automobilistica americana, poteva servirsi di una vettura della
casa, anche a scopo pubblicitario, e guadagnava centocinquantamila yen al mese.
Aveva anche la possibilità di impadronirsi di certi fondi segreti e Tomoko
e Yasue, aiutate da una donna che si prendeva cura dei bambini, vivevano nella
sicurezza e negli agi. Non c'era nessun bisogno di limitare a tre i componenti
della famiglia. Tomoko spedí un telegramma perché non voleva
parlare al telefono con Masaru. Come d'abitudine nei quartieri periferici, l'ufficio
postale telefonò il testo del telegramma non appena esso venne ricevuto,
e la chiamata giunse proprio quando Masaru stava uscendo per andare al lavoro.
Pensando a una delle solite telefonate di lavoro, Masaru sollevò tranquillamente
il ricevitore. "Un telegramma lampo da A.," disse l'impiegata dell'ufficio
postale. Masaru cominciò a sentirsi a disagio. "Glielo leggerò.
È pronto? 'YASUE MORTA. KIYOO E KEIKO DISPERSI. TOMOKO."' "Le
dispiace rileggerlo, per favore?" La seconda volta fu lo stesso. "YASUE
MORTA. KIYOO E KEIKO DISPERSI. TOMOKO." Masaru era incollerito. Come se, per
un motivo che non gli riusciva di immaginare, avesse ricevuto la notizia del suo
licenziamento. Telefonò immediatamente in ufficio per dire che non sarebbe
andato al lavoro. Pensò di andare alla spiaggia di A. in macchina. Ma la
strada era lunga e pericolosa e non era sicuro di farcela nelle condizioni in
cui si trovava. Inoltre, non molto tempo prima aveva avuto un incidente. Decise
di prendere il treno fino a Itõ e di proseguire poi in taxi. Gli incidenti
imprevisti agiscono nella mente umana secondo un processo strano e involuto. Masaru,
che si preparava a partire senza nemmeno sapere che cosa fosse successo, ebbe
cura di prendere con sé una certa quantità di denaro. C'è
bisogno di denaro in caso di incidenti. Prese un taxi per la stazione di Tokyo.
Non provava nulla di simile a un'emozione. Piuttosto, si sentiva come deve sentirsi
un investigatore che si sta recando sulla scena di un delitto. Meno versato nei
processi speculativi che in quelli deduttivi, fremeva di curiosità per
conoscere i particolari di quest'incidente che lo riguardava tanto da vicino. "Avrebbe
dovuto telefonare. Aveva paura di parlarmi." Con l'intuito del marito aveva
capito la verità. Ma, comunque, la prima cosa da fare è andare a
vedere di persona. Mentre si avvicinavano al centro della città, guardò
fuori dal finestrino. Il sole del mattino d'estate era ancor piú abbagliante
a causa del biancore delle camicie della folla. Gli alberi lungo la strada gettavano
ombre brevi e scure e, all'ingresso di un albergo, lo sfarzoso baldacchino bianco
e rosso era curvo, come se i raggi solari fossero di un metallo pesante. Dove
la strada era stata riparata, la traccia recente di uno scavo era già secca
e polverosa. Attorno a lui, il mondo era tranquillo come lo era stato sempre.
Nulla era successo, e se provava, riusciva a pensare che non era successo nulla
nemmeno a lui. Gliene venne una specie di rabbia infantile. Un incidente accaduto
in una località sconosciuta, che non lo riguardava minimamente lo aveva
isolato dal mondo. Fra tutti i passeggeri, nessuno era tanto sfortunatoquanto
lui. Il pensiero parve situarlo a un livello superiore, o inferiore, non avrebbe
saputo dirlo, a quello del solito Masaru. Era una persona speciale. Una persona
diversa. Una persona che abbia una grossa voglia sulla schiena senz'altro,
ogni tanto, deve avvertire il bisogno di dire : "Sentite, voi tutti. Non
lo sapete, ma io sulla schiena ho una grossa voglia rossa." Ugualmente
Masaru sentiva il bisogno di gridare agli altri passeggeri : "Sentite, voi
tutti. Non lo sapete ma ho perduto mia sorella e due dei miei figli." Il
coraggio lo abbandonò. Se soltanto i bambini fossero salvi... Cominciò
a pensare a un altro modo di interpretare il telegramma. Forse Tomoko, sconvolta
dalla morte di Yasue, aveva immaginato che i bambini erano morti, mentre invece
si erano solamente persi. Forse in questo momento un secondo telegramma lo attendeva
a casa? Masaru era abbastanza sconvolto dalle sue reazioni, come se l'incidente
di per se stesso avesse meno importanza della sua reazione all'annuncio. Gli dispiacque
di non aver telefonato immediatamente all'Eirakuso. La piazza antistante la
stazione di Ito risplendeva nel sole estivo. A fianco del posteggio di taxi c'era
un piccolo ufficio non piú grande di un chiosco della polizia. All'interno
la vampa del sole era implacabile. Alle pareti, gli orli degli avvisi erano scuri
e accartocciati. "Quanto per A.?" "Duemila yen." L'uomo
portava un berretto da autista e un fazzoletto attorno al collo. "Se non
ha fretta può risparmiare prendendo l'autobus. Parte fra cinque minuti,"
aggiunse, o per eccesso di gentilezza, o perché l'affrontare il viaggio
gli sembrava troppo faticoso. "Ho fretta. È morto qualcuno della
mia famiglia." "Oh! Lei è un parente di quelli che sono annegati
ieri a A.? Che disgrazia. Due bambini e una donna contemporaneamente, dicono." Masaru
sotto il sole a picco avverti una sensazione di vertigine. Non parlò piú
finché non raggiunsero A. Il panorama lungo la strada non offriva nulla
di particolare. Il taxi percorse il fianco di una montagna polverosa e ridiscese
dall'altra parte. Il mare lo si vedeva raramente. Quando sorpassarono un'altra
vettura su di uno stretto rettilineo, alcuni rami urtarono contro i finestrini
semiaperti come uccelli impazziti, facendo cadere sporco e terra sui calzoni accuratamente
stirati di Masaru. Masaru non riusciva a decidere con che atteggiamento affrontare
la moglie. Non era sicuro che ci potesse essere un "approccio naturale"
quando nessuna delle emozioni che provava sembrava adattarsi a questo concetto.
Forse l'innaturale era in realtà naturale. Il taxi superò il
vecchio cancello scuro dell'Eirakusõ. Mentre saliva lungo il vialetto,
il direttore si precipitò fuori sugli zoccoli di legno. Masaru, automaticamente,
mise mano al portafoglio. "Sono Ikuta." "Una terribile disgrazia,"
disse il direttore inchinandosi profondamente. Dopo aver pagato il conducente,
Masaru ringraziò il direttore e gli allungò una banconota di mille
yen. Tomoko e Katsuo erano nella stanza adiacente a quella dove era deposto
il feretro di Yasue. Il corpo era immerso nel ghiaccio secco, fatto venire da
Itõ, e sarebbe stato cremato ora, dato che Masaru era arrivato. Masaru,
precedendo il direttore, apri la porta. Tomoko, che si era sdraiata per dormire
un poco, balzò in piedi. Non era addormentata. Aveva i capelli scompigliati
e indossava un kimono di cotone spiegazzato. Come un criminale confesso, strinse
il kimono e si inginocchiò docilmente dinanzi a lui. I suoi movimenti erano
straordinariamente rapidi, come se li avesse decisi in anticipo. Lanciò
uno sguardo verso il marito e scoppiò in lacrime. Masaru non voleva
che il direttore lo vedesse mentre posava una mano in segno di conforto sulla
spalla di lei. v/ Sarebbe stato peggio che mostrare i segreti piú
intimi della camera da letto. Si tolse la giacca e si guardò intorno alla
ricerca di un gancio dove appenderla. Tomoko se ne accorse. Prese un appendiabiti
blu dall'armadio e appese la giacca bagnata di sudore. Masaru sedette vicino a
Katsuo, che si era svegliato sentendo piangere la madre e che li guardava. Il
bambino, inginocchiato, era commovente come una bambola. "Come possono essere
tosi piccoli i bambini? " si domandò Masaru. Era come se tenesse
in mano un giocattolo. Tomoko si inginocchiò piangendo in un angolo
della stanza. "E stata tutta colpa mia," disse. Era questa la frase
che Masaru desiderava sentire piú di ogni altra. Dietro di loro, anche
il direttore era in lacrime. "So che la cosa non mi riguarda, signore, ma
per favore non rimproveri la signora Ikuta. E successo mentre lei stava facendo
un sonnellino, e non per colpa sua." A Masaru sembrava di avere già
letto o sentito in un'altra occasione tutta la faccenda. "Capisco, capisco." Seguendo
le regole, si alzò tenendo il figlio fra le braccia, si diresse verso la
moglie e le posò delicatamente una mano sulla spalla. Il gesto venne con
naturalezza. Tomoko piangeva ancora piú amaramente. I due corpi vennero
trovati il giorno seguente. Il gendarme che aveva continuato ad immergersi lungo
tutta la spiaggia, alla fine li trovò sotto il promontorio. I corpi erano
stati morsi dalle pulci di mare e c'era anche qualche pulce di mare nascosta nelle
piccole narici. Ovviamente simili incidenti superano di gran lunga le imposizioni
della consuetudine e tuttavia in nessuna occasione piú che in queste la
gente é portata a seguire le consuetudini. Tomoko e Masaru non dimenticarono
di rispondere a nessuno, e ricambiarono tutti i regali come era uso fare. La
morte é sempre un problema amministrativo. Erano freneticamente immersi
in problemi amministrativi. Si sarebbe potuto pensare che Masaru, particolarmente,
data la sua posizione di capofamiglia, non avesse il tempo di provare dispiacere.
Per quanto riguardava Katsuo, gli sembrava che a un giorno di festa ne seguisse
un altro, mentre gli adulti, tutti, interpretavano delle parti. Comunque si
destreggiarono bene in tutta la complessa faccenda. Le offerte per i funerali
raggiunsero una somma considerevole. Le offerte per i funerali sono sempre piú
consistenti quando il capofamiglia, che ancora può provvedere alla famiglia,
rimane in vita, che quando il funerale è il suo. Tanto Masaru quanto
Tomoko erano in un certo qual modo legati dalle necessarie formalità. Tomoko
non capiva come potessero esistere fianco a fianco un dolore che conduceva quasi
alla pazzia e l'attenta cura per i particolari. La sorprendeva anche la quantità
di cibo che riusciva a inghiottire senza nemmeno accorgersi del sapore. La
cosa che piú temeva era l'incontro con i genitori di Masaru. Giunsero da
Kanazawa in tempo per i funerali. "È stata tutta colpa mia,"
si sforzò di dire nuovamente, e a mo' di compensazione si rivolse ai propri
genitori. "Ma a chi credono che debba dispiacere di piú? Non ho
perduto due bambini? Tutti, mi stanno accusando. Caricano tutta la colpa su di
me, e io devo scusarmi con loro. Mi guardano come se fossi una bambinaia distratta
che ha lasciato cadere il bambino nel fiume. Ma non era Yasue? Yasue ha la fortuna
di essere morta. Perché non si rendono conto di chi è stata colpita
piú profondamente? Io sono una mamma che ha perso due figli." "Non
sei giusta. Chi ti sta accusando? La madre di lui non piangeva forse mentre ti
diceva che le dispiaceva di piú per te che per chiunque altro? " "Erano
solo parole." Tomoko si sentiva scontenta nella maniera piú totale.
Si sentiva come una persona retrocessa e condannata all'oscurità, una persona
i cui veri meriti passavano inosservati. Le sembrava che meriti tanto particolari
dovessero portare con sé privilegi speciali, privilegi straordinari. Una
parte della sua scontentezza la rivolgeva contro se stessa, che si era scusata
con tanta umiltà nei confronti della suocera. Era da sua madre che si precipitava
quando la sua irritazione, come un prurito che le affliggesse tutto il corpo,
prendeva la parte migliore di lei. Tomoko non lo sapeva, ma era davvero disperata
dalla limitatezza delle emozioni umane. Non era illogico che se dieci persone
morivano non si potesse fare altro che piangere, proprio come quando ne moriva
una sola? Tomoko si domandava perché non le accadeva di svenire. Le
pareva strano di non svenire, al funerale, in piedi per piú di un'ora,
immersa nel calore estivo. A tratti si sentiva un po' debole, e ciò che
la salvava ogni volta era una fresca iniezione di terrore per la morte. "Sono
piú forte di quanto non pensassi," disse, rivolgendo verso la madre
un viso rigato di lacrime. Parlando di Yasue con i genitori, Masaru piangeva
per la sorella che era morta zitella, e Tomoko provò un briciolo di risentimento
anche nei suoi confronti. "Chi era piú importante per lui, Yasue
o i bambini?" avrebbe voluto domandare. Nessun dubbio che fosse tesa e
sveglia. La notte della veglia non poté dormire anche se sapeva che avrebbe
dovuto. Inoltre non le venne nemmeno l'accenno di male di testa. Aveva la mente
acuta e pronta. La gente che telefonava si preoccupava del suo stato e a volte
lei rispondeva bruscamente : "Non dovete preoccuparvi di me. Che io sia viva
o morta non fa nessuna differenza." Anche il pensiero del suicidio o di
impazzire la abbandonò. Per un certo tempo Katsuo rappresentò il
miglior motivo che aveva per continuare a vivere. Ma a volte pensava che si trattasse
solamente di mancanza di coraggio, o forse di un momentaneo cedimento. Qualunque
fosse l'occasione che l'aveva portata a pensarlo mentre osservava le lamentatrici
a preparare Katsuo, si rese conto di come avesse fatto bene a non uccidersi. Di
notte, nelle braccia del marito, apriva smisuratamente gli occhi in direzione
del cerchio di luce della lampada da notte e ripeteva continuamente, come se stesse
perorando un favore: "Ho sbagliato. È colpa mia. Avrei dovuto sapere
fin dall'inizio che era un errore lasciare i tre bambini affidati a Yasue." Il
tono di voce era vuoto come quello di chi prova l'eco contro una montagna. Masaru
conosceva il significato di questo ossessivo senso di responsabilità. Tomoko
attendeva una qualche specie di punizione. Si poteva dire che la bramasse. Dopo
i servizi funebri del quattordicesimo giorno, la vita ritornò alla normalità.
Gli amici li incitavano a andarsene in qualche posto per riposare un poco, ma
tanto la montagna quanto il mare terrorizzavano Tomoko. Era convinta che le disgrazie
non giungessero mai sole. Una sera, verso la fine dell'estate, Tomoko andò
in città con Katsuo. Doveva incontrare il marito quando questi sarebbe
uscito dall'ufficio. Katsuo poteva avere tutto ciò che voleva. Tanto
la madre quanto il padre erano gentili in maniera persino imbarazzante. Lo trattavano
come se fosse stato una bambola di vetro ed era una grossa impresa fargli attraversare
la strada. La madre guardava attentamente le automobili e i camion fermi al semaforo,
poi attraversava di volata la strada tenendolo stretto per mano. Gli ultimi
costumi da bagno esposti nella vetrina di un negozio la colpirono violentemente.
Fu costretta a distogliere gli occhi da un costume da bagno verde, come quello
di Yasue. Successivamente si chiese se il manichino aveva la testa. Le pareva
che ne fosse sprovvisto... poi che l'avesse: un volto uguale a quello di Yasue
morta, gli occhi chiusi, i capelli madidi e aggrovigliati. Tutti i manichini divennero
corpi di annegati. Se soltanto l'estate fosse finita. La semplice parola "estate"
portava con sé spiacevoli pensieri di morte. Enel sole del tardo pomeriggio
sentiva come un calore putrescente. Dato che era ancora presto entrò
con Katsuo in un grande magazzino. Mancava circa mezz'ora alla chiusura. Katsuo
voleva guardare i giocattoli e perciò salirono al terzo piano. Superarono
in fretta il banco con i giocattoli da spiaggia. Le madri si accalcavano freneticamente
davanti a una svendita di costumi da bagno per bambini. Una donna teneva un paio
di calzoncini blu scuro contro la luce della finestra e il sole del pomeriggio
si rifletteva sulla fibbia. Nell'attesa entusiastica di un funerale, pensò)
Tomoko. Quando si fu fatto comperare i cubetti, Katsuo volle salire sulla terrazza.
Nella zona giochi sulla terrazza faceva freddo. Una brezza piuttosto forte proveniente
dal porto faceva sventolare le tende. Attraverso la rete di protezione, Tomoko
guardò il ponte Kachidochi dall'altra parte della città, i moli
di Tsukishima e i mercantili nella baia. Katsue liberò la mano dalla
sua e si avvicinò alla gabbia delle scimmie. Probabilmente per il vento,
l'odore della scimmia era particolarmente penetrante. La scimmia li fissò
con la fronte aggrottata. Mentre si spostava da un ramo all'altro, con una mano
appoggiata accuratamente su una coscia, Tomoko vedeva su un lato della piccola
testa da vecchia un orecchio sporco, con le venuzze rosse in rilievo. Prima d'ora
non aveva mai osservato con tanta attenzione un animale. Accanto alla gabbia
c'era una vasca. Lo zampillo centrale era chiuso. Attorno al bordo di mattoni,
un'aiuola di portulache. Sul bordo, un bambino dell'età di Katsuo barcollava
in equilibrio instabile. I genitori non erano in vista. "Spero che cada.
Spero che cada dentro e che anneghi." Tomoko guardò le gambette
incerte. Il bimbo non cadde. Quando ebbe fatto tutto il giro della vasca, notò
lo sguardo di Tomoko e rise orgoglioso. Tomoko non rise. Era come se il bambino
si prendesse gioco di lei. Prese per la mano Katsuo e si allontanò in
fretta dalla terrazza. A pranzo, dopo un silenzio piuttosto lungo, Tomoko disse:
"Comunque, sei tranquillo. E non mi sembri nemmeno un po' triste." Stupito,
Masaru si guardò intorno per vedere se qualcuno avesse sentito. "Non
capisci? Sto cercando solo di tenerti su di morale." "Non c'è
nessun bisogno di farlo." "Lo dici tu. Ma hai pensato agli effetti
su Katsuo?" "Allora io non merito di essere una madre." E cosi
la cena fu rovinata. Masaru tendeva sempre di piú a ritirarsi dinanzi
al dispiacere della moglie. Un uomo ha il suo lavoro. Può distrarsi con
il lavoro. Intanto Tomoko alimentava il dispiacere. Masaru, quando ritornava a
casa, doveva affrontare questa monotona tristezza e, di conseguenza, cominciò
a ritornare a casa la sera tardi. Tomoko chiamò una donna che aveva
lavorato per lei molto tempo prima e le regalò tutti i giocattoli e i vestiti
di Kiyoo e Keiko. La donna aveva dei bambini che avevano piú o meno la
loro stessa età. Una mattina Tomoko si svegliò prima del solito.
Nel letto matrimoniale, Masaru giaceva raggomitolato sul fianco. La sera precedente
aveva bevuto di nuovo e nella stanza c'era ancora un odore stantio di liquore.
Le molle cigolarono mentre cambiava posizione. Ora che Katsuo era solo, Tomoko
lo faceva dormire nella loro camera da letto al piano superiore, anche se, ovviamente,
sapeva che sarebbe stato meglio non farlo. Attraverso la zanzariera bianca che
copriva il loro letto e quello di Katsuo guardò il viso del bambino addormentato.
Quando dormiva sembrava sempre che avesse il broncio. Tomoko allungò
il braccio fuori dalla zanzariera verso il cordone della tenda. La sensazione
di ruvido del cordone di canapa nella mano sudata era piacevole. La tenda si apri
leggermente. La luce colpiva l'albero di sandalo dal di
sotto, e le linee d'ombra che si intersecavano e l'ammasso di foglie avevano una
morbidezza insolita. I passeri cinguettavano rumorosamente. Ogni mattina si svegliavano,
cominciavano a chiacchierare fra di loro, e pareva che si mettessero in fila e
corressero su e giú lungo la grondaia. Il trapestio confuso delle zampette
passava da una estremità all'altra del tubo della grondaia per poi ritornare
indietro. Tomoko sorrise ascoltandolo. Era una mattinata stupenda. Sentiva
che lo era, per nessuna ragione particolare. Rimase tranquillamente sdraiata,
la testa appoggiata sul cuscino. Un sentimento di contentezza si diffuse nel suo
corpo. Improvvisamente le si bloccò il respiro. Sapeva perché
era cosi felice. La notte scorsa per la prima volta non aveva sognato i bambini.
Li sognava ogni notte, e questa volta non era successo. Invece aveva fatto alcuni
sogni futili e piacevoli. Cosí in fretta aveva dimenticato... la sua
mancanza di cuore la colpi come un accesso di terrore. Pianse lacrime di pentimento
pensando allo spirito dei figli. Masaru apri gli occhi e la guardò. Ma
nel pianto della moglie vide una sorta di pace, non il solito dolore. "Li
hai pensati di nuovo?" "Si." Sembrava troppo difficile spiegare
la verità. Ora che aveva detto una bugia, però, era seccata che
anche il marito non piangesse con lei. Se nei suoi occhi avesse visto delle lacrime,
sarebbe stata capace di credere alla sua bugia. Le funzioni del quarantanovesimo
giorno erano passate. Masaru comperò un pezzo di terra nel cimitero di
Tama. Questi erano i primi morti nel suo ramo della famiglia e quindi le prime
tombe. A Yasue fu affidato il compito di occuparsi dei figli anche sulla Riva
Lontana : dopo un consulto con il resto della famiglia anche le sue ceneri
vennero sepolte nello stesso pezzo di terra. I timori di Tomoko parevano non
avere phi fondamento, dato che la tristezza andava sempre aumentando. Andò
con Masaru e Katsuo a vedere il pezzo al cimitero. L'autunno era appena iniziato. Era
una bellissima giornata. Il caldo stava abbandonando l'aria tersa e limpida. La
memoria a volte fa scorrere le ore accanto a noi, a volte le sovrappone le une
alle altre. Quel giorno la memoria giocò a Tomoko questo scherzo per due
volte. Forse, nel cielo e nel sole troppo limpidi e brillanti, anche i confini
del suo inconscio erano diventati phi trasparenti. Due mesi prima della disgrazia
Masaru aveva avuto un incidente automobilistico. Non si era fatto nulla ma, dopo
la disgrazia, Tomoko non andava mai in macchina con lui quando portava con sé
Katsuo. Oggi, anche Masaru aveva preso il treno. Cambiarono a M., trasferendosi
sulla linea secondaria che conduceva al cimitero. Masaru scese per primo dal vagone
con Katsuo. Tomoko, trattenuta dalla folla, riuscí a scendere solo un paio
di secondi prima che la porta si chiudesse. Udi un fischio stridulo, mentre la
porta dietro di lei scivolava sulle guide, chiudendosi. Quasi gridando si voltò
di colpo e cercò di aprirla di forza. Aveva creduto che Kiyoo e Keiko fossero
rimasti chiusi dentro. Masaru la portò lontano, sostenendola per un
braccio. Tomoko lo guardava con insolenza, come se Masaru fosse un poliziotto
che l'aveva arrestata. Un istante dopo rientrò in sé e cercò
di spiegare che cosa le era successo: in qualche modo, doveva fornire una spiegazione.
Ma la spiegazione riuscí solamente a mettere a disagio Masaru. Pensò)
che la moglie stesse recitando. Il piccolo Katsuo era felice nel vedere la
vecchia locomotiva che li aveva portati al cimitero. Aveva un fumaiolo lunghissimo
ed era meravigliosamente alta, come se avesse i trampoli. La base di legno dove
il macchinista appoggiavail gomito sembrava fatta di carbone. La locomotiva ruggiva,
sospirava e digrignava i denti, e alla fine parti per passare attraverso i piatti
orti della periferia. Tomoko, che non era mai stata al cimitero di Tama in
precedenza, era stupita della sua luminosità. Uno spazio tosi grande dedicato
ai morti? I prati verdi, i larghi viali delimitati da file di alberi, il cielo
blu sulla testa che andava schiarendosi alla distanza. La città dei morti
era phi chiara e piú pulita della città dei vivi. Lei e il marito
in precedenza non avevano mai avuto motivo di occuparsi di cimiteri, ma non sembrava
una brutta cosa che ora fossero dei visitatori qualificati. Anche se nessuno dei
due pensava particolarmente alla faccenda, pareva che il periodo del lutto, una
monotona parata di fatti bui e sinistri, avesse fornito loro una sorta di sicurezza,
un che di stabile, facile, di piacevole persino. Si erano abituati all'idea della
morte e, proprio come quando una persona é abituata alla depravazione,
erano giunti al punto di ritenere che nella vita non ci fosse nulla di cui dovessero
aver paura. Il pezzo di terra era all'estremità lontana del cimitero.
Mentre superavano il cancello guardarono con curiosità il monumento funebre
dell'Ammiraglio T., e una grossa tomba, decorata di specchi di pessimo gusto,
li fece ridere allegramente. Tomoko ascoltava il sommesso frinire autunnale
delle cicale e aspirava il profumo dell'incenso e dell'erba fresca. "Che
bel posto. Avranno una stanza per giocare e non si annoieranno. Non posso fare
a meno di pensare che per loro sarà bello. Strano, vero?" Katsuo
aveva sete. All'incrocio dei viali c'era una grossa torre bruna. I gradini circolari
alla base della torre erano segnati dall'acqua della fontana al centro. Alcuni
bambini, stanchi di dare la caccia alle libellule, bevevano rumorosamente e si
schizzavano l'un l'altro. Ogni tanto uno spruzzo d'acqua faceva sorgere nell'aria
un piccolo arcobaleno. Katsuo era un bambino attivo. Voleva bere, e non c'era
nulla che glielo potesse impedire. Approfittando del fatto che la madre non
lo teneva per mano, corse verso i gradini. "Dove stai andando?" lo richiamò
bruscamente Tomoko. "Un sorso d'acqua," le rispose lui, voltandosi appena.
Tomoko lo rincorse e gli afferrò strettamente le braccia da dietro. "Mi
fai male," protestò Katsuo. Era spaventato. Una creatura terribile
gli era balzata addosso da dietro le spalle. Tomoko si inginocchiò sulla
pietra tombale e lo fece voltare verso di sé. Katsuo guardava il padre,
che, un po' distante, li fissava stupito. "Non devi bere quell'acqua.
Ne abbiamo portata dell'altra." Cominciò a svitare il tappo del
thermos che teneva sulle ginocchia. Raggiunsero il loro pezzetto di proprietà.
Faceva parte di una zona appena aperta, dietro vicoli di pietre tombali. Qui e
là, erano piantati fragili alberelli, secondo un disegno prestabilito;
lo si capiva se si faceva attenzione. Le ceneri non erano ancora state rimosse
dal tempio di famiglia, e non c'era nemmeno la pietra tombale. Solo un pezzetto
di terra livellata e cintata. "Staranno tutti e tre insieme," disse
Masaru. Questo per Tomoko significava poco. Come potevano capitare, si domandò,
fatti improbabili? Che un bambino annegasse in mare era cosa che poteva succedere,
lo si doveva accettare. Ma che annegassero tre persone era ridicolo. E diecimila
era ancora diverso. C'era un che di ridicolo nelle cose eccessive, e tuttavia
non c'era nulla di ridicolo in una grande catastrofe naturale, o nella guerra.
Una singola morte era un fatto solenne e grave, come milioni di morti. I numeri
leggermente esagerati erano diversi. "Tre! Che stupidaggine! Tre,"
disse. Per una singola famiglia era un numero eccessivo, e troppo piccolo per
la società. Non sorgeva nemmeno nessuna delle implicazioni della morte
in battaglia o sul posto di lavoro. Egoista nel tipico modo delle donne, rimuginava
continuamente il mistero di questo numero. Masaru, l'esseresociale, col tempo
era giunto alla conclusione che era il caso di vedere la disgrazia così
come la vedeva la società : erano stati fortunati che la loro disgrazia
non rivestisse implicazioni sociali. Di ritorno alla stazione, Tomoko cadde
nuovamente vittima dello stesso sdoppiamento del tempo. Il treno sarebbe arrivato
di li a venti minuti. Katsuo voleva un orsacchiotto che vendevano all'ingresso
della stazione. Gli orsacchiotti, appesi a bastoncini, erano di ovatta dipinta
di bruno, sulla quale erano fissati orecchie, occhi e coda. "Compragliene
uno!" esclamò Tomoko. "Ai bambini sembra che piacciano sempre." "Ne
avevo uno anch'io quand'ero piccola." Tomoko comperò l'orsacchiotto
dalla vecchietta della bancarella e lo diede a Katsuo. Un attimo dopo si accorse
che stava guardando sulle altre bancarelle. Voleva comperare qualcosa anche per
Kiyoo e Keiko che erano rimasti a casa. "Che cosa c'è? " domandò
Masaru. "Mi chiedo che cosa mi stia succedendo. Stavo pensando che dovevo
comperare qualcosa anche per gli altri." Tomoko levò le braccia tonde
e bianche al capo strofinando con i pugni serrati le tempie e gli occhi. Le tremavano
le narici come se stesse per piangere. "Vai, e compera qualcosa. Compera
qualcosa anche per loro." Il tono di voce di Masaru era teso e come implorante.
"Possiamo metterlo sull'altare." "No. Devono essere vivi."
Tomoko premette il fazzoletto sul naso. Lei era viva, gli altri erano morti. Era
questo il grosso male. Era una grossa crudeltà essere vivi. Si guardò
nuovamente intorno: le bandiere rosse appese davanti ai bar e ai ristoranti di
fronte alla stazione, le lucide lastre di granito accatastate davanti ai negozi
di pompe funebri, le porte rivestite di carta gialla ai piani superiori, le tegole
dei tetti, il cielo azzurro come porcellana che andava scurendosi per l'avvicinarsi
del tramonto. Era tutto talmente chiaro, talmente ben definito. Nel pieno della
crudeltà della vita, si trovava una profonda pace, come lo scivolare
nello svenimento. Prosegui l'autunno e la vita familiare si avviò verso
una maggiore tranquillità. Ovviamente, le occasioni di rimpianto non erano
eliminate. Tuttavia, man mano che Masaru vedeva la moglie diventare piú
tranquilla, ricominciò ad apprezzare la casa e l'affetto per Katsuo, e
a ritornare a casa subito dopo il lavoro; e anche se, dopo aver messo a letto
Katsuo, la conversazione scivolava su argomenti che nessuno dei due voleva affrontare,
erano capaci di trovarvi una sorta di consolazione. Il processo psicologico per
cui simili eventi paurosi si fondono nella vita di ogni giorno, fece nascere un
nuovo genere di paura mista a vergogna, come se avessero commesso un delitto rimasto
impunito. La consapevolezza, che portavano sempre dentro di loro, della mancanza
di tre elementi della famiglia a volte sembrava dar loro una strana sensazione
di appagamento. Nessuno impazzi, nessuno pensò di suicidarsi. E nemmeno
nessuno dei due si ammalò. Il terribile evento era passato lasciando appena
un'ombra. Tomoko cominciò a sentirsi annoiata. Come se attendesse qualcosa. Si
erano proibiti da molto tempo teatro e concerti, ma ora Tomoko cominciò
a trovare delle scuse: uno svago di questo genere infatti aveva lo scopo di recar
sollievo alla tristezza. Era venuto dall'America un famoso violinista per un giro
di concerti ed essi avevano i biglietti. Katsuo fu costretto a rimanere a casa,
anche perché Tomoko voleva andare al concerto in automobile con il marito. Impiegò
molto tempo a prepararsi. Ce ne voleva molto per sistemare i capelli che erano
stati trascurati per mesi interi. Quando fu pronta, il suo volto riflesso nello
specchio bastò a richiamarle alla mente il ricordo di piaceri a lungo dimenticati.
Come descrivere il piacere di perdersi nello specchio? Aveva dimenticato quanto
piacere poteva recarle uno specchio. Senza dubbio il dolore, e la conseguente
continua insistenza su se stessi, allontanavano da simili piaceri. Provò
un kimono dopo l'altro e alla fine ne scelse uno color rosso pallido e un obi
di broccato. Masaru, che la attendeva al volante dell'automobile, rimase attonito
di fronte alla bellezza della moglie. In tutto il ridotto la gente si voltava
per guardarla. Masaru ne fu immensamente compiaciuto. A Tomoko, tuttavia, sembrava
che, per quanto la gente la vedesse bella, mancasse qualcosa. Un tempo sarebbe
ritornata a casa piuttosto soddisfatta di aver attratto tanta attenzione. Questa
lacerante sensazione di insoddisfazione, si disse, doveva essere conseguenza della
vivacità e della gaiezza che servivano solo a mettere in rilievo quanto
ancora fosse presente il suo dolore. Ma in realtà si trattava solo di un
ritorno di quella vaga sensazione di insoddisfazione che aveva provato nel non
venire trattata come era dovuto a una donna vittima di una tale disgrazia. La
musica produsse un effetto su di lei. Si avviò per il ridotto con un'espressione
triste sul volto. Si fermò a parlare con un'amica. La sua espressione
pareva adeguarsi alle parole di consolazione che le mormorava; la donna le presentò
il giovanotto che era con lei. Questi non sapeva nulla della disgrazia di Tomoko
e non disse nulla per consolarla. Parlava di argomenti comunissimi, compresa qualche
critica superficiale alla musica. "Che persona scortese," pensò
Tomoko fissando i capelli lucenti del giovane che si allontanava tra la folla.
"Non mi ha detto nulla. Eppure deve certamente essersi accorto di quanto
ero triste." Il giovanotto era alto e si stagliava in mezzo alla folla.
Mentre si voltava di profilo, Tomoko vide le sopracciglia e gli occhi ridenti
e un ciuffo di capelli che gli scendeva sulla fronte. Della donna si vedeva solo
la sommità della testa. Tomoko senti una fitta di gelosia. Dal giovanotto
aveva sperato di avere qualcos'altro oltre le semplici parole di consolazione?
Avrebbe desiderato sentire altre parole... parole speciali? Tutta la sua struttura
morale fu scossa a questo pensiero. Fu costretta a dirsi che questo suo nuovo
sospetto era piuttosto in disaccordo con la ragione. Proprio lei che non aveva
mai avuto di che lamentarsi del marito. "Hai sete?" le chiese Masaru,
che stava parlando con un amico. "C'é un banco dove vendono aranciata,
qui vicino." La gente beveva l'aranciata direttamente dalla bottiglia.
Tomoko guardò dinanzi a sé con l'espressione interrogativa che si
nota con tanta frequenza sul viso dei miopi. Non aveva nemmeno un po' di sete.
Ricordò il giorno in cui aveva allontanato Katsuo dalla fontana e gli aveva
fatto bere acqua bollita. Katsuo non era il solo in pericolo. Nell'aranciata poteva
esserci ogni sorta di piccoli germi. La sua ricerca del piacere divenne leggermente
insensata. C'era un che di vendicativo nella sua convinzione di dover avere gioia. Naturalmente,
non che sentisse la tentazione di essere infedele al marito. Ovunque andasse,
era con lui o desiderava esserlo. La sua coscienza si fissava sulla morte.
Di ritorno da qualche svago, guardava il viso dormiente di Katsuo, portato a dormire
per tempo dalla cameriera e, nel momento in cui le accadeva di pensare ai due
figli morti, si sentiva sopraffare dal rimorso. Di conseguenza, il divertirsi
divenne un modo sicuro per provocare una fitta alla coscienza. Tomoko si rese
conto improvvisamente che desiderava riprendere a lavorare di cucito. Non era
la prima volta che Masaru aveva trovato difficile
seguire i salti e le piroette del pensiero femminile. Iniziò un lavoro
di cucito. La sua ricerca di gioia divenne meno frenetica. Guardava attorno a
sé tranquillamente e desiderava diventare una vera donna di casa. Sentiva
che "stava guardando la vita diritto in faccia." Attorno a lei c'erano
segni patenti di trascuratezza. Le parve di essere ritornata a casa dopo un lungo
viaggio. Avrebbe trascorso tutta la giornata a fare il bucato e a mettere in ordine. La
cameriera, una donna di mezza età, trovò che Tomoko le aveva portato
via tutto il lavoro. Mentre stava mettendo ordine trovò un paio di scarpe
di Kiyoo e un paio di pantofole azzurre che erano appartenute a Keiko. Queste
reliquie avrebbero dovuto farla ripensare alla disgrazia provocandole un piacevole
accesso di pianto, ma, invece, sembravano solo oggetti che portavano sfortuna.
Telefonò a un'amica che si dedicava intensamente ad opere di carità
e, sentendosi estremamente generosa, donò tutto a un orfanotrofio, anche
i vestiti che avrebbero potuto andar bene a Katsuo. Da quando Tomoko si mise
davanti alla macchina per cucire, Katsuo cominciò ad accumulare un intero
guardaroba. Pensò) anche di cucire qualche cappellino alla moda per sé,
ma non aveva tempo per farlo. Davanti alla macchina dimenticava i suoi dispiaceri.
Il ronzio e i movimenti meccanici eliminavano l'altra melodia irregolare, le alternanze
di esaltazione e depressione emotiva. Perché non aveva provato prima
questa via meccanica per eliminare le emozioni? Ma ovviamente questo era giunto
in un momento in cui il cuore non aveva piú la resistenza di una volta.
Un giorno si punse un dito e ne stillò una goccia di sangue. Ne fu spaventata.
Il dolore era associato alla morte. Ma alla paura segui un'emozione diversa:
se un incidente tanto comune avesse portato con sé la morte, sarebbe stato
la realizzazione di una preghiera. Passava sempre piú tempo davanti
alla macchina per cucire. Era la piú sicura delle macchine. Non le faceva
proprio nulla. Anche ora, però, non era soddisfatta : attendeva qualcosa.
Masaru non si dedicava affatto a questa vaga ricerca e passavano anche intere
giornate senza dirsi una parola. Si avvicinava l'inverno. La tomba era pronta
e le ceneri vennero inumate. Nella solitudine dell'inverno, si pensa all'estate
con desiderio. I ricordi dell'estate gettarono un'ombra ancor piú netta
sulla loro vita. E tuttavia i ricordi erano divenuti come qualcosa uscito da un
libro di novelle. Nessuna meraviglia che davanti al fuoco, tutto assumesse un'aria
da romanzo. Verso la metà dell'inverno Tomoko scopri di essere incinta.
Per la prima volta, dimenticare era un diritto di natura. Mai prima d'ora avevano
manifestato tanta cautela : pareva strano che il bambino dovesse nascere normalmente,
e semplicemente naturale, invece, che dovessero perderlo. Tutto procedeva nel
modo migliore. Venne tracciata una linea di demarcazione fra loro e i vecchi ricordi.
Prendendo forza dal bimbo che portava dentro di sé, Tomoko per la prima
volta ebbe il coraggio di ammettere che il dolore era scomparso. Doveva solo riconoscere
il fatto. Tomoko cercò di capire. Ë difficile capire mentre un
incidente è ancora davanti agli occhi. La comprensione viene successivamente.
Si analizzano le emozioni, se ne traggono deduzioni, e infine una spiegazione.
Ripensando al passato, Tomoko era insoddisfatta dall'inadeguatezza delle sue emozioni.
Senza dubbio, questo stato di insoddisfazione sarebbe durato a lungo, come un
grosso peso nel suo cuore, piú a lungo del dolore stesso. Ma non era possibile
ritornare nel passato per provare nuovamente. Rifiutava di ammettere un'inadeguatezza
qualsiasi nelle sue reazioni. Era una madre. Ma, contemporaneamente, non poteva
eliminare nemmeno la sensazione di dubbio. Mentre non aveva ancora veramente
dimenticato, venne qualcosa a coprire il dolore di Tomoko, come una sottile lama
di ghiaccio sulla superficie di un lago. A volte il ghiaccio si rompe, ma di notte
si forma nuovamente. L'oblio cominciò a mostrare la sua vera forza quando
essi davvero non ci pensavano. Filtrò dentro di loro. Trovò le piú
sottili fessure e filtrò in loro. Aggredí l'organismo come un germe
invisibile, lavorando lentamente ma a fondo. Tomoko era preda di impulsi inconsci,
come quando si vuole resistere a un sogno. Si sentiva in uno stato di disagio
estremo, cercando di resistere all'oblio. Si disse che il fatto era dovuto
alla forza del figlio dentro di lei. Ma era solo sostenuta dal figlio. I particolari
dell'incidente stavano svanendo lentamente, perdevano luce, diventavano indistinti,
scolorivano, si disintegravano. Nel cielo estivo era apparsa una paurosa forma
di marmo, dura e bianca. Si era dissolta in una nuvola, le braccia si erano sfatte,
la testa era scomparsa e dalla mano era caduta la lunga spada. L'espressione del
volto di pietra era tale da far rizzare i capelli, ma a poco a poco si era indebolita,
addolcendosi. Un giorno, Tomoko spense la radio che trasmetteva una commedia
su una madre che aveva perduto un figlio, era leggermente stupita dalla prontezza
con cui aveva seppellito la disgrazia nella memoria. Una madre in attesa del quarto
figlio, si disse, aveva l'obbligo morale di resistere al piacere di perdersi nel
suo dolore. In questi ultimi mesi Tomoko era mutata. Per la salvezza del figlio,
doveva tenere lontane da sé le scure onde dell'emozione. Doveva mantenere
saldo l'equilibrio interno. La gratificavano di piú i dettami dell'igiene
mentale di quanto non lo potesse questo oblio insidioso. E prima di ogni altra
cosa si sentiva libera. Nonostante tutti i legami, si sentiva libera. L'oblio,
naturalmente, dimostrava la sua potenza. Tomoko si stupiva di quanto facilmente
si lasciasse condizionare il suo cuore. Aveva perduto l'abitudine di ricordare,
e non le pareva piú strano che, durante i servizi funebri o le visite al
cimitero, non le venissero piú le lacrime agli occhi. Credeva di essere
diventata magnanima, di poter perdonare qualsiasi cosa. Quando, per esempio, in
primavera portò Katsuo a fare una passeggiata nel parco vicino, non riusciva
piú a sentire, nemmeno se l'avesse voluto, l'astio che, dopo la tragedia,
l'avrebbe costretta ad allontanarsi immediatamente se si fosse imbattuta in qualche
bambino che giocava nella sabbia. Poiché li aveva perdonati, tutti questi
bambini potevano vivere in pace. Cosí almeno le sembrava. Masaru, che
aveva dimenticato prima della moglie, non aveva manifestazioni di freddezza. Era
lui piuttosto ad abbandonarsi a una forma di tristezza sentimentale. Nella sua
incostanza, un uomo generalmente é piú sentimentale di una donna.
Incapace di manifestare le emozioni, e conscio del fatto che la tristezza non
lo assaliva in maniera particolare, Masaru si senti improvvisamente solo, e si
permise una piccola infedeltà. Se ne stancò quasi subito. Tomoko
restò incinta. Ritornò da lei di volata come un bambino dalla mamma. La
tragedia li abbandonò come un naufrago abbandona la nave che affonda. Presto
furono in grado di vederla come doveva essere apparsa ai lettori che l'avevano
notata quel giorno in un angolo del giornale. Tomoko e Masaru quasi si domandavano
se davvero vi avevano avuto parte. Non erano per caso stati solo degli spettatori
cui era capitato di trovarsi sul luogo della tragedia? Tutti coloro che avevano
realmente assistito all'incidente erano morti, e non avrebbero mai piú
assistito. Per noi, avere una parte in un incidente che fa storia, significa che
la nostra esistenza deve in un certo qual modo essere in gioco. E Masaru e sua
moglie che cosa avevano messo in gioco? Per prima cosa, avevano avuto il tempo
di mettere in gioco qualcosa? L'incidente era come una luce lontana, un faro
sulla puntalontana di un capo. Mandava continuamente lampi come la luce ruotante
sul Capo Tsumeki, a sud della spiaggia di A. Phi che una ferita divenne una lezione
morale, e mutò la sua essenza da fatto concreto a metafora. Non era piú
di proprietà della famiglia Ikuta ma di dominio pubblico. Come la luce
del faro per tutta la notte brilla su vaste estensioni di spiaggia, sulle onde
che scoprono le loro bianche zanne sulle rocce solitarie, sui boschi che lo circondano,
cosi l'incidente brillava sulla complessa vita di ogni giorno che li circondava.
La gente doveva imparare la lezione. Una vecchia semplice lezione che i genitori
dovrebbero avere sepolta nella loro mente : I bambini, bisogna guardarli di continuo
quando si portano alla spiaggia. La gente annega dove non lo si crederebbe mai
possibile. Non che Masaru e la moglie avessero sacrificato due figli e una
sorella per insegnare la lezione. La loro perdita tuttavia non era servita ad
altro. Molte morti eroiche producono altrettanto poco. Il quarto nato di
Tomoko era una femmina e nacque verso la fine dell'estate. La loro felicità
fu sconfinata. I genitori di Masaru vennero fin da Kanazawa per vedere la nuova
nipotina e, mentre si trovavano a Tokyo, Masaru li portò al cimitero. La
bambina venne chiamata Momoko. Madre e figlia stavano bene: Tomoko sapeva come
accudire un bambino. E Katsuo era felice di avere una nuova sorellina. * *
* Avvenne nell'estate successiva, due anni dopo la disgrazia, un anno dopo
la nascita di Momoko. Tomoko lasciò Masaru stupito annunciandogli che voleva
ritornare alla spiaggia di A. "Ma non hai detto che non ci saresti ritornata
mai più?" piu. "Ma ora lo voglio." "Non ti
sembra una cosa strana? Io, per conto mio, non voglio tornarci affatto." "Ah
si? Allora non ne parliamo piú." Rimase silenziosa per tre giorni.
Poi disse: "Vorrei davvero andarci." "Vai per conto tuo." "Non
ne sarei capace." "Perché?" "Mi darebbe fastidio." "Perché
vuoi andare, se ti dà fastidio?" "Voglio che andiamo tutti
insieme. Se ci fossi stato tu sarebbe andato tutto bene. Voglio che ci venga anche
tu." "Non puoi sapere che cosa potrebbe succedere se tu ci rimanessi
troppo a lungo. Io non posso rimanere tanto tempo." "Una notte sarà
sufficiente." "Ma é un posto talmente fuori mano..." Le
domandò nuovamente che cosa la spingeva ad andarci. Tomoko rispose solamente
che non lo sapeva. Poi ricordò il cliché dei romanzi gialli dei
quali era molto appassionata: l'assassino desidera sempre ritornare sul luogo
del delitto, a costo di qualsiasi rischio. Tomoko era stata presa dallo strano
impulso di visitare il luogo dove erano morti i figli. Tomoko manifestò
una terza volta il suo desiderio - senza premere particolarmente - e Masaru decise
di prendersi due giorni di ferie, per evitare la folla del week-end. L'Eirakusõ
era l'unico albergo di A. prenotarono una stanza il piú possibile lontana
da quella dell'altra volta. Tomoko aveva sempre rifiutato di andare in auto con
il marito quando c'era anche il bambino. Tutti e quattro, marito moglie Katsuo
e Momoko, presero un taxi da Ito. Si era nel pieno dell'estate. Lo spazio davanti
alle casette che incontravano lungo la strada era fitto di girasoli, ispidi come
la criniera di un leone. Il taxi gettava la polvere suquelle facce aperte e oneste,
ma i girasoli sembravano non darsene pensiero. Quando alla sinistra apparve
il mare, Katsuo lanciò un grido di gioia. Aveva cinque anni, adesso, e
ne erano passati due dall'ultima volta che era stato al mare. Nel taxi parlarono
poco. Sobbalzava troppo per essere un posto ideale per conversare. Ogni tanto
Momoko diceva qualche parola comprensibile. Katsuo le insegnò la parola
"mare" e la bimba puntò il dito dalla parte opposta, verso la
grande montagna rossa, e disse: "Mare." Masaru aveva la sensazione che
Katsuo le stesse insegnando una parola di malaugurio. Giunsero all'Eirakusõ
da cui usci lo stesso direttore. Masaru gli diede la mancia. Ricordò con
estrema chiarezza quanto aveva tremato la sua mano porgendo quell'altro biglietto
da mille yen. L'albergo era tranquillo. Masaru cominciò a ricordare
e si irritò. Rimproverò la moglie di fronte ai bambini. "Perché
diavolo siamo venuti qui? Ci vengono in mente solo cose che non vogliamo ricordare.
Cose che abbiamo dimenticato, finalmente. C'era un sacco di posti dove avremmo
potuto andare a fare il nostro primo viaggio con Momoko. E io ho troppo da fare
per fare dei viaggi stupidi." "Ma eri d'accordo anche tu, non é
vero?" "Eri tu che ci tenevi." Nel sole del pomeriggio, l'erba
stava seccando. Tutto era proprio come due anni prima. Sull'altalena bianca era
steso un costume da bagno blu, verde e rosso. Nel prato, seminascosti tra l'erba,
erano sparsi due o tre anelli. Là dove era disteso il corpo di Yasue il
prato era in ombra. Il sole che filtrava tra le foglie riflettendosi sull'erba,
parve improvvisamente riprodurre le curve del costume da bagno di Yasue. Erano
le macchie di luce che tremolavano nel vento. Masaru non sapeva che il corpo di
Yasue era stato disteso in quel punto. Solo Tomoko ne ebbe l'illusione. Ma poiché
per Masaru l'incidente non era avvenuto finché non ne aveva avuto la comunicazione,
cosí, per lui, quell'angolo di prato sarebbe stato per sempre un angolo
tranquillo e ombroso. Per lui, e ancor piú per gli altri ospiti, pensò
Tomoko. Sua moglie era rimasta silenziosa e Masaru si stancò di rimproverarla.
Katsuo scese in giardino e cominciò a far rotolare un anello nell'erba.
Si accucciò e guardò intensamente per vedere dove sarebbe finito.
L'anello rimbalzò irregolarmente nell'ombra, ebbe un urto improvviso, e
cadde. Katsuo rimase a guardare immobile. Pensava che l'anello dovesse rimettersi
in piedi da solo. Si sentiva il canto delle cicale. Masaru, che ora taceva,
senti il sudore che gli scendeva sul collo. Ricordò i suoi doveri di padre.
"Andiamo alla spiaggia, Katsuo." Tomoko portava in braccio Momoko.
Superarono il cancello, la siepe, e si inoltrarono tra i pini. Le onde arrivavano
veloci sulla spiaggia, rompendosi tra riflessi di luce. Era bassa marea, e
poterono girare attorno alla roccia camminando sulla spiaggia. Tenendo per mano
Katsuo, Masaru prese a camminare sulla sabbia calda con gli zoccoli che gli avevano
prestato all'albergo. Non c'era nemmeno un ombrellone. Su tutta l'estensione
della spiaggia non riuscirono a vedere piú di una ventina di persone. Si
fermarono in silenzio sul bordo dell'acqua. Anche oggi c'erano grandi cumuli
di nuvole ammucchiate l'una sull'altra. Sembrava strano che una massa che sotto
la luce appariva tanto pesante, potesse reggersi nell'aria. Sopra le nuvole che
si delineavano all'orizzonte, nuvole piú leggere viaggiavano nell'aria,
come sospinte nel blu da un colpo di spazzola. Le nuvole piú in basso
sembrava che sopportassero qualcosa, che si opponessero a qualcosa. Eccessi di
luce e d'ombra si materializzavano, in forme scure, come passioni formate da
una volontà radiosa e architettonica, come nella musica. Da sotto le
nuvole, il mare veniva verso di loro, piú grande e immoto della terra.
La terra non sembra mai comprendere il mare nemmeno negli anfratti. In particolare, quando
la costa fa una larga curva, il mare sembra che entri dappertutto. Le onde
venivano, si rompevano, si ritiravano. Il rombo era simile all'intensa quiete
del sole estivo, come se non ci fosse nessun rumore. Come un silenzio assordante.
Una trasformazione lirica delle onde, non onde, ma increspature forse, cosi si
poteva chiamare il leggero, sarcastico riso delle onde rivolto a se stesse; increspature
che salivano fino ai loro piedi, e poi si ritiravano. Masaru lanciò
un'occhiata alla moglie al suo fianco. Tomoko stava guardando lontano nel mare.
I capelli fremevano alla brezza marina e lei sembrava imperturbabile sotto il
sole. Gli occhi erano umidi ed avevano una espressione regale. La bocca era serrata.
Teneva tra le braccia la piccola Momoko che portava un cappellino di paglia. Masaru
aveva visto quest'espressione in precedenza. Fin dal giorno della tragedia, sul
viso di Tomoko si era dipinta la medesima espressione, come se si fosse dimenticata
di se stessa, come se attendesse qualcosa. "Che cosa stai aspettando?
" voleva chiederle in tono scherzoso. Ma le parole non vennero. Lo sapeva
senza aver bisogno di domandarlo. Strinse con piú forza la mano di Katsuo.
(Racconto
tratto dalla raccolta Morte di mezza estate e altri racconti, TEA, Milano,
1987.)
Yukio Mishima |