La Lavagna Del Sabato 07 Luglio 2012 SU “IL CRIMINE DELL’OCCIDENTE”, DI VIVIANE FORRESTER Libero Mancuso
Il libro è un atto d'accusa molto documentato contro l'Occidente (Europa e Stati Uniti), portatore di sentimenti razzisti che li resero sordi al dramma degli ebrei, iniziato già nel 1933, quando vennero teorizzate ed iniziarono ad esser praticate le più ottuse e disumane leggi e pratiche persecutorie in Germania. Nessuna Nazione intese ospitarli, nessun Paese mosse un dito per sconfessare quelle teorie ed impedire quelle pratiche. All'indomani della vittoria sulla barbarie nazista, le Potenze vincitrici spedirono lontano i superstiti dell'apocalisse – ma in un Paese dove viveva una comunità autoctona, quella palestinese. Ecco perché secondo la Forrester l'Occidente (che ancora non ha coscienza dei propri crimini) non può ergersi ad arbitro del conflitto tra Arabi ed Israeliani, risolvibile solo se entrambe le vittime dell'antisemitismo e dei suoi crimini potranno trovare la strada del dialogo che porti a condividere il loro comune destino. È possibile dimenticare l’orrore europeo, esorcizzare e sue tracce e i loro fremiti? È possibile mascherare il persistere delle sue pulsioni originarie e, soprattutto, continuare a considerare l’era nazista una mostruosità episodica, maledetta, vinta, sradicata, cui basta contrapporre la litania dei “mai più una cosa simile?” L’eroica virtù di questa dichiarazione, pronunciata con tono fermo e sguardo intrepido, ci risparmia di analizzare, di definire la “cosa simile”, di prender in considerazione le diverse forme che può assumere e quanto di nostro vi è impresso. La forza contenuta in questa espressione, più simile a una constatazione che a un desiderio o a una decisione, ci consente di considerare quello che è un pio augurio, un’intenzione generica e perentoria – un wishful thinking, direbbero gli inglesi- come un impegno già mantenuto, una missione compiuta, una conclusione acquisita, un baluardo sufficiente, tutte cose che ci emancipano e ci liberano da ogni vigilanza. Cronologia perfetta: Terzo Reich, guerra, Alleati vittoriosi, problema risolto. Un dettaglio però guasta questo epilogo, una lacuna: la guerra contro il nazismo non c’è stata. E’ stata la Germania conquistatrice a essere combattuta – in ritardo – con le armi, e vinta: non vi furono né un’aperta insurrezione interna contro il regime nazista né una sollevazione generale, universale contro di esso; nessun rifiuto istintivo, nessun rigetto deliberato, e certamente nessuna resistenza internazionale spontanea, immediata alla dottrina e agli atti di Hitler, dal 1933, nemmeno quando si trattò del diritto d’ingerenza. Come reazione, nel 1938, quando tali atti e tale dottrina con i loro deliri si dispiegavano da cinque anni, ebbero luogo verso la fine di settembre la Conferenza di Monaco (accettazione ufficiale, sollecita, addirittura ossequiosa, soprattutto supina, da parte dei governi francese e inglese della politica espansionistica del Reich, senza che venisse messa in discussione o solo menzionata la barbarie nazista già ampiamente manifesta) e la Conferenza di Evian, dal 6 al 15 luglio, nel corso della quale trentatrè paesi convocati dagli Stati Uniti dovevano accordarsi sull’allargamento delle loro quote d’immigrazione per poter accogliere gli ebrei vittime dell’ideologia hitleriana. Tranne l’Olanda e la Danimarca, tutti, e per primi gli Stati Uniti, rifiutarono di prendere in considerazione un seppur minimo aggiustamento degli scarsi contingenti già ammessi. Dopo la conferenza Argentina, Uruguay, Messico e Cile ridussero invece i loro tassi d’immigrazione. Ogni paese aveva motivato il proprio rifiuto. L’Australia, dimenticando allegramente i suoi aborigeni e il trattamento loro inflitto, dichiarò di non aver mai conosciuto il problema razziale e di voler evitare di “crearne uno”. Proprio lei che , subito dopo la guerra, fece pubblicare sulla stampa internazionale annunci che invitavano a popolare le sue terre meno abitate, che venivano messe a disposizione dei nuovi immigrati. Quanto alla Francia, si dichiarò già “satura”. Del resto, il senatore Henri Bérenger scriveva al suo ministro: “E’ nell’interesse della Francia apparire come l’asilo ufficiale di tutti quelli che la Germania considera come propri nemici naturali? Un elemento di antagonismo culturale e razziale verrebbe introdotto a titolo permanente nelle relazioni franco-tedesche”. Lo inquietava già abbastanza il fatto di dover lasciar entrare i “rifiuti dell’immigrazione austriaca e tedesca”. In conclusione, la delegazione poté rallegrarsi: era “pianamente riuscita a evitare di contrarre un impegno preciso”. Ricordiamo che nel 1938 Hitler non solo permetteva ancora l’emigrazione degli ebrei tedeschi, ma la esigeva, come dichiarò in un discorso tenuto a Koenigsberg: “Siamo pronti a mettere questi criminali (gli ebrei) a disposizione di questi paesi, foss’anche a bordo di navi di lusso”. Per loro era chiaramente una questione di salvezza. Di una salvezza ancora possibile. Il Führer non esitò a irridere l’”appello del presidente Roosevelt alle altre nazioni, mentre gli Stati Uniti non allargano le loro quote d’immigrazione”. Né ad ironizzare: “Se c’è un paese che ritiene di non avere abbastanza ebrei, sarò felice di mandargli tutti i nostri”. E Goering citava; “Il Führer dirà agli altri paesi:-Perché continuate a parlare degli ebrei? Prendeteveli!”.Göbbels, durante il Consiglio dei ministri del 12 novembre 1938, sogghignava: “E’ curioso come i paesi in cui l’opinione pubblica si leva a favore degli ebrei rifiutino regolarmente di accoglierli. Dicono che sono pionieri della civiltà, geni della filosofia e della creazione artistica ma, quando si tratta di accettare questi geni, chiudono le frontiere”. Questo rifiuto (collettivo) equivaleva a un tacito assenso alle persecuzioni antisemite in corso, a un disconoscimento dei perseguitati, a un complicità – per assurdo, si potrebbe dire a una fraternità sorda con i loro oppressori: a un legame, insomma, con il sintomo che stava alle radici della dittatura del Terzo Reich. La stampa nazista non lo intendeva diversamente. Si legge ad esempio sul Danziger Vorposten: “Constatiamo che c’è la tendenza ad avere pietà degli ebrei quando ciò alimenta ostilità verso la Germania, ma che nessuno stato è disposto a lottare contro la tara dell’Europa centrale accettando qualche migliaio di ebrei. La conferenza di Evian è dunque una giustificazione della politica tedesca”. Insomma, le democrazie occidentali lasciavano implicitamente carta bianca a Hitler riguardo a quegli ebrei così decisamente ingombranti. Rifiutati. Per quanto ufficialmente antirazzisti, per quanto moderati, di fronte al dittatore nascente, non ancora affermato, i governi delle grandi potenze diedero prova di una debolezza patologica, che sfiorava il masochismo. Da parte loro ci furono solo voltafaccia, condiscendenza e rinuncia. Impressionati dalle magistrali messe in scena di Hitler, i loro dirigenti sembravano far cerchio attorno a lui per cercare di ingraziarselo, creduli e tremanti, cercando a tutti i costi di ammansirlo. Nessuna traccia di indignazione, nessuna protesta di fronte ai saccheggi, alle umiliazioni, alle persecuzioni pubbliche e persino ostentate degli ebrei, ai loro arresti in massa insieme a quelli degli oppositori del regie, all’internamento di quegli ebrei e di quegli oppositori in prigione o in campi di concentramento creati allo scopo, come quelli d Dachau (1933) e di Buchenwald (1937) in Germania o, in Austria subito dopo l’Anschluss, di Mauthausen (1938). Né venne frapposto alcun ostacolo (tutt’al più qualche timida e breve protesta) alla politica estera del Reich, a proposito della quale non entrava comunque in gioco il diritto d’ingerenza. Nessun ostacolo, nel 1936, al riarmo della Germania in violazione del trattato di Locarno e all’occupazione della Renania. Nello stesso anno a Berlino si svolgono le Olimpiadi, cui partecipano ufficialmente atleti di tutto il modo. Straordinario successo propagandistico. Unica condizione posta dal Comitato dei giochi: dovranno parteciparvi campioni tedeschi ebrei, ma particolare che non sembra turbare nessuno, quei campioni (ai quali è stato vietato l’accesso agli impianti sportivi con la conseguente impossibilità di allenarsi) dall’anno prima, conformemente ai decreti di Norimberga, come tutti gli ebrei tedeschi hanno perduto cittadinanza e diritti civili. Le stesse leggi vietano, fra l’altro, matrimoni e rapporti sessuali tra ebrei e ariani, pena l’arresto. Nel 1938 nessuna reazione all’annessione dell’Austria da parte del Reich, “uno stupro”, come più avanti la definirà Winston Churchill, e lo stesso anno, all’annuncio dell’invasione della Cecoslovacchia, si tenne come abbiamo visto la conferenza di Monaco e l’invasione avvenne con la benedizione generale, in particolare quella della Francia, che calpestava così il patto di reciproca assistenza che legava i due paesi. Un esempio dell’aria che tirava nelle alte sfere: nel dicembre 1938 Georges Bonnet, ministro francese degli Esteri, nel corso di un colloquio con il suo omologo tedesco Ribbentrop gli esprime “tutto l’interesse che la Francia nutre per una soluzione del problema ebraico”, affermando che i francesi “non desiderano più accogliere ebrei provenienti dalla Germania”: potrebbe quest’ultima “prendere provvedimenti per impedire loro di venire in Francia?” Ribbentrop, contentissimo, lo rassicura: “Tutti vogliamo sbarazzarci dei nostri ebrei”, il guaio è che “nessun paese li vuole”. Fra compari… Questi paralizzati governanti europei, che offrono a Hitler ciò che desidera quando gli pare e piace (e quasi non osano chiedersi se ciò che lui desidera sia così lontano dai propri desideri, più o meno inconsci), non sono ormai altrochè una banda di umili accompagnatori che cercano di intravedere nei suoi discorsi, tra proclami che annunciano ora l’annientamento della “razza ebraica in Europa”, ora mire aggressive sul piano internazionale, alcune rare dichiarazioni più pacifiche e moderate, di cui allora si rallegra, rassicurato, il resto d’Europa. Dopo il macello del ‘14/’18 le popolazioni europee, tedeschi compresi, più di tutto temevano un’altra guerra; Hitler approfittava di questo timore. In Germania il Führer era oggetto di ammirazione e gratitudine perché ritenuto capace di raggiungere i propri scopi senza provocare un conflitto. Al terrore della guerra si aggiungeva poi per molti quello del comunismo, a cui Hitler sembrava opporsi… prima di firmare, nel 1939, un patto con Stalin! Certamente negli anni Trenta e Quaranta le democrazie occidentali si opponevano per principio all’ideologia delle Germania nazista, ma ciò non rivestiva un’importanza primaria, e non determinò quindi alcuna seria reazione alle sevizie praticate apertamente su masse di individui il cui sterminio veniva pie di più evocato in modo ricorrente. Dal 1933 quelle democrazie assistevano all’esercizio di una ferocia ufficiale, di crudeltà sfrenate, inaudite, aperte, appoggiate da una legislazione promulgata appositamente per disgregare la legalità e la tirannide. Fin dagli anni Trenta, quello che già si conosceva della varietà dei crimini nazisti, ciò che divulgava la stampa, ciò di cui si veniva sempre più informati, sarebbe dovuto bastare a sollevare un’opposizione incondizionata, intransigente e mirata da parte delle nazioni democratiche. Persino durante la guerra si combatté la Germania espansionista, ma non esplicitamente la barbarie nazista che ormai dominava tutta l’Europa occupata; l’indifferenza e la chiusura delle foriere continuarono come prima. I paesi mantennero le stesse modeste quote di immigrati, lasciando che gli ebrei cadessero prigionieri della rete hitleriana. E senza speranza, senza via d’uscita. Senza rimedio. L’intero pianeta chiudeva loro la porta in faccia, ovunque reticente, ovunque rendendosi corresponsabile dell’orrore. Fu per ragioni strettamente strategiche, diplomatiche, per questioni territoriali che venne dichiarata la guerra nel 1939. E durante tutte le ostilità ci si premurò di non dare mai l’impressione di avere come scopo quello di soccorrere gli ebrei cosa che avrebbe rischiato – così si riteneva nelle sfere politiche alleate- di urtare l’opinione pubblica. La vittoria fu dunque quella di una coalizione classica. Ora, la vittoria con le armi non è la dimostrazione di un diritto. Essa pone fine a un conflitto non lo risolve. Fu una pace senza innocenza. Non una conclusione. Il fenomeno del razzismo, che era all’origine della seconda guerra mondiale ma era stato preso in considerazione in modo lacunoso, non era stato risolto. Venne però considerato risolto e dichiarato abolito, ma facendo riferimento unicamente alle sue forme più sinistre, più allucinanti: quelle delle esorbitanti dismisure del genocidio, in particolare di quel genocidio. Ci si soffermava sulle sue conseguenze estreme e non sulla sua sostanza, sulle sue radici, tutt’altro che estirpate. Il tirarsi indietro generale, quando non il silenzioso consenso di fronte al razzismo nazista furono fatti sparire, consegnati all’oblio, non segnalati. L’inerzia occidentale davanti alla barbarie, la sua connivenza con l’antisemitismo non vennero registrate ma destinate il più possibile all’omertà complice di una memoria volutamente rimossa.Ma il peso delle loro conseguenze lasciava filtrare oscuramente una responsabilità insostenibile sospettare una sorta di occulta dannazione che bisognava soffocare. Da quell’abbandono mortifero della democrazia da parte delle nazioni democratiche emergeva un rimorso latente più o meno conscio, incapace di accettarsi consapevolmente, poiché l’istinto antisemita non era superato. Di qui l’inettitudine a riparare l’inespiabile, la resistenza ad accogliere manifestamente e ovunque i superstiti di quell’apocalisse. Ma non erano stati loro lo scopo accertato della guerra, né la loro liberazione il senso della vittoria. E se la demenza del dispotismo hitleriano, dei suoi genocidi, veniva aborrita e vilipesa, la paragonerei a quelle enormità che è stato l’antisemitismo comune, tenuto per il momento discretamente a bada, pareva tanto più innocuo nella sua banalità. Non dimentichiamo che in quei (recenti) tempi regnavano ancora, ed erano considerati naturali, la segregazione dei neri negli Stati Uniti e il colonialismo in Europa. Il dogma del disprezzo imperava, ufficiale e rispettato. Un segno fra gli altri: finita la guerra, parecchie centinaia di migliaia di ebrei scampati molti di loro sopravvissuti all’orrore dei campi di concentramento e tutti, a causa delle prove subite, senza meta né mezzi finanziari, furono tenuti per anni in condizioni di vita sordide in “campi profughi” sovraffollati, terre di nessuno situate nelle zone tedesche e austriache occupate dagli Alleati, e talvolta negli stessi campi nazisti in cui erano stati internati. Così erano loro a ritrovarsi rinchiusi in mezzo alle libere popolazioni di quegli stessi paesi che li avevano perseguitate avevano sterminato i loro fratelli! “La miglior propaganda britannica a favore del sionismo resta il campo profughi di Bergen-Belsen” affermava a ragione David Ben Gurion. Quei paria riuscirono a uscirne solo alla spicciolata, indesiderabili ovunque, ovunque giudicati “fuori posto” tranne che in un posto, il loro vero posto: quello dell’assente. E per giunta ci si lamentava di quanto costassero! Nella zona di competenza britannica una legge li sottomise presto al lavoro obbligatorio, e, per provvedere alle loro condizioni di vita indegne, i superstiti del nazismo furono impiegati a basso costo a profitto dell’economia tedesca, spesso sotto la sua autorità. Un’osservazione: si trattava di persone senza risorse, di “poveri”; che sono sempre quelli presi meglio di mira dall’esclusione. Quegli internamenti organizzati dalle democrazie non turbarono le coscienze; non le sfiorarono nemmeno, perché tirava l’aria di un inconscio cinismo. Le frontiere continuavano a non aprirsi. Le quote rimanevano uguali. Eppure il mondo non era più così “saturo” di ebrei. Ne erano morti a milioni. Non si fece in modo di garantire a tutti i superstiti rispetto, sicurezza e il sacrosanto diritto di ciascuno a un posto, a una cittadinanza in Occidente, e questo nemmeno a casa loro. Quelle che erano state le loro patrie europee o i luoghi di residenza lo erano ancora e, se risultava ai sopravvissuti troppo penoso ritornare laddove era accaduto l’innominabile, come minimo si poteva pretendere che ricevessero accoglienza in un paese occidentale di loro scelta, che ricadeva perlopiù sugli Stati Uniti, dove ci si era affrettati, invece, a bloccare le quote. E ciò fu permesso! Come si permise che in certi stati dell’Europa centrale od orientale si perpetuasse l’animosità e, soprattutto, si osasse e si potesse manifestarla al punto che la maggior parte dei superstiti era dovuta ripartire; come in Polonia, dove pure non rimaneva quasi nessun ebreo, dato che la stragrande maggioranza era morta nel genocidio. L’antisemitismo persisteva non meno apertamente e provocò persino nuovi pogrom, come a Kielce nel 1946. Tutto ciò non venne trattato come uno scandalo inaccettabile, ma tollerato come una curiosità o una fatalità. Quanto ai “campi profughi”, che rendevano sinistramente manifesta l’incoscienza generale, era meglio dimenticarli: come potevano opporvisi gli alleati, visto che ne erano loro stessi gli organizzatori? Di fronte a questa incoscienza e a questo inconscio, rivelatori di un antagonismo automatico e persistente nei confronti degli ebrei (poveri) superstiti, il progetto di un territorio ebraico, che stavolta non sarebbe più stato un ghetto ma uno stato sovrano, aveva una certa logica per coloro che, secondo Hannah Arendt, da tempo si trovavano in mezzo “tra i paesi da cui si desidera che ce ne andiamo e quelli in cui non ci lasciano entrare”. Hannah Arendt includeva tra questi gli stati neutrali? Che cosa fece la Svizzera, per esempio? Il titolo di un trafiletto apparso su Le Monde ci informa meglio di qualsiasi documento ufficiale: “Una legge riabilita gli svizzeri che hanno aiutato i rifugiati ebrei”. Titolo tanto più eloquente dato che questa buona notizia risale al …gennaio 2004! Si consideri tanta magnanimità: “Gli svizzeri che hanno aiutato dei rifugiati ebrei durante il nazismo e hanno subito delle sanzioni in nome della neutralità elvetica possono ormai essere riabilitati a norma di una legge entrata in vigore il primo gennaio (2004) (…) Hanno cinque anni per farlo. Il periodo interessato va dal 1933, data dell’avvento al potere di Hitler in Germania, alla fine della seconda guerra mondiale. L’annullamento di una condanna non dà diritto ad alcuna richiesta di danni”: L’AFP (Agence FrancePresse) precisa, a proposito di questi criminali contro l’umanità, che “parecchie centinaia di cittadini elvetici …) avevano perso l’impiego o erano stati condannati a pagare una multa o addirittura a scontare una pena carceraria per aver aiutato vittime del nazismo in particolare ebrei, a fuggire o per aver ospitato dei fuggiaschi senza segnalarli alle autorità”. Se non si è giunti a congratularsi con loro, si è per spinta l’indulgenza fino a riabilitarli, una sessantina di anni dopo. Ma che ne è stato di coloro, se ce ne furono , che hanno doverosamente “segnalato” gli ebrei alle autorità? Hanno almeno ricevuto una medaglia? Mentre il popolo svizzero si commuoveva di fronte agli ebrei che cercavano di trovare rifugio nel loro paese, Edouard de Haller, dirigente di primo piano delle Croce Rossa, si rammaricava che “i membri del Comitato” non sfuggissero “all’ondata di generosità semplicistica che imperversa nel paese”. Vi sfuggiva invece del tutto il suo presidente, Max Huber, il quale durante tutta l’era nazista badò che la Croce Rossa, costantemente informata, non intervenisse però mai o assai di rado, senza insistere e senza compromettersi, nei confronti delle persecuzioni subite dagli ebrei, dei supplizi dell’ecatombe in corso. Il suo leitmotiv: il timore di vedersi imputare, lui e i suoi colleghi, un’ “intrusione negli affari interni di uno stato tentando di agire in favore di certe categorie di persone considerate da tale stato come dipendenti esclusivamente della sua legislazione interna”. Per Max Huber la Croce Rossa aveva il sacro dovere di astenersi da ogni reazione, da ogni uso della propria fama mirante a tentare anche solo l’attenuazione, per quanto debole, di certi orrori. La minima carenza di riguardo, di deferente neutralità nei confronti della Francia di Vichy gli sarebbe sembrata di pessimo gusto. Da tale atteggiamento si misurano l’annientamento di ogni garanzia e l’isolamento degli ebrei europei nel loro spazio all’improvviso così denudato, così spoglio di coloro che non fossero i loro assassini, ai quali resistevano soltanto gruppi isolati. Il razzismo viscerale e radicato e la remissività di fronte all’antisemitismo non vennero controbilanciati, alla fine della guerra, da un ‘apertura immediata, calorosa e netta del mondo occidentale alle vittime ebree, provocando in molti stati un sordo, latente senso di colpa riguardo al genocidio di cui il razzismo era stato la fonte; e questo senso di colpa fu, se non la colpa (che spetta al sionismo), per lo meno una delle due origini e un motore essenziale della tragedia che in Medio Oriente continua da decenni e sembra irrisolvibile. Questo libro si propone di dimostrare che a svolgersi oggi non è la storia di Israele o della Palestina, ma quella – prolungata, deportata, spostata e reinserita in Oriente . dell’Occidente inorridito di propri eccessi e incapace di tirarsi fuori dai propri tradizionali pregiudizi apparentemente anodini, ma che, anche se poco spettacolari, instaurano l’ordine che conduce all’orrore. I palestinesi, gli israeliani sano quanto sono estranei alla loro storia attuale, al loro presente? E noi lo sappiamo? Sanno fino a che punto sono vittime non gli uni degli altri, ma gli uni e gli altri di una Storia dichiarata passata, ma rimasta in sospeso e riattivata incessantemente in quella regione e che li ha trascinati in conflitti artificiali e tanto più irrisolvibili – una Storia europea in cui non sono stati né carnefici né colpevoli? Gli arabi hanno ricevuto il fardello, il castigo di un disastro cui sono del tutto estranei; gli ebrei, vittime di quel disastro, sono stati incoraggiati se non costretti a un ruolo di intrusi, e non si sono accorti che, per quanto volontari e vincitori, sono stati semplicemente messi in quarantena. Guardate come si combattono, come si ammazzano tra loro ebrei e arabi, e poi israeliani e palestinesi sotto gli occhi di un Occidente condiscendente, sollevato, che si erge ad arbitro delle loro ostilità. Un Occidente in qualche modo liberato, almeno simbolicamente, dalla propria preoccupazione ossessiva, finalmente trapiantata, trasformata, imposta in un altro contesto, in altre geografie, e assorbita in lotte che gli sono estranee. Un Occidente che così spera di essersi liberato dalle ossessioni della propria storia, capace di ritenere superati l’orrore del genocidio nazista e il consenso, l’indifferenza che lo hanno accompagnato, di fronte a una tragedia nuova di cui poteva e può ancora sostenere di non considerarsi responsabile, Un artista del senso di colpa, questo Occidente; un maestro delle analisi, delle rappresentazioni sublimi, ma anche un virtuoso della delega, del riassorbimento delle proprie responsabilità, soprattutto politiche. Riguardo all’era nazista ha saputo esercitare le proprie doti. Specialista del concetto di colpa, è molto competente in fatto di innocenza, che è sempre dalla sua parte; e a proposito del nazismo e dei suoi miasmi tocca la sfera dell’ignoranza. Condiscendenza al sistema nazista, indifferenza, partecipazione e collaborazione alle sue pratiche? Ma è semplicissimo, e assolutamente inoppugnabile: non si “sapeva”! “Non lo sapevo! Non ero al corrente del genocidio. Come prevedere che andasse a finire così?” Poiché solo un’ecatombe è degna di attenzione. “Non lo sapevo”. Si osò questa scusa, si osa ancora. Peggio, viene ascoltata, presa in considerazione, menzionata. Si osa confessare di ritenere accettabile insultare, umiliare, perseguitare adulti, bambini, vecchi e persino neonati, a patto che non li si ammazzi e soprattutto non in massa. Normale far portare loro una stella gialla obbligatoria a partire dai sei anni. Normale ricoprire i muri di manifesti che li infangano. Normale derubarli. Normale privarli dei diritti civili, vietare loro qualsiasi forma di vita pubblica e la maggior parte delle professioni. Normale braccarli, arrestarli. Normali le retate, normale catturare vecchi, adulti, bambini, neonati, brutalizzarli, stiparli sui camion, nei campi di concentramento, gettarli nei carri bestiame piombati e deportarli “verso Est” con destinazione ignota. Tutte pratiche che furono pubbliche, alcune addirittura ostentate. La sorte degli ebrei la si conosceva, era notoria, ufficiale. Il regime aveva carta bianca nei loro confronti, e questo non solo nella Germania nazista, ma in tutti i paesi europei che essa annetteva od occupava. Ciò nonostante, non c’era di che turbarsi: “Che volete, non sapevo del genocidio”: E poi, quanto a ucciderli o a farli morire, a partire da quale numero di morti lo si sarebbe giudicato indecente? A partire da quale quantità di cadaveri lo si sarebbe ritenuto scandaloso? “Mai più una cosa simile!” Mai più che cosa? Si sa che prendersela con un’unghia, un capello di una persona, lanciarle certi insulti, credersene in diritto e concedersene il diritto apre la strada, la può aprire a ogni genocidio? Tratto dal libro di Vivienne Forrester Il crimine dell’occidente, Ponte alle Grazie editrice, 2005. Libero Mancuso, presidente della Corte di Assise di Bologna, è certamente uno dei giudici che più onora la magistratura bolognese e nazionale. La sua vita professionale si è intrecciata ad alcune delle vicende giudiziarie di maggior rilievo (caso Cirillo, Italicus, strage di Bologna, processo Savi, caso Parmalat, omicidio Biagi). E’ noto per il suo superiore spirito di autonomia ed indipendenza, che ha esercitato anche con assidua pedagogia civile e di divulgazione delle problematiche connesse all’ambito del Diritto. home |