Il
Complexo do Alemão è un enorme complesso di 18 favelas
nella zona nord di Rio de Janeiro, dove vivono 130mila persone. La zona è
un'ex area industriale e il più grande cimitero di fabbriche della città.
Diversamente dalle altre favelas, il Complexo do Alemão non è
nato dall'occupazione di un terreno abbandonato: gran parte delle baracche è
stata costruita in un'area già abitata. L'organizzazione criminale del
Comando vermelho ha trasformato il complesso in una specie di città-stato
che rifornisce di armi e droga le favelas affiliate. Qui, dall'inizio di maggio,
si combatte una guerra senza precedenti tra la polizia e i narcotrafficanti. Finora
il bilancio degli scontri è di 19 morti e 50 feriti, quasi tutti abitanti
delle favelas. A commettere gli omicidi sono i narcotrafficanti, che vogliono
far ricadere la colpa sulla polizia e screditare il governo. La posta in gioco
è il recupero di un territorio dove il traffico della droga ha imposto
la sua legge. Se la polizia perde la battaglia nel Complexo do Alemão,
la città perderà per sempre la guerra contro la criminalità. Il
governatore di Rio de Janeiro, Sérgio Cabral, ha definito il Complexo
do Alemão "un covo di trafficanti e di criminali". Lì sono
stati commessi alcuni dei delitti più feroci che si ricordino. Nel 2002
il giornalista Tim Lopes fu processato, torturato e giustiziato dai trafficanti.
In questa zona il Comando vermelho si rifornisce di droga, armi e munizioni.
Un registro della contabilità del narcotraffico, sequestrato dalla polizia,
ha rivelato che almeno 65 favelas inviano denaro a una specie di cassa unica gestita
nel Complexo do Alemão. I soldi servono a finanziare le azioni criminali,
a comprare le armi e a corrompere i poliziotti. "Il Complexo do Alemão
è il simbolo della perdita del controllo del potere pubblico sul territorio",
sostiene l'economista André Urani dell'Istituto di studi del lavoro e della
società. In più di sei settimane la polizia non è riuscita
a prendere il controllo dell'area. I reparti speciali della polizia federale (Bope)
non si aspettavano una resistenza così prolungata dei gruppi criminali. Presenza
stabile Per impedire l'intervento dei mezzi blindati della polizia, i trafficanti
hanno fissato al suolo dei grossi bidoni pieni di cemento e di pezzi di rotaie
lungo le principali vie d'accesso alle favelas. Poi hanno costruito una postazione
di tiro: una fortificazione con piccole feritoie grandi come la canna delle armi.
La polizia ha impiegato quattro giorni per conquistarla e demolirla. Allora i
trafficanti hanno cosparso le strade di olio per ostacolare la salita dei blindati
e hanno rimosso le strutture di ferro che coprivano un canale di scolo all'entrata
della favela, creando una voragine invalicabile. L'arsenale a disposizione dei
criminali è impressionante: fucili da guerra, pistole semiautomatiche e
mitragliatori in grado di abbattere gli elicotteri della polizia. La reazione
dei narcotrafficanti sta mettendo in grave difficoltà le istituzioni. Una
sconfitta delle forze dell'ordine sarebbe la prova definitiva dell'inefficienza
del governo nella lotta al crimine. Nelle prime settimane di scontri, i banditi
circolavano tranquillamente per la favela con le armi in mano, rilasciando interviste.
"Se la polizia se la prendesse solo con noi, non ci sarebbe nulla da dire.
Ma spara contro gli abitanti della favela", ha dichiarato un trafficante
di guardia a una delle vie d'accesso. Di fronte alle difficoltà della
polizia, viene da domandarsi cosa ha trasformato un'area che dista solo venti
minuti dal centro della città in un territorio inespugnabile. Le cause
sono più d'una: vent'anni di abbandono da parte dei governi precedenti,
il populismo che si alimenta del voto degli abitanti delle favelas e le politiche
di sicurezza inadeguate. Il governo del presidente Lula dovrebbe rimediare a questi
errori. Le invasioni delle favelas non devono diventare la norma. Il compito
dello stato non è solo riportare la legalità nel territorio, ma
anche garantire la propria presenza in modo stabile. Nel frattempo, però,
la guerra continua.
(Articolo
tratto dalla rivista Internazionale del 21 giugno 2007, n° 697.) |