3° SEZIONE – Pomeriggio del martedi 29 Settembre
Julio Monteiro Martins: Buona sera. Questa è la terza sezione del Seminario della Sagarana, e oggi avrò questo grande piacere di presentarvi Pina Piccolo, una persona che è stata inclusive di grande importanza per il lavoro della Sagarana negli ultimi mesi, e che è stata per me una scoperta intellettuale ma anche affettiva. Un mese fa ci siamo ritrovati a Lucca, lei è venuta a intervistare per Il Manifesto un grande amico, oggi un amico comune nostro, il poeta statunitense Paul Polanski, e abbiamo rafforzato così il nostro rapporto. Pina Piccolo è un’intellettuale a tutto tondo, con diverse strategie di espressione. Innanzitutto è una poetessa brava, tanto in lingua italiana quanto in lingua inglese, perché lei è italo-americana, è stata cresciuta negli Stati Uniti, quindi è un esempio di scrittrice che ha praticamente due madrelingue, l’inglese e l’italiano, e scrive in modo straordinario in queste due madrelingue. È anche una grande divulgatrice della letteratura statunitense di avanguardia, la letteratura più impegnata, quella dei contemporanei ma anche quelli della Bea<t Generation. Diciamo che Pina prosegue il lavoro che altri italiani, come Fernanda Pivano, hanno fatto brillantemente in passato, un lavoro straordinario di divulgazione della migliore letteratura statunitense nel nostro paese. Inoltre, ieri abbiamo conosciuto il testo “Respingimenti”, che gira in torno a questa terribile parola, un testo che avrebbe potuto essere scritto solo da un poeta, perché oltre al concetto, va direttamente alla radice della parola, e solo i poeti acquisiscono questa profonda intimità con la parola, che va ben oltre il suo concetto immediato, la parola quindi come entità, anche estetica, o antiestetica, come nel caso di “respingimenti”. Pina produce una letteratura – delle poesie e anche dei saggi – sempre molto impegnati, lei è uno di quei “poeti civili”, così importanti per esempio nella tradizione anglosassone, e che oggi diventano sempre più importanti anche nella tradizione italiana, soprattutto in un momento storico in cui la loro coscienza, la loro espressione critica, diventa indispensabile e insostituibile. Sono due parole queste che mi vengono in mente sempre chge penso al lavoro di Pina Piccolo, un lavoro indispensabile e insostituibile. Ora passo la parola a Pina Piccolo.
Pina Piccolo – Mammamia, dopo questa generosa introduzione non riuscirò mai ad arrivare all’altezza che lui ha proposto. Comunque devo ringraziare a Julio prima di tutto e a tutti quelli che sono venuti, perché questo Seminario di “Sagarana”, che continua da nove anni veramente dà uno spazio di confronto e di esposizione che è veramente molto raro in questi giorni, e senza di cui saremmo proprio messi male. Quindi, veramente sono grata per questo. Allora, io non sono brava a parlare a braccio, dovrò per forza leggere, non sono molto sicura di me, comunque volevo proporvi un intervento in diverse fasi, allora prima vi volevo leggere una mia poesia, in cui penso diu utilizzare dei procedimenti che sono affini al grottesco, e poi vorrei leggervi dei pezzi di uno work in progress che ho. Sono tre saggi su tre concetti che sono in qualche modo concatenati. Vi leggerò soltanto dei pezzi, perché sono molto lunghi, ma vorrei avere da voi un po’ di feedback, di suggerimenti e di critiche, che mi aiuteranno a perfezionarlo. Allora volevo cominciare subito con la poesia: Non so se vi ricordate, l’anno scorso, tra ottobre e novembre ci sono accaduti due fatti che hanno occupato le pagine dei giornali. Uno è stato l’uccisione di sei africani a Castel Volturno, e per giorni di questi africani non si sapeva il nome, come se fossero sei persone senza nome, e subito i giornali hanno detto: “Ah, erano tutti spacciatori”, “sono stati uccisi perché i Casalesi volevano dare una lezione ai loro potenziali rivali”, insomma, subito così, colpevoli senza nomi, come se non ci fosse nessun’altra cosa da indagare. Sennonché diversi giornali, tra cui “La Repubblica” è andata a Castel Volturno e hanno visto che il luogo dove è avvenuta la sparatoria, che era una sartoria che si chiamava Ob-Ob Exotic Fashions era in realtà una sartoria in cui gli immigrati andavano anche per farsi riparare i pantaloni, eccetera. Uno dei ragazzi che è stato ucciso era in macchina e aspettava che qualcuno gli riportasse i pantaloni rappezzati, ed era lì appunto perché si vergognava di uscire perché non aveva i pantaloni addosso. Così, a poco a poco, si scoprì che questi erano immigranti che lavoravano, che avevano la loro vita, e che questi killer dei Casalesi mezzo drogati, se ne erano presi con questi primi sei africani che avevano visto per strada, ed erano entrati lì dentro, mentre lo spaccio degli africani avveniva in tutt’altra zona di Castel Volturno. Questa è una delle cose che accade. Poi, tre settimane dopo, l’altra grande notizia è la morte di Miriam Makeba sul palcoscenico, sempre in un paesino vicino a Castel Volturno, durante un concerto che era di chiusura di un convegno che era stato organizzato dalle autorità scolastiche, un convegno sulle scuole nel Sud, e a questo aveva partecipato anche Saviano e insomma era una occasione che Miriam Makeba aveva deciso che voleva sostenere, anche se lì era una periferia del mondo, ma Miriam Makeba che era un’artista che si esibiva in tutti i più grandi palcoscenici del mondo arrivava in questo paesino del nulla per fare questo concerto, per sostenere diciamo questa cultura della resistenza, e lì muore. È proprio una cosa molto paradigmatica. E allora questo per me è stato un episodio molto forte e ho deciso di scrivere una poesia, che mi è venuta un po’ a pezzi, e che voglio leggere.
Zenzile Miriam Makeba and the Castelvolturno Boys
Per chi ti brillano gli occhi,
Miriam Makeba,
Sul palcoscenico
La notte del tuo trapasso?
Grande Dea clemente
Per accompagnarla
Verso il grande portale
Non hai mandato
Le Parche a recidere i fili:
Non di marionetta
Morte
Hai decretato
Ma di donna integra
Che di libertà cantava
In ogni angolo di mondo.
Notte gelata, lassù esposta ai venti
Piazza semivuota
In una meridionale periferia
Su una carrozzina
L’artrite che ti rugge nelle ossa
Lo sconforto che ti assedia il cuore
Dopo sessant’anni di battaglia
Non ne puoi più, continuano a chiederti
Quella scemenza di Pata Pata
Ma ti brillano gli occhi
Come a una bimba
Zenzele Miriam Makeba.
In grembo tra le mani
Visibile solo agli occhi dei giusti
Il prisma
Dono della Grande madre
Che scompone la delicata frontiera
Tra ciò che ci è dato vedere
E ciò che ci è celato.
Niente tutù da canto finale
Del cigno nero
Per questa sarabanda finale
Abito da imperatrice
Perline e ori cuciti dalla
Ob Ob Exotic Fashions
Sartoria di CastelVolturno
Costellata, Miriam
Zenzele Makeba
Dai sei ragazzi
Per giorni
Senza nome
Marchiati
D’infamia dai giornali.
Aaaalla miiia deeestra
Fulgido con il tamburello in mano
ALEX GEEMES
Gridateli i nomi
Perchè la parola
Crea mondi
E racchiude
L’essenza
I proiettili dei Casalesi
Questo tuo nucleo
L’hanno mancato
Aaalla miiia siiiinistra
Risplendente
Al suo tamburo corsaro
ALAJ ABEBA
Si scatena
Per coprire il crepitio
Dei Kalashnikov
Aaaalle taaaastiere miiio nipote
L’eccelso
NELSON LUMUMBA LEE
Non servono presentazioni
Due nomi, un programma
Daaaavanti a voooi
Frenetici nel ballo
Gli agilissimi, armoniosi
(uno tra loro in verità un po’ sgraziato
Africano senza ritmo)
KWAME YULIUS FRANCIS, SAMUEL KWAKU e CHRISTOPHER ADAMS
Ambasciatori segreti
di Ghana, Togo e Liberia
Per voi i figli d’Africa
Hanno organizzato
La prima sommossa
Nera
Su suolo italico
Per voi
Adesso
Suona la banda
E, iiiiinfine ERIC AFFUM YEBAOD,
Col suo sassofono glorioso
Ha smesso di aspettare in macchina
Angustiato
Che gli portassero i pantaloni
Rattoppati
Ora esibisce davanti almondo
Il suo talento.
La nuova, ultimissima band
Di Lady Miriam
“Sings the blues”
Makeba
Mama Afrika
Imperatrice della Canzone Afrikana
Avvolta
Come dea
Nelle stoffe preziose
Della Ob Ob Exotic Fashions
Famosi stilisti di CastelVolturno
Rinomati in tutto il mondo
È venuta a riprendersi
I suoi figli
Dispersi nella Diaspora
Che onda dietro onda
Dura da sessantamila anni
Cantaci o Diva
Non l’ira funesta del Pelide Achille
Che infiniti addusse lutti agli Achei
Ma la bellezza del suono
Polifonico e inceppato
Le sillabe che si librano
Volteggiano e cadono
Come corvi con le ali spezzate
Da uragani prossimi venturi.
Questa poesia può sembrare un po’ strana, una specie di calderone che contiene pezzi di cronaca, allusioni mitologiche e letterarie, giornalismo, un patchwork contenente diversi registri. Mentre la scrivevo mi sembrava di essere una specie di dj che prendeva pezzi di memoria, che si erano impressi nella mia coscienza, alcuni venivano da fuori della finestra altri da dentro, e mi trovavo a fare una specie di sampling, campionamento e ogni tanto qualche scratching di registro. Negli ultimi anni, le mie poesie vengono così e questa frammentarietà e carattere eterogeneo credo registrino e ripropongano il modo in cui ci arriva l’esperienza del mondo. Questa mancanza di armonia, questo abbinamento di cose che appaiono discordanti le possiamo considerare un limite perché non hanno come risultato qualcosa di “armonioso’ o di bello o possiamo anche tentare un’altra strada, vedere se offrono degli strumenti di conoscenza del mondo che si addicono al momento storico di cui parlava Julio ieri? Secondo me, se seguendo le indicazioni di Calvino “nell’inferno cerchiamo di dare spazio e far crescere quello che inferno non è” ci imbattiamo in commistioni di immagini, saperi che recano l’impronta del territorio che lo generano e di quello circostante. E non si tratta di un territorio molto bello a vedersi. Non è uno di quei panorami che ti aprono il cuore. Sono quei famosi tempi bui di cui parlava Brecht ed è di quelli che dobbiamo cantare. Se vogliamo tentare questa opera di opposizione all’esistente e di recupero dell’essere umano dobbiamo forgiare delle nuove armi, o almeno affilare quelle già in esistenza. Occorre quindi fare una sorta di inventario di cosa abbiamo a disposizione. E, riflettendo su quello che potrebbe esserci nel nostro armamentario sono convinta che una delle armi più potenti per la letteratura critica sia il grottesco.
Io personalmente subisco il fascino del grottesco da tempo immemorabile. Sarà forse il risultato di un’indole disordinata, che arretra davanti alla simmetria come una cosa innaturale, istintivamente sono sempre stata attratta da cose che rivelano una formazione e natura ibrida, che rendono palese la contraddizione. Cose che sono sbilenche e non troppo armoniose, ad Apollo preferisco Pan.
A livello di studio, il grottesco l’ho un po’ approfondito molti anni fa, più di 20 per essere precisi, occupandomi del genere del grottesco, prima in relazione al teatro di Dario Fo e Franca Rame, poi analizzando i racconti e le novelle di Gianni Celati. Avevo seguito il filo di Bachtin nella sua analisi dello spirito carnevalesco, che metteva in evidenza l’aspetto diciamo solare del genere, in contrapposizione ad una visione più sinistra e spostata verso l’assurdo elaborata dal critico tedesco Wolfgang Kayser, e rielaborata in seguito dalla studiosa francese Sylvie Debevec Henning ed altri che mettevano l’accento sull’elemento dell’ambiguità.
Non sono comunque un’esperta né nel campo della critica letteraria né di storia dell’arte, ma poiché non esiste una definizione univoca del grottesco ne approfitto per intrufolarmi negli interstizi ed elaborare una storia esemplare del genere forse un po’ fantasiosa ma tutta mia.
Un rapido sondaggio tra scrittori, lettori, studiosi e giornalisti presenti al Seminario di Sagarana rivela che, dopo un primo, collettivo, unanime baluginio dell’immagine dell’attuale Presidente del Consiglio, la prima parola che descriveva il fenomeno variava tra: deforme, brutto, strano, contraddizione, spaventoso, cose diverse messe assieme, repulsione, ridicolo, buffo. Quindi consenso per quanto riguarda la scarsa armonicità, ma differenze per quanto riguarda l’effetto, cioè si passa dal comico al disagio fino all’horror.
Allora, cominciamo dall’origine del nome: grottesco. Il nome già comincia come trasposizione ed errore che però alla fine assumono il carattere di rivelazione. Il vero che si annida “embedded”, incastonato, nell’equivoco. L’etimologia e la storia di come il genere è venuto ad acquisire il suo appellativo racchiude in sé il meccanismo e le potenzialità del genere stesso. La parola “grottesco” potrebbe essere considerata una specie di onomatopeia del genere.
Cominciamo allora dalle definizioni: tutti i dizionari e le enciclopedie consultate dicono che il sostantivo “grottesco” deriva da grotta, cioè quello che si riteneva essere il luogo dove erano state rinvenute alla fine del ‘400 alcune pitture murali risalenti all’epoca romana. Queste “grotte” si trovavano nel bel mezzo della zona degli scavi e Roma, città che all’epoca pullulava di pittori ingaggiati dal Papa per adornare centinaia di chiese e dalle famiglie patrizie per abbellire i palazzi nobiliari. Siamo nel 1480, all’apice del potere dei Papi (non del Papi), quindi potete immaginare, la centralità di soggetti sacri per chiese e conventi, e mitologici per le pareti dei potenti secolari. Ogni tanto il sacro e il profano si mescolavano, come accade nella Cappella Sistina per le varie Sibille che si ritrovavano tra personaggi biblici e del Nuovo Testamento Comunque potete immaginarvi le torme di poveri pittori costretti a produrre dozzine di scene ripetitive dell’annunciazione, del battesimo di Cristo, della vita dei santi, e malgrado le centinaia di varietà di torture inflitte ai martiri si ritrovavano sempre a dover dipingere un San Sebastiano trafitto da frecce. Quando invece si spostavano alle pareti dei palazzi nobiliari avevano un repertorio potenzialmente più vasto che però poi si riduceva a sfilze di Lede e cigni, Veneri e Marte, Europe e tori.
Secondo l’articolo di Wikipedia sul grottesco, un bel giorno, nel 1480, si sparge la notizia che un giovane romano caduto accidentalmente in una fessura sul versante del colle Oppio si era ritrovato in una strana grotta piena di figure dipinte. Ci immergiamo quindi quasi subito in un’atmosfera fiabesca, in una grotta da mille e una notte. Subendo il richiamo del fascino della pittura, ben presto i giovani artisti romani presero a farsi calare su assi appese a corde per poterle vedere con i propri occhi. Gli affreschi che emergevano dalle ombre furono elettrizzanti per l'intero Rinascimento ma suscitarono anche l’indignazione dei sostenitori di un certo modello classico come Vasari, che le definì “pitture licenziose e ridicule molto.” Questo giudizio negativo era stato espresso in tempi più vicini all’esecuzione delle pitture stesse da Vitruvio, nel primo secolo a.c., nel VII Libro del trattato De Architectura:
Ma quegli essempi, che erano tolte dagli antichi da cose vere, ora sono con malvaggie usanze corrotti e guastati, perché nelle coperte de i muri si dipingono più presto i mostri che le certe imagini prese da determinate cose.
Perché invece di colonne vi si pongono canne et in luogo di fastigi fanno gli arpagineti canalati con le foglie crespe; similmente i candellieri de i tempietti, che sostengono le figure, e sopra le cime di quelli fanno nascere dalle radici i ritorti teneri con le volute, che hanno senza ragioni le figurine che sopra vi siedono. Similmente i fioretti da i loro steli, che hanno mezze figure che escono da quelli, altre somiglianti a i capi umani, altri a i capi delle bestie. Ma tali cose né sono, né posson esser, né saranno giamai.
Perfino Pinturicchio, Raffaello e Michelangelo s'infilarono sotto terra e furono fatti scendere lungo dei pali per poter studiare queste immagini e Raffaello, in particolare, è quello che le ha rielaborate e rese famose, nelle logge dei palazzi vaticani. Come le pitture di animali preistorici dipinti sulle caverne della Dordogne che emanano lo spirito del mondo che definiamo “preistorico” così dalle pareti di quelle “grotte” i pittori ebbero una rivelazione di quello che era stata un’importante stile di rappresentazione del mondo antico.
Molti anni dopo si scoprì che questi dipinti non erano stati eseguiti su grotte bensí sulle pareti di una enorme villa, luogo deputato del divertimento, senza nessuna camera da letto o cucina, la Domus Aurea di Nerone, molto più stravagante del Caesar’s Palace di Las Vegas, tutto un insieme di 300 stanze, diversi ettari di giardino e terreni coltivati a vigneto (la campagna in città, il tutto occupava 2,5 km quadrati) costruita tra il 64 e il 68 , dopo il grande incendio di Roma per ospitare e dar sfogo alle manie di showbusiness dell’Imperatore (Villa Certosa e Palazzo Grazioli non sono che bazzecole al confronto). Sempre rispettando il discorso degli strati, dopo il suicidio di Nerone la Domus Aurea venne restituta al “popolo romano” che giustamente la ricoprì di terra e vi costruì sopra le terme di Tito e di Traiano, l’anfiteatro Flavio, il Tempio di Venere e di Roma e chi più ne ha più ne metta. Così facendo però, inconsapevolmente contribuirono a preservare le pitture murali di Fabullo (o Famullo?)che ricoprivano gran parte della costruzione sottostante.
Nel 1480 nella grotta i romani non avevano riconosciuto la stanza, ma a pensarci bene il concetto stesso di stanza non poteva che derivare, per analogia, dall’esempio della grotta. Possiamo immaginarci in un’epoca remotissima un gruppo di donne, forse 50,000 anni fa, che decide di creare una “caverna” all’esterno, legando insieme dei tronchi d’albero, per proteggersi dalle intemperie mentre vanno a raccogliere bacche e a scavare radici un po’ lontano dalla grotta dove abitano. Così, in questo binomio grotta-stanza si scopre la contiguità, un rapporto metonimico forse addormentato tra questi due elementi che a rigor di logica dovrebbero essere ben lontani. E allora grottesco che in un primo momento sembra una denominazione fallace si rivela invece, per un gioco metonimico, veritiera risvegliando metafore addormentate, secondo la descrizione fatta da Lucie Olbrecht-Tyteca nel libro “Il comico del discorso. Un contributo alla teoria generale del comico e del riso”.
Se per Vituvio lo scarso realismo del genere rappresentava il suo limite più vistoso, il critico russo Bachtin, ne “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, nell’analizzare il motivo del successo delle pitture grottesche scopre il suo valore di rappresentazione proprio nella sua distanza dalla verisomiglianza:
La scoperta impressionò i contemporanei per il gioco insolito, fantasioso e libero delle forme vegetali, animali e umane che passavano l’una nell’altra e quasi si trasformavano reciprocamente. Non si riscontravano quei confini netti e fissi che separano nel quadro tradizionale del mondo questi “regni della natura”: nel grottesco tali confini erano audacemente superati. Non vi si trovava la staticità abituale della rappresentazione della realtà: il movimento cessa di essere quello delle forme già date -- vegetali e animali—in un mondo già dato e stabile, ma si trasforma in un movimento interno all’esistenza stessa e si esprime nella trasmutazione di alcune forme in altre, nell’eterna incompiutezza dell’esistenza. In questo gioco ornamentale si percepisce una straordinaria libertà e leggerezza della fantasia artistica... reso con grande precisione da Raffaello e i suoi discepoli nel momento in cui, dipingendo le logge del vaticano, imita lo stile grottesco.”
E poi approfondisce citando la definizione di grottesco fornita da un altro critico russo, L. E. Pinskij:
Nel grottesco la vita passa attraverso tutti gli stadi, da quelli inferiori inerti e primitivi a quelli superiori più mobili e spiritualizzati, in una ghirlanda di forme separate che testimonia la sua unità. Avvicinando ciò che è lontano, mettendo in relazione ciò che si esclude a vicenda, violando le nozioni abituali il grottesco in arte è simile al paradosso in logica. A un primo sguardo il grottesco in arte è soltanto spirituale e divertente, mentre esso cela tante opportunità”.
“Cela tante opportunità” e questo è un concetto intrigante per la letteratura. Allora se nell’arte figurativa il grottesco consisteva nel mettere in posizione contigua elementi contraddittori e trasformarli poi in altri elementi, creando ibridazioni e forme “mostruose” in letteratura si può fare un discorso analogo, notando che il grottesco funziona come arma di spaesamento e di critica dell’esistente, mette in questione la sua solidità. Ponendo uno accanto all’altro elementi contraddittori ed intrecciandoli per creare un ibrido, proprio come accadeva nelle pitture del IV stile romano, nella letteratura il grottesco crea uno spostamento, uno spiazzamento che induce a non accettare la realtà come fenomeno univoco. Ma questa forma particolare si muove per contiguità. Questo procedimento sembra ancora più rilevante in situazioni in cui all’interno della coscienza dello scrittore e del lettore convivono, in posizione contigua, anime diverse, diverse identità in un bel groviglio gomitoloso, in uno gliommero per dirla con un grande maestro del grottesco italiano, Gadda. E qui naturalmente è chiaro dove stiamo andando a parare: la letteratura scritta da persone la cui identità può racchiudere esperienze di vita in Paesi diversi.
Naturalmente la letteratura italiana “autoctona’ è densa di maestri del grottesco, esiste tutta una corrente di teatro grottesco dagli inizi del 900 agli anni 20 che servì anche da ispirazione per il teatro dell’assurdo. Prima ancora, nell’800 “Le Operette Morali” di Leopardi, pullulano di personaggi e situazioni grottesche utilizzate per ricavare lezioni filosofiche. Letterati come Pirandello e in un certo qual modo anche Svevo fecero largo uso di questa tecnica. Nei maestri del 900 non è forse coincidentale una certa loro marginalità e distanza geografica, rispetto al centro, cioè nella letteratura italiana le rive fatali dell’Arno.
Non c’è che l’imbarazzo della scelta nel caso di Pirandello: centinaia di esempi forniti dallo scrittore siciliano spostato all’estremo sud rispetto al centro. Basta pensare alle situazioni paradossali e grottesche che sono il filo conduttore di Novelle per un anno, e di quasi tutti i personaggi e le situazioni delle sue commedie. È un grottesco che si rifa al relativismo, quindi anche lì alla critica del positivismo e dell’idea solida di mondo.
Un esempio di grottesco dell’estremo Nord dell’Italia potrebbe essere la descrizione finale dell’apocalisse tecnologica prevista da Svevo nella parte finale de La coscienza di Zeno. Il grottesco in chiave tragica viene proposto concatenando con grande maestria tutti gli elementi pertinenti al campo semantico di malattia e di salute, intrecciandoli poi all’idea di arnese, ordigno e arma in una girandola catastrofica:
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Ma nel Novecento italiano, forse l’autore che sperimentò in maniera più consapevole le armi del grottesco, a pari merito con Pirandello, ma iniettandoci una forte dose di barocco, fu Carlo Emilio Gadda. In quel tour de force linguistico, psicologico e storico che è Eros e Priapo, tenta un’approfondita disanima dei meccanismi psicologici che portarono all’affermarsi del fascismo in Italia. L’autore, riproponendo una voce narrante da cronista fiorentino del Duecento, scatena una fiumana incontenibile di virtuosismi plurilinguistici, e concatenazioni governate da elementi metonimici all’insegna di logos ed eros, ricco di riferimenti iconografici:
E chi comanda o richiede il sacrificio agli altri, ha da sacrificarsi per primo: se non nel senso letterale di offrirsi primìpilo allo strale nemico, almeno però nel senso di costruire e vivere dentro di sé l’angoscia, lo sforzo, la verità vera della battaglia. Il solo generale ammissibile è colui che suda sangue. L’inspirazione di chi chiede altrui la vita per buttarla nelle sue scipionate del cacchio, alla conquista dell’inesistente petrolio e del roseo fiore del carcadè, io non ammetto lui la possa toglier su come fece il Pirgopolinice dagli spettacoli e dalle fanfare: l’inspirazione per il comando viene da una dolorosa e perspicace contemplazione del «minor male possibile». Non sono le rubeste cosce de’ giovini, per quanto un po’ pelose, che sfilano con le guide di plotone lungo la riga bianca di Via dell’Impero «in allineamento perfetto» (fotografi e cineoperatori appostati) a dover inspirare la politica d’una nazione che vive difficilmente la sua recente unità nazionale e le sue costose e indigeste «conquiste», vaso di terracotta destinato da Dio a viaggiare in compagnia di vasi di ferro. Questo inspirarsi alle cosce, ai calzoncini corti, a’ bei deretani mantegneschi degli òmini e de’ cavalli, è Eros ginnico e pittorico e se tu vuoi mantegnesco, non Logos politico. Amo il Mantegna degli Eremitani e ammiro il suo crudele vigore (pittorico) e i suoi esecutori di giustizia, ma non provocherei una guerra per procurarmi la soddisfazione sadica ed omoerotica di buttarvi a morire i figli di quelle… a cui si è largito il premio nuziale perché facessono figli: figli, figli, figli, tanti figli, infiniti figli, da mandarli a morire nella guerra, guerra, guerra, guerra, contro i «delitti delitti delitti della Inghilterra Inghilterra Inghilterra Inghilterra».
Spostandoci dall’Italia, una delle ultime nazioni europee a costituirsi come stato, vediamo che il grottesco riveste una grande importanza nella letteratura anti e post-coloniale, e, non a caso, proprio perché in quelle situazioni in cui si intersecano e s’intrecciano i vari filoni della coscienza e dei punti di vista, da asservimento a ribellione, da hubrys a umiliazione, eroismo e tradimento mentre la storia si affaccia anch’essa a volte come personaggio. Per illustrare questo, l’incipit del romanzo di Salman Rushdie “Midnight’s Children” (I figli della mezzanotte) che viene considerato un modello della letteratura postcoloniale, spesso inserito nella categoria del realismo magico, ma che è retto da un forte impianto del grottesco:
Io sono nato nella città di Bombay... tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l'ora? Anche l'ora è importante. Be', diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi... Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell'orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro; nell'istante preciso in cui l’India pervenne all'indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. Ci fu chi boccheggiò. E, fuori dalla finestra, folle e fuochi d'artificio. Pochi secondi dopo, mio padre si ruppe un alluce; ma questo incidente era una bazzecola se paragonato a quel che era accaduto a me in quel tenebroso momento: grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti, io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese. Nei tre decenni successivi non avrei avuto scampo.
A partire dall’incipit la potenza del grottesco sorregge l’intero romanzo e contribuisce a scongiurare quella che sarebbe potuta essere una visione granitica di quel momento storico e dei personaggi che l’hanno vissuto. C’è un costante intersecarsi tra “momento storico” della nascita dello Stato India e “momento della nascita” del protagonista convogliato nell’unione delle lancette in segno di preghiera, allusione a una visione stereotipata del “cerimonioso”popolo indiano, che si intreccia a reminiscenze dell’incipit di romanzi inglesi del 700 come Tristam Shandy, anch’esse improntate a delle nascite un po’ irregolari con sfilze di trovatelli, orfani, etc. Mi ha fatto venire anche in mente la lettura di Karim [Metref] della nascita del personaggio di Fatima, la quale, una volta appurata la mancanza di attributi virili, viene salutata con sospiri di delusione e sputi dagli astanti, e poi, relegata in un angoletto. Infine, recuperata ad una pallida manifestazione di amore, riceve il nome Fatima dalla zia divorziata.
La presenza del corpo, quello che Bachtin chiama il basso materiale corporeo, salta agli occhi nel racconto “Domino”, di Julio Monteiro Martins scrittore ibrido brasiliano-italiano, ma a differenza del carnevalesco gioioso dell‘epoca di Rabelais si risolve in una versione horror novecentesca del carnevalesco, prefigurando un mondo nel processo di divenire, attraverso un botto/vendetta in cui una specie di “male ingenuo” trionfa su un male più ragionato. Il racconto ha come protagonisti due esseri che per nascita si trovano agli antipodi della scala sociale (almeno in apparenza), Herbert, nipote del notaio che muore prima di cadere in rovina, e il figlio di una prostituta nera, “nato prematuro e orrendo, vittima di un infortunio ostetrico, a metà tra il parto e l’aborto”. I due crescono , l’uno alto e pallido come la madre, l’altro scuro, “barilotto di un metro e mezzo’ e ‘scimunito, soprannominato “Boloto”. Il degrado che segnava l’inizio della vita di Herbert s’intensifica grazie alle attività poco raccomandabili della madre, cioè il vizio del Domino (capovolgimento grottesco del topos del figlio dissoluto) che costringe il figlio al doppio lavoro di tassista e clown presso un bordello/ cabaret, dove è noto con il nome di Simplicio e apprezzato per sconce performance, tra cui l’offerta ai clienti di un enorme cobra, estratto dai pantaloni di raso rosso. Boloto è vittima delle angherie di Simplicio, nonostante l’ammirazione che nutre per il suo carnefice e nella scena finale dopo aver subito le percosse e minacce di Simplicio (non riconoscibile come Herbert perché indossa ancora i panni del cabaret), mentre quest’ultimo è addormentato, ubriaco sul volante, dopo aver come il solito lustrato il taxi, Bolota apre il serbatoio, vi introduce una miccia e poi appicca il fuoco, allontanandosi. L’auto esplodendo fa un botto, “un’enorme carcassa nera in fiamme, che sputava fuoco da ogni fessura”. Quest’immagine richiama quelle figure di area spagnola come “El toro de fuego” di ferragosto, spettacolo destinato ai bambini, in una specie di addestramento soft alla pirotecnica, mentre a mezzanotte, i bimbi mezzo addormentati sulla spalla del papà lanciano gridolini misti di paura e di meraviglia, ed è con questa bambinesca meraviglia che i turisti ubriachi assistono alla tragica fine del clown.
È ancora la struttura del grottesco a sostenere l’impianto dell’ultimo romanzo dello scrittore statunitense/dominicano Junot Diaz, “ La breve favolosa vita di Oscar Wao”, vincitore del premio Pulitzer del 2008. Anche qui il personale e il politico si intrecciano in fantasiose configurazioni che scavano nel profondo dei rapporti di potere tra uomini e donne, tra dittatore e popolo, tra azione umana e destino, tra amore e logica. Anche qui nell’incipit, la voce narrante che sarebbe quella di un amco bellimbusto e un po’ scaprestato, nonché aspprante scrittore dà subito prova dell’importanza degli accostamenti tipici del grottesco presentando subito il fukù, fenomeno che gironzola tra i continenti e le epoche, quella che sarà una disumana eminenza grigia per tutto il libro:
Dicono che sia venuto dall’Africa, racchiuso nelle grida degli schiavi; che fosse l’anatema finale degli indiani Taino, pronunciato mentre un mondo moriva e un altro nasceva; o che fosse un demone, penetrato nella creazione attraverso la porta dell’incubo dischiusa alle Antille. Fukú americanus, o più colloquiamente fukú: usato in genere per indicare qualche tipo di maledizione o sventura, in particolare la Maledizione e la Sventura del Nuovo Mondo. Chiamato anche il fukú dell’Ammiraglio, perché l’Ammiraglio fu al contempo la sua principale levatrice e una fra le sue vittime europee più importanti; malgrado avesse “scoperto” il Nuovo Mondo, l’Ammiraglio morì povero e sifilitico, ossessionato da (dique) voci divine. A Santo Domingo, la terra che Amava di Più (quella che Oscar, verso la fine, avrebbe chiamato la Ground Zero del Nuovo Mondo), il nome stesso dell’Ammiraglio è diventato sinonimo di entrambi i tipi di fukú, piccolo e grande, pronunciare quel nome ad alta voce, o anche solo sentirlo pronunciare, significa attirare la sventura su di sé e sui propri cari.”
La voce narrante sottolinea lo scarto tra la storia spicciola che riguarda la vita di chi non ha potere e la Storia dei grandi facendo largo uso di altisonanti maiuscole che spesso vengono contrapposte a una specie di presa di distanza sprezzante e scaramantica da parte di chi non ha potere. Mette in contatto concetti del passato come la s’scoperta” dell’America, con concetti del presente come il “Ground Zero. Il Fukú diventa l’elemento comune, nato dalla fusione dei destini dei potenti e dei piccoli e che perseguita entrambi in tutti i tempi.
Per intrecciare le complesse fila che costituiscono l’identità in un soggetto migrante anche lo scrittore algerino/italiano Amara Lakhous ricorre con grande perizia alle capacità del grottesco. In “Scontro di civiltà per un ascensore in un palazzo di Piazza Vittorio”, l’autore richiama per l’uso della cornice del giallo e l’interrogatorio il romanzo di Gadda “Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana”, tenta un plurilinguismo che forse non sempre riesce e che non raggiunge i risultati di Gadda, ma aggiunge un elemento interessante: il controcanto del migrante consapevole della sua coscienza divisa e ricostituita. Opera una sorta di commistione tra elementi che richiamano l’origine nazionale del personaggio che a questo punto sono multiple e la sua condizione selvatica (forse uno strale lanciato al concetto di civiltà) esprimendosi come ululato (altro elemento di ironia grottesca è che alla radice del delitto sta un elemento addomesticato, cioè il cane e non il lupo). In una serie di 10 ululati, che costituiscono una specie di diario/a parte verso il lettore il personaggio del migrante cosciente parte da un atteggiamento conciliatorio che si trasforma man mano in un crescendo di disagio riproducendo sia l’ululato delle donne algerine (che appare la prima volta in una bellissima sequenza sul concetto di mascolinità e le aspettative che esso innesca nel mondo arabo) che l’ululato del lupo. Ma non è il solito lupo delle foreste, per contiguità diventa la lupa romana, simbolo di una civiltà che dopo averti allattato potrebbe anche sbranarti (infatti il titolo con cui è uscito il libro in Algeria era “Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda”, mentre il titolo italiano fa occhiolino al lessico giornalistico adoperando l’espressione scontro di civiltà). Nel corso del nono ululato, Ahmed/Amedeo riflette:
“... A quel punto mi sono ricordato quello che mi ha detto Riccardo il tassista, “Amedeo tu sei stato allattato dalla lupa!” Ormai conosco Roma come come se vi fossi nato e non l’avessi mai lasciata. Ho il diritto di chiedermi: sono un bastardo come i gemelli Romolo e Remo oppure sono un figlio adottivo? La domanda fondamentale è come farmi adottare dalla lupa senza che mi morda? Adesso almeno devo perfezionare l’ululato come un vero lupo: Auuuuuuuuuu!”
In una commistione grottesca che accosta animali e tradizioni diversi intitolato Ultimo ululato/prima che il gallo canti, un Ahmed/Amedeo un po’ ammaccato supplica quella che potrebbe essere una figura mista tra la sua defunta amata Bagia, una musa, la lupa che ormai l’allatta e Shahrazad di insegnargli l’arte di sfuggire alla morte, alla rabbia, all’odio e forse alla memoria.
La recente piece di Christian De Caldas Brito, apparsa nell’ultimo numero di El Ghibli, ambientata all’aeroporto di Fiumicino vede come protagonista il romanissimo poliziotto Ubaldo alle prese con una serie di migranti d’eccezione che comprendono un drago fuggito da una tela di Paolo Uccello e che riapproda in Italia dopo essere scappato da un museo inglese per sfuggire alle persecuzioni di San Giorgio, unicorni usciti da arazzi francesi, mostri giapponesi del vento e del tuono (tutti orrendi e spaventosi ma regolarmente in possesso di documenti) seguiti poi da una sfilza di “normalissimi” aspiranti immigrati non regolari, ma necessari e forse in fondo anche apprezzati. Dopo qualche esitazione, in preda a un raptus di accoglimento, il buon Ubaldo appone visti di ammissione senza distinzione, a tutti. L’autrice mette in evidenza attraverso l’arma di un grottesco sia fisico che ragionato l’assurdità dell’attuale situazione esacerbata dalle disposizione del pacchetto sicurezza. Nella sua piece, l’autrice spaesa ulteriormente il lettore spostando la scena dagli sbarchi dal mare a quelli all’aeroporto, risvegliando anche lì la metafora della parola sbarco, e allontanando il momento in cui riconosciamo che si tratta di un discorso sui respingimenti in chiave grottesca. Anche qui il grottesco funziona per contiguità in una specie di crescendo questa volta dettato dalla fila davanti allo sportello dell’aeroporto.
Gli esempi di grottesco utilizzati da scrittori migranti in Italia sono innumerevoli: Igiaba Scego, Gabriela Kuruvilla, Gabriela ghermandi, Hamid Barole Abdu, Yousef Wakkas e innumerevoli altri padroneggiano con grande maestria il genere e costituiscono una base robusta e sofisticata su cui poggiare creazioni future che vogliano confluire in uno sforzo comune di critica e resistenza all’esistente.
Come suggerisce il professor Fulvio Pezzarossa, anche lui presente ai Seminari, la propensione per il grottesco potrebbe anche essere vista nell’ottica del trickster, cioè quelle figure che richiamano Mercurio, che esistono in tutte le culture ( e sono state maggiormente esplorate per quanto riguarda le culture indigene dell’America del Nord). Queste figure fungono da messaggeri tra il mondo dei morti e dei vivi, il mondo degli umani e equelli degli dei, etc. Nelle sue duplici realtà lo scrittore/scrittrice migrante potrebbe fare da messaggero tra la sua cultura di origine e quella di approdo, arricchendo entrambe e conferendo alla scrittura un certo sapore carnevalesco.
Dopo aver parlato del grottesco logica vorrebbe che si parlasse del brutto, del deforme, del mostruoso, le cui profondità sono state scandagliate a livello iconografico e filosofico da Umberto Eco qualche anno fa nel libro “Storia della bruttezza”. Ma no, se nella prima storia esemplare si è parlato dell’arma del grottesco, delle sue radici italiane e delle caratteristiche che la rendono adatta a demistificare l’assetto presente del mondo, nella seconda storia si prende in esame il concetto di Bello in relazione alla terra in cui abitiamo, particolarmente a come si manifesta a livello del quotidiano.
Lasciando da parte l’attualità che esprime a livello estremamente ripugnante il grottesco, come per il primo racconto si dovrebbe partire dai mattoncini costitutivi, e partire dall’area geografica che vogliamo considerare come bersaglio della critica. Mi sono messa a pensare ai diversi nomi che vengono dati alla penisola, il più diffuso è il Belpaese (tanto da diventare anche il brand name di un formaggio), e poi incrociandolo con vari altri Paesi dell’immaginario letterario come Il Paese delle Meraviglie o il più nostrano il Paese della Cuccagna mi è venuto fuori Il Paese della Bella Figura, un concetto profondamente radicato nella cultura italiana e recondito motore di molte azioni delle italiche genti, cioè la “preoccupazione” e per alcuni l’ossessione di fare Bella Figura.
Ma è forse scavando nella genealogia della tensione tra i due concetti di BelPaese e Paese della Bella Figura che si potrebbe arrivare a una qualche illuminazione.
Discendente della famiglia Bel Paese è per esempio la Sindrome di Stendhal, un fenomeno che si registra esclusivamente in Italia, una specie di novella malattia DOC, che colpisce il turista sopraffatto da ardori estetici, dall’ammasso di opere artistiche generosamente distribuite su tutto il suolo italico. Naturalmente questo avviene molti decenni dopo il tentativo di Totò, che nel film Guardie e Ladri interpreta una sedicente guida turistica, di vendere al turista e benefattore italoamericano venuto in Italia per implementare il Piano Marshall dei falsi sesterzi romani ritrovati “per caso” tra le rovine del foro imperiale. Bofonchiando tra sé e sé in riferimento al patrimonio monumentale, Totò le definisce “ste macerie” mettendole così subito in relazione alle molte macerie presenti nell’Italia del dopoguerra, un grottesco al servizio della contiguità fisica tra macerie del mondo antico, denominate ruderi e scavi archeologici e le macerie, nome meno glorioso per i resti della distruzione della seconda guerra mondiale.
Una scena di questo genere sarebbe impensabile in questi ultimi anni in cui tutto il patrimonio artistico viene vissuto come grande fonte di orgoglio,e in cui gli autoctoni registrano lo scarto tra l’apprezzamento del turista per questo patrimonio e una presunta indifferenza, se non disprezzo, verso di esso da parte dei migranti. Questo sentimento poco ossequioso verso il passato dell’Italia ha nutrito le prime avvisaglie del cosiddetto “scontro di civiltà” circa dieci-dodici anni fa, generando le indignate invettive di Oriana Fallaci scagliate contro le torme di immigrati pisciatori su questo patrimonio, o per dirla in favella toscana che “orinano sui monumenti”.
Naturalmente come ha sottolineato, il giornalista Daniele Barbieri, il fatto che in città come Milano siano state organizzate delle giornate di scoperta del patrimonio artistico rivolte esclusivamente agli immigrati e che queste iniziative abbiano avuto grande successo e apprezzamento da parte di questi ultimi non ha trovato nessun riscontro nella stampa, quindi non esiste. Vive solo l’immagine del migrante che piscia sui monumenti, cosa di cui venivano accusati anche gli italiani che migravano all’estero.
Un componente della famiglia Bella Figura, forse un nipote, è la Bella Presenza che senza alcuna remora è spesso indicata come requisito esplicito nella descrizione di proposte di lavoro. La sorellastra della Bella Presenza, in verità figlia naturale del Bello, in questo momento abbagliata dai riflettori della cronaca, è la Ragazza Immagine, però “de eso no se habla”. Le origini di questa attualmente malvista prole non sono chiare. Tra i maligni vi è chi sostiene che sia figlia dell’Italian Design, ramo spurio del Bello, avente forse origini straniere come indicato dal nome, sviluppatosi in maniera eclatante negli anni 70 e concentrato a Milano e che riempie le italiche casse facendo la parte di leone nell’export di prodotti italiani.
Poi da qui il saggio esplora altre parentele del Bello tra cui l’Ordine, parola che purtroppo adesso invoca a viva voce la cugina Sicurezza, con risultati disastrosi per la libertà e in questo momento particolarmente per gli immigrati, che vengono additati come minaccia verso di essa.
Dopo questo breve excursus nella Bella Figura ci spostiamo a un personaggio che nonostante le radici italiche è in apparenza completamente avulso al concetto del Bello e della Bella Figura: il tenente Colombo, personaggio di detective italo-americano amatissimo dagli italiani insieme al più nostrano prete detective Don Matteo (interpretato dal venezianissimo Mario Girotti sotto le mentite spoglie dell’americano Terence Hill e che nell’ultima settimana è riuscito a battere Santoro come share di audience, ma un personaggio come lui merita tutto un discorso a parte che bisognerà fare in futuro).
Anche chi ha visto poche puntate non può dimenticare il Tenente Colombo: impermeabile spiegazzato, capigliatura disordinata e con taglio approssimativo, sguardo un po’ sbilenco specialmente quando l’espressione si acciglia nello sforzo di capire (in verità l’assimmetria è dovuta al fatto che ha un occhio di vetro). Arriva sulla scena del delitto in una macchina veccchia, sporca e scassatissima e questo esordio in genere fa più da biglietto di visita che il suo distintivo della Los Angeles Police Department.
È talmente amato dai telespettatori e non soltanto italiani, che è spuntato alcuni anni fa anche nel film di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino” assieme alle poesie di Rainer Maria Rilke e i due angeli Damiel e Cassiel. In quel film interpreta sé stesso (cioè l’attore Peter Falk ma in realtà è indivisibile dal personaggio) in una storia secondaria in cui Falk arriva a Berlino per girare un film sui nazisti e durante la storia si scopre che in passato era anch'egli un angelo, che decise di rinunciare alla sua immortalità per poter partecipare e vivere il mondo e non semplicemente osservarlo.
Ci si potrebbe chiedere perché proprio lui, ma il nesso con i discorsi precedenti c’è eccome. Chi ha seguito le avventure del Nostro sa che l’ordine di presentazione delle fasi di scoperta del colpevole del delitto vengono capovolte. Di solito il lettore o telespettatore non sa chi ha compiuto il delitto e lo scopre assieme al detective, o se molto perspicace prima ancora del detective, in base agli indizi che vengono man mano scoperti.
Nei telefilm di Columbo, il procedimento è inverso: cioè nella prima scena assistiamo all’assassino che compie il delitto, lo vediamo poi manipolare l’ambiente in modo che possa fuorviare le indagini, poi lui o lei stessa o altri chiamano la polizia ed entra il scena il detective Columbo. Il telefilm è ambientato a Los Angeles ed è essenziale notare che gli ambienti in cui avvengono i delitti sono sempre quelli delle classi alte: si tratta di direttori di orchestra, patroni delle arti, membri dell’alta finanza, ereditiere, gente che siede in 10 consigli di amministrazione, scrittori affermati e non affamati, insomma, il Bel Mondo di Los Angeles. Le case sono palazzi, vi si accede attraverso sontuosi cancelli e molte sono circondate da parchi enormi, nei quali non è difficile nascondere l’arma del delitto, Naturalmente per questi assassini niente di più spiazzante e nello stesso tempo rassicurante che l’arrivo di un detective dall’apparenza stracciona, impacciatissimo nei loro ambienti e che rivolge loro domande in apparenza stupide e che sembrerebbero indicare grande ammirazione per le loro competenze e la loro ricchezza. Bisogna anche tenere conto che questi telefilm sono stati girati alcuni anni prima del radicamento totale della cultura delle celebrities e prima che con i reality shows e YouTube chiunque lo voglia può con qualche sforzo e una bella dose di fortuna può trasformarsi in Star. Almeno così dice la leggenda.
Ritornando al Tenente Colombo: sotto le spoglie dell’incapace si nasconde una mente acuta (il famoso contadino, scarpe grosse ma cervello fino) che fa della sua stracciataggine una strategia, cioè gioca psicologicamente sul rendere sicuri i colpevoli perché nella noncuranza verso un essere a loro inferiore si tradiscano, gli permettano di guadagnare tempo, raccogliere indizi e testare le sue teorie. Una specie di tormentone è la sequenza in cui sta per andarsene, si ferma sulla porta e dice al colpevole “And one more thing!” Ancora una cosa”, che di solito è l’elemento fatale snocciolato lì come se fosse una cosa da niente.
Quindi sono in gioco la hubrys delle classi alte/colpevole e lo spirito di osservazione/astuzia del subalterno che alla fine provoca un ribaltamento nelle posizioni di potere/conoscenza. Vi è inoltre un elemento di disprezzo verso l’emigrante, solo che il pubblico italiano non identifica Colombo come appartenente alla categoria “emigrante di seconda generazione”, proprio come fatica a individuare in Tony Manero il figlio dell’emigrante italiano.
Riflettendoci la cosa che mi colpisce è l’analogia alla situazione tra “autoctoni” e “migranti” oggi in Italia, con l’autoctono nelle vesti del potente, del sapiente e il migrante nelle vesti dell’investigatore, perché, in realtà essendo straniero deve capire su che territorio sta operando. Il tutto viene poi complicato dall’inclinazione di gran parte degli italiani a creare ambientazioni che non poggiano sul reale, governate spesso dalla legge della Bella Figura, la tendenza a spettacolarizzare. Analogo naturalmente al tentativo del colpevole di inquinare le prove e manipolare la scena del delitto. Proprio come il tenente Colombo il migrante si trova allora a dover raccogliere indizi in un ambiente poco affidabile ed irto di inganni. Per motivi spesso legati a ignoranza e convinzioni della superiorità della propria estetica da parte dell’autoctono, il migrante viene fortemente sottovalutato, sminuito, trattato insomma come viene trattato Colombo dal criminale.
E qui sta uno spiraglio di creatività che si apre allo scrittore migrante: dal suo osservatorio speciale può raccogliere indizi e scrutare il territorio con uno sguardo che è negato all’autoctono, può dispiegare la propria conoscenza arricchita dall’aver fatto parte anche di altri mondi e di subire all’interno della sua coscienza mini scontri di placche tettoniche come diceva ieri Julio). La scrittura che ne deriverebbe potrebbe essere utile sia alla categoria migrante che a quella autoctona, anche se magari è difficile pensare di voler regalare qualcosa a chi ci maltratta.
L’osservatorio speciale garantito da questa estromissione contiene le potenti lenti del grottesco, uno strumento che consente non solo di scavare ma anche di mettere uno accanto all’altra elementi eterogenei, creando immagini che sono negate a chi è del posto.
E chissà che alla fine l’autoctono non impari ad apprezzare?
Di buon auspicio è la simpatia che il pubblico italiano nutre per Colombo, al punto che non riesce a distinguere tra personaggio ed attore e a viva forza vuole proclamare italiano anche chi lo interpreta. lnfatti spulciando in Internet ho trovato diversi post italiani di qualche anno fa che citano articoli in autorevoli quotidiani secondo cui il vero nome dell’attore Peter Falk è Nick Longhetti.
È quasi commovente la risposta degli agenti di Peter Falk alla lettera di Edoardo Tiboni, direttore del Media museum di Pescara pubblicata online il 25/09/2007 da Prima da noi it, il primo quotidiano online dell’Abruzzo:
«Gentile Peter Falk, nel porgerle i nostri sinceri auguri per i suoi ottant’anni, cogliamo l’occasione per chiederle di sciogliere un dubbio sulle sue origini: italiane o polacche da parte di padre e russe da parte di madre come hanno riportato i giornali italiani in questi giorni?A Pescara abbiamo da qualche anno aperto il Mediamuseum-Museo nazionale delle arti dello spettacolo da noi fondato e nel quale una sezione è dedicata a personaggi del cinema d’origine italiana.
Vorremmo pertanto avere un chiarimento da lei. Se poi le sue origini fossero realmente italiane saremo lieti di ospitare nella nostra struttura qualche suo cimelio.
Fiducioso in una sua comunicazione, le rinnoviamo i nostri auguri e molto cordialmente la salutiamo».
Risposta dell’ufficio di Peter Falk:
Contrariamente a quanto si dice, Falk non è italiano. “Colombo” è sì personaggio italiano ma Peter è di discendenza ungherese. Il cognome della madre è Hockhauser, quello del padre Falk. Entrambi sono ebrei».
E, aggiungiamo, Nick Longhetti è un memorabile personaggio interpretato da Falk nel film “Una moglie” di Nick Cassavetes.
Questo accadeva qualche anno fa, prima che Peter Falk fosse colpito da Alzheimer e fosse notato a vagare per la città come un vero barbone, non un fittizio tenente trasandato. È di giugno di quest’anno la notizia che il tribunale lo ha affidato alle cure della seconda moglie che da ragazza di cognome faceva Danese (questa sì forse di origine italiana) dopo una contesa legale tra la figlia adottiva e appunto la seconda moglie.
A me rimangono in mente le immagini di un Tenente Colombo vagante senza memoria, o con la coscienza dispiegata in un mondo parallelo e a noi inaccessibile, per le apocalittiche strade di Los Angeles, quasi emblematico della condizione di rimozione della memoria da parte di molti italiani rispetto all’emigrazione italiana all’estero. O forse emblematico di una più diffusa perdita di bussola che forse attraverso la scrittura, procedendo a tentoni e affidandoci alle capacità del grottesco potremmo tentare di recuperare.
E per concludere, parlando di bussole perdute vorrei leggervi una mia poesia che parla di un fatto reale, accaduto nel Mediterraneo qualche settimana prima che venisse approvato il pacchetto sicurezza.
Chi sommersa chi salvato
In the beginning there was a river. The river became a road and
the road branched out to the whole world. And because the road
was a river it was always hungry.
Ben Okri (The Famished Road)
Quando nella foga della fuga
Il cavo di mano ti sfugge
E tra i flutti scivola
Il corpo che agile, un tempo,
Sulla terra vagava
Ora annaspa come di creatura
Per altri moti evoluta
E i compagni invano
Si tuffano, l’acqua la mano
Sottrae
E il corpo
Affonda
Esat Ekos
Eco di un tempo
Non lontano
Chi sommersa
Chi salvato
Chi sommersa chi salvato
Chisommersachisalvato
Mentre nella candida Europa
Scaricabarilano
E il pio capitano
Asik Tuygun
“Mamma li Turchi”
Che raccolgono africani
Vaganti per il Mediterraneo
A poppa in un sacco alloggia
Che il vento talvolta sconquassa
La tua conchiglia
Perché i gabbiani non l’abbiano
A beccheggiare
E le sia data degna
Terrena sepoltura
Perché non s’inabissi
La pietra dello scandalo
Perché un fratello disperato
Non abbia a spiegare
Che la sorella
Il mare se l’è rapita
Almeno che la terra l’accolga
Secondo il nostro rito
Lasciate che l’accompagni
Nel suo ultimo viaggio
Che il salvato renda onore
A chi la strada ha divorato
Grazie! (01:04:24)
Julio Monteiro Martins – La prima cosa che vorrei dire è sulla bellezza di questa metafora dell’attore Peter Falk con l’Alzheimer, smarrito nelle strade americane, e l’eredità degli italo-americani smarrita anch’essa. Mi è sembrata poeticamente molto bella, quell’immagine. E molto azzeccata. Pina Piccolo ha una visione acuta sui fenomeni della cultura di massa contemporanea. Vorrei fare insieme a lei una riflessione sui cosiddetti “reality show”, che lei ha menzionato. Perché a me sembrano un fenomeno di un significato più profondo e con conseguenze più importanti di quanto non sembri di primo acchito. Prima, perché essendo un fenomeno inventato negli Stati uniti è un’eredità di quella famosa affermazione di Andy Warhow, che in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti. È una concezione nata negli Stati uniti ma poi impiantata con sucesso in diversi altri paesi, il Big Brother, Il grande fratello, e che poi in questi paesi ha proliferato con formule diverse, qui per esempio c’è Il grande fratello, La fattoria, L’isola dei famosi, e così via. Ma dietro questo genere di spettacolo, ci sono dei messaggi socialmente e culturalmente rilevanti. Una è il messaggio che riguarda la celebrazione della banalità e dei valori dell’uomo comune, cioè, come ha detto lei stessa, non esiste più la differenza tra l’uomo comune e quello individuo ritenuto speciale, la star, con caratteristiche uniche, inimitabili. Questo vuol dire che qualsiasi persona, senza tradire le sue proprie caratteristiche, può diventare una star. È la celebrazione dell’uomo senza qualità. L’altra cosa è che i reality show propongono una scorciatoia verso il successo, verso la fama, sena che si debba fare nessun’altra cosa oltre a essere se stesso, però deve mostrarsi, lasciarsi invadere, lasciare che questa lente insistente sia posata su di lui. E poi, una terza cosa è questo sdoganamento definitivo, spettacolare, del voyeurismo. Il voyeurismo, che in passato era una cosa anche delittuosa, nelle miglior delle ipotesi una sorta di trasgressione o di perversione, una cosa che uno fa senza confessarlo, cioè guardare cosa accade nelle camere da letto degli altri da una finestra di un palazzo, in voyeurismo è stato diciamo industrializzato, è diventato una pratica consensuale, ammessa, e addirittura virtuosa. Ecco, la mia domanda è: che mondo è questo che i reality show preannunciano?
Pina Piccolo – Parlo già del presente, del fatto che secondo me c’è proprio un vuoto, che la gente cerca di riempire. Finora è stato riempito dall’immagine, da quello che è la star, e oggi c’è questa ispirazione, “anch’io ho il diritto”, in un certo senso c’è un’espressione democratica, “perché loro si e io no?”, no? Che non è una cosa cattiva perché in un certo senso dà l’idea che chiunque ha diritto ad essere riconosciuto, e questo va bene nel senso che raggira le gerarchie. Però, c’è anche il fatto che dietro l’immagine può non esserci niente. Però “io voglio essere immagine, non importa cosa ci sia dietro”. Non è una coincidenza che sia successo dopo la caduta del Muro di Berlino e queste cose. Quando c’era ancora un senso di ideologie, di certi valori, di qualcosa che poteva avere una sostanza, queste ancora non erano apparse. Però una volta che cade quello, appaiano loro. Secondo me sarebbe interessante vedere se c’è un nesso. Sono sicura che ce ne avete pensati tutti.
Fulvio Pezzarossa – A me interessava meno questo aspetto della cultura di massa, e forse dovrebbe essere ripensata a partire dalla tempistica. A dieci giorni della morte di un eroe nazionale, come Mike Bongiorno, quel saggio “La fenomenologia di Mike Bongiorno” di Umberto Eco, è precedente, è dell’89, quindi questi fenomeni hanno una lunga storia. A me interessava soprattutto il discorso sul grottesco anche se avrei bisogno di leggere il testo, e non così distrattamente, e dver seguirlo soltanto per campionature. Vorrei capire se il grottesco è uno strumento o un’arma in mano a chi… poi mi è venuto in mente che cosa c’era dietro la mia risposta “minaccioso”, se c’è un personaggio che è tecnicamente grottesco è “Papi”. Perché spiega perfettamente Bakhtin che il grottesco nasce quando uno forza alcune caratteristiche della propria figura, allora chi si impianta i capelli e rende da una superficie naturale completamente liscia, chi usa Tarantini per espandere altre parti del corpo, poi con scarsi risultati, come si legge nelle croniche, è grottesco dal punto di vista tecnico, così come è grottesco perché continuamente mette in discussione giorno per giorno, più volte, le leggi, qualsiasi tipo di legge, e qualsiasi tipo di convinzione, di esperienza, di abitudine, per cui, come dicevo ieri, siamo alla dittatura sudamericana dove quando si pensa di aver raggiunto il punto limite in realtà stanno già pensando a quali altri limiti infrangere, e sotto questo punto di vista io credo che manca un tassello fondamentale nel tuo ragionamento, che è il ricupero della figura del trickster, quelli che gli antropologi e i folcloristi chiamano trickster, a partire da Jung, Chiarelli, eccetera. Tanto è che la figura di Mercurio viola i confini, viola le leggi, può essere l’uomo d’ordine ma può essere anche il delinquente minaccioso, colui che è nel regno dei morti, e può impunemente passare dal buio alla luce, eccetera, eccetera, una figura senza dubbio affascinante, teorizzata appunto da questi due grandi studiosi, Jung, grande psicanalista, Chiarelli, grande folclorista, e poi ripresa e messa a fuoco in un volume tradotto in Italia, mostruoso dal punto di vista della consistenza, che a naso direi l’autore si chiama Hayden, amricano, in cui si lavora moltissimo sulla figura del migrante, o comunque dello schiavo, del subalterno, come figura campione di questo saltare i confini, di coinvolgere la società e metterla in discussione, facendo riferimento al primo schiavo che è stato autore di autobiografia americano, che credo si chiamasse Frederic Douglas. Secondo me in quella dimensione troverai tanti spunti di conforto a questa logica del grottesco.
Pina Piccolo – Mi ha colpito questa direzione, questa storia di calcare le cose, come dicevi tu riguardo a Papi. Ma anche questa cosa di… questa fluidità, una forma che si trasforma in un’altra. Che deriva dalle pitture che avevano scoperto, ed è questo che avevo intravisto in queste diverse situazioni che avevo citato e che mi sembra può essere un terreno fertile per la letteratura in generale. Perché aiutano a non accettare il mondo così com’è, granitico. Riescono a farti vedere le contraddizioni, i binomi che di solito non vedi.
Julio Monteiro Martins – Vorrei aggiungere un commento all’idea del triste, menzionato dal professore. Nelle religioni afrobrasiliane, soprattutto nel Candomblé, in Bahia ma anche a Rio de Janeiro, c’è la figura di Exú, e il proprio Umberto Eco che hai citato ha scritto una volta un bel saggio su questa figura mitologica. Durante secoli, quando i preti cattolici, i gesuiti, imponevano agli schiavi africrani una fede che alla fine sfociò nel sincretismo religioso, tra i santi cattolici e i dei africani, yoruba, poi afrobrasiliani, Exú era stato identificato con il diavolo, e così tutti noi brasiliani di formazione cattolica – ed io ho studiato da bambino in una scuola cattolica – abbiamo imparato così, che Exú era il diavolo. Poi, da adulto, e conoscendo più profondamente i riti afrobrasiliani, ho capito che Exú non era il diavolo, Exú era il Messaggero, Exú è quello che va dalla luce alle tenebre e ritorna.
Pina Piccolo – Mercurio…
Julio Monteiro Martins - Sì, esatto. Mercurio. Questa è la vera figura di Exú. I gesuiti non sapevano come inquadrarlo perché non c’è niente di simile nella mitologia cattolica. Exú è un messaggiero che non fa un giodizio morale o etico sulle richieste che gli sono state fatte, lui le porta ai dei e basta. Quindi, se uno gli chiede, per ipotesi, che un figlio sia guarito da una malattia misteriosa, se sarà questa la richiesta, Exú la porta, ma uno chiede, diciamo, che il marito di una donna che tu odi diventi impotente sessualmente solo con lei, con nessun’altra, se sarà questa la tua richiesta, lui la porterà allo stesso modo. Ed esattamente perché i preti sapevano che Exú portava anche richieste che erano considerate da loro antietiche, lo hanno identificato con il demonio. Hai menzionato Jung. Ebbene, questa figura è presente nell’Africa, nella cultura Yoruba, una cultura antichissima, e corrisponde a un archetipo profondo dell’umanità.
Daniele Barbieri – Ho trovato molto bello il lavoro che ha fatto Pina, veramente bello. Volevo solo aggiungere un’informazione. Tra le tante cose che circolano, perché siamo privi di informazioni, questa storia che gli stranieri non s’interessano per la nostra cultura è destituita di fondamento. Ce ne sono tanti che s’interessano. E la controprova è che quando associazioni italiane, ma soprattutto di stranieri, o miste, hanno proposto questi tipo di scambio c’è stato un successo di massa. Pur tra persone che sono qui per lavorare in condizioni più o meno difficili. E se non lo sapete, ve lo racconto in tre parole cos’è successo a Milano proprio con questa associazione che si chiama “Todo Cambia”, perché nata soprattutto da lavoratori migranti latinoamericani, “Todo Cambia” è una famosissima, stupenda canzone che forse avete sentito cantata da Mercedes Sosa, e proprio questo piccolo gruppo di immigrati, sia africani che latinoamericani, una delle iniziative che hanno fatto è stata quella di proporre materialmente, casualmente agli immigrati che si trovavano la domenica a Piazza del Duomo, questo tipo di scambio. “Noi vi facciamo fare un giro delle bellezze di Milano, delle bellezze artistiche naturalmente perché altre bellezze ce ne sono poche, politiche per esempio quasi nessuna, e poi voi in cambio, se volete, ci raccontate qualche cose dei vostri paesi. È stato un successo straordinario. Ci sono stati un paio di cose simili, ma questa di Milano è stata una cosa incredibile. Le persone che l’hanno vissuta la ricordano come un momento importante e fondattivo. Naturalmente tutto questo non esiste se non viene raccontato. E naturalmente i nostri grandi giornalisti si guardano bene di raccontare queste cose.
Julio Monteiro Martins – Vorrei fare una domanda a Pina collegata a questa sua sensibilità italo-americana. Penso che dopo l’elezione di Obama c’è stata tra tanti italiani e europei la speranza che ci fosse una sorta di “onda lunga” delle posizioni liberali del nuovo governo, del cambio, o apparente cambio di modello, che prima o poi avrebbe raggiunta l’Italia, raggiunta l’Europa e prodotto degli effetti positivi, magari anche revertendo un certo cresce conservatorismo da queste parti. Tu come vedi questa possibilità?
Pina Piccolo – Io sono sempre stata abbastanza scettica sulla possibilità do Obama di operare una cosa del genere. Cioè, io sono stata ottimista nel senso che ho visto negli Stati uniti un grande desiderio di cambiamento, perché la gente non ne poteva più di Bush, insomma, c’è stato proprio questa specie di ribellione,”non se ne può più di quest’uomo” dicevano, “bisogna fare qualcosa”. E una certa energia, un certo ardore e un entusiasmo da parte di tanta gente, specialmente giovane, ma anche altri, che hanno utilizzati tutti i mezzi che magari non erano stati utilizzati nel passato, per esempio anche il computer, con tweeter e i telefonini, eccetera, per mobilizzarsi, per scalzare Bush, però secondo me quello che è mancato è che era un po’ una debolezza, che spesso la gente vedeva i problemi concentrati sulla figura di Bush, cioè non che fossero dei problemi di istituzione, capitale, della politica, per esempio anche il modo in cui uno viene eletto presidente e i soldi che vengono passati per questa storia qui. Nessuna di queste cose è stata messa in questione. Infatti, i soldi che ha speso Obama per farsi eleggere sono stati i più alti di tutti i tempi, non erano soltanto i 20, 30, 40 dollari che la gente comune mandava, anche le corporations gli avevano dato dei soldi, non è che lui scardinasse queste fondamenta, no? Per non parlare dello assetto economico degli Stati uniti, non è che lui facesse una grande critica alle corporations insomma, magari le cose più esagerate poteva anche criticarle, però una critica di fondo secondo me non c’è stata. Quindi io non mi sorprendo, per dire la verità – e questo forse non ho detto a molte persone – la sera in cui lui è stato eletto, sono andata in YouTube e cominciato a guardare tutti i festeggiamenti che facevano su di lui nei diversi campus e ho visto in diversi campus studenti che si avvolgevano nella bandiera americana, io ho questa cosa contro la bandiera, quando vedo la bandiera americana vedo una specie di svastica, lo so che forse sono esagerata ma io la vedo come svastica, vedevo proprio centinaia di migliaia di ragazzi che erano scesi in strada a festeggiare avvolti in queste bandiere e cantavano “The Star Spangled Banner”, cioè l’inno nazionale americano, che è una cosa abbastanza revanscista, magari anche con ritmi, non so, da hip-hop, con ritmo moderni, però avvolti in questa cosa. Io, a dir la verità, mi sono spaventata, perché ho detto: adesso è arrivato il momento in cui riescano a mobilitare anche quelli che non erano mobilitati prima per le loro guerre, e lotteranno con grande energia. Spero che sia una cosa che non si avveri, che sia io una specie di uccello del malaugurio.
Grazie. |