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Programma della quarta sezione del Seminario

Intervento dello scrittore italiano Enrico Palandri – 10,30

Discussione finale e congedo - 12,30




 

4° giorno - Giovedì 10 luglio 2008 ore 10,30 Sala Maria Luisa


Julio Monteiro Martins: Iniziamo la nostra quarta e ultima sessione con lo scrittore Enrico Palandri, la cui produzione accompagno già da molto tempo. Palandri è uno scrittore che ha anche un’importanza storica nel percorso della letteratura italiana moderna e contemporanea, infatti il suo primo romanzo Boccalone, pubblicato nel ’79, è stato un romanzo in un certo senso pioniere, insieme a quello di Celati, che ha aperto un nuovo orizzonte, presentando i monologhi interiori dei giovani post-1968, un inedito universo letterario, umano, di personaggi di una generazione che fino ad allora non era considerata all’altezza della realtà letteraria anche se era rilevante nella vita italiana, e la cui voce, molto presente nel decennio successivo, nelle opere di Enrico Brizzi, di Tondelli, dei cosidetti “canibali”, tra gli altri, fino ad allora non si era mai espressa. A partire da quel romanzo la letteratura italiana si libera da una serie di legami formali, antiquati, che la ingessavano, e può avere uno sguardo nuovo sulla contemporaneità, e così, dagli anni ’80 in poi, anche per merito del lavoro di Palandri, si susseguono una serie di romanzi giovanili su questo stile. Successivamente Palandri ha intrapreso altre strade, innanzitutto si è trasferito in un altro paese, l’Inghilterra e per ben 23 anni ha vissuto là, è una vita all’interno della vita, in cui uno volente o non volente costruisce un personaggio nuovo, alternativo all’interno di una cultura diversa. In questi anni ha scritto un libro molto bello intitolato Pier su Tondelli dal quale ho selezionato questa frase che mi ha colpito molto: “La letteratura offre forse l’immagine più fasulla della storia, proprio perché è sia sognatrice che vittima della vanità di spiegare”. È molto interessante quando uno scrittore sposta la sua attenzione e si concentra sui percorsi intellettuali e umani di un altro scrittore, anche se so che Tondelli era tuo amico personale, questa operazione illumina tanto l’opera di quello che è oggetto del discorso quanto l’opera di chi la scrive. Da Palandri vorrei anche avere una sua argomentazione su ciò che è l’esilio per uno scrittore. Ora gli passo la parola.



Enrico Palandri
: Inizierei il discorso partendo proprio da questa ultima considerazione, il problema dell’esilio.È una cosa su cui ho riflettuto ultimamente, soprattutto in una conferenza un paio di mesi fa a Montreal ho tentato di mettere a fuoco la questione, come tale assunto si sia determinato nella letteratura e soprattutto nella letteratura italiana. Dico subito che in realtà tutta la letteratura italiana, da Dante ai giorni nostri, è una letteratura fortemente marcata dal tema dell’esilio, in particolare dall’esilio politico, anzi si può dire che molti scrittori, tra cui proprio Dante, ma anche Macchiavelli, Ugo Foscolo e Leopardi per le sue simpatie ai movimenti risorgimentali, saranno costretti a esiliarsi. Il problema fondamentale dell’esilio è un problema politico, di diffidenza e cioè un problema di separazione tra un io pubblico che cerca di avere a che fare con gli altri e la sconfitta di questo io pubblico che deve creare uno spazio alternativo che poi nell’esilio geografico diventa anche alternativo linguisticamente, nel mio caso io vivo in una lingua e scrivo in un’altra. Che cosa implica questa separazione tra una vita pubblica e una privata? Per chiarire la questione parto da una lettera di Platone ai suoi discepoli, nota come La settima lettera, e ha a che fare proprio con questo problema. Come sapete Platone elabora un sistema politico nella Repubblica che noi tutti studiamo a scuola, con un governo di filosofi, e una certa strutturazione della classi sociali. Uno dei suoi allievi diventa amico del tiranno di Siracusa e invita Platone a provare questa utopia a Siracusa proprio grazie all’appoggio del tiranno. Platone va a Siracusa e fa il tentativo di realizzare il progetto ed è un fallimento totale e proprio in questa occasione Platone scrive questa settima lettera per rendere conto ai suoi discepoli della separazione tra quello che lui aveva progettato e quello che è riuscito a fare. È una lettera importante in cui Platone porta così avanti questa separazione arrivando addirittura a dire che non c’è nulla di quello che ha scritto che rappresenti davvero ciò che lui pensa, perché c’è una profonda separazione non solo tra quello che è pubblico, pratico, politico, ma perfino tra quello che riusciamo a esprimere e quello che vogliamo realmente; scrive, la filosofia in realtà non è neppure una cosa che si può insegnare, è semplicemente una fiamma che si nutre di se stessa e che noi riconosciamo negli altri, ma a cui gli altri si avvicinano per una loro attitudine. Dunque nell’esilio si contrappone in maniera drammatica l’agire con gli altri, l’essere attivi e presenti e il fare qualcosa in mezzo agli altri e il concepire, il pensare, questo affacciarsi su degli abissi di senso, di realtà che abbiamo tutti quanti in diversi momenti e che sono drammaticamente, appunto, separati dall’agire con gli altri. Vi faccio un altro esempio a cui sto molto pensando in questi giorni, tra il fatto che questa notte ho dormito in Via degli Angeli e che questa mattina sono passato davanti alla chiesa di S.Michele, con in alto quel suo angelo meraviglioso (a cui ho dedicato anche un racconto intitolato Le condizioni di Maria contenuto nella raccolta Allegro e Fantastico) ed è quello dell’annunciazione. Come sapete l’angelo arriva da Maria e le dice per prima cosa “Non avere paura”. Non avere paura di che cosa? È la paura di qualcosa che nasce dal nulla, è una sensazione a cui noi siamo sottoposti in continuazione, di fronte alla morte e all’amore, quando ci innamoriamo per esempio. Un annuncio di questo tipo l’avverte anche Giulietta sul balcone quando confida alla notte il suo amore per Romeo, ma all’improvviso capisce che il suo segreto non è più protetto quando sente la voce di Romeo e dice “Chi sei tu, che protetto dall’oscurità della notte inciampi nel mio segreto?” È questo che dice l’angelo a Maria, che c’è un qualcosa, un nulla, che a un certo punto diventa reale e che ci fa sentire molto chiaramente il nostro limite di esseri che agiscono tra gli altri nel mondo, quindi anche esseri politici, e un altro tipo di essere che non ha voce e che è essenziale, appunto una fiamma come dice Platone che si nutre di se stessa, qualcosa che esiste e che in realtà è la vera generatrice della realtà. Ora farei una breve parentesi su cosa sia l’esilio per lo scrittore, come dicevo l’esilio nella letteratura italiana ha una storia lunghissima. Leopardi nello Zibaldone scrive che in realtà gli antichi non conoscevano lo spazio e probabilmente aveva ragione. È vero che l’esilio è una cosa che esiste da sempre, ma l’esilio così come l’ho vissuto io e come lo si avverte negli ultimi duecento anni è un esilio molto particolare, cioè l’esilio dallo Stato-Nazione. Per questo Leopardi aveva ragione, perché lo Stato-Nazione si basa su tre concetti, l’identità linguistica, geografica e culturale e sono un’invenzione dell’inizio dell’ ‘800. Sono tre concetti che nascono in momenti molto diversi, il primo nasce a Bologna dove troviamo per la prima volta l’uso della parola Nazione, le nationes erano, all’Università di Bologna, i gruppi che identificavano i vernacoli. Come sapete l’Università di Bologna, dopo quella di Salerno è la più antica d’Europa per l’insegnamento del diritto e i rampolli della famiglie nobili e più ricche per esempio dell’Irlanda che era una terra senza diritto o con diritti molto tribali, venivano mandati proprio in questa città a studiare. L’imperatore per incoraggiare questo proliferare degli studi garantiva l’immunità di questi ragazzi dalle leggi locali tranne che per l’omicidio,non rispondendo dei loro crimini al Comune di Bologna, ma all’Imperatore. Ci sono quindi un sacco di giovani ragazzi, tedeschi, irlandesi, ungheresi …che parlano la loro lingua, ma studiano in latino. Le nationes originariamente erano proprio i vernacoli di questi gruppi di studenti. L’identità geografica non esiste ancora, si diffonderà nel XV secolo quando con le grandi navigazioni cominciano a circolare le prime carte geografiche, che sono molto belle e siccome servivano soprattutto per la navigazione avevano solo le città della costa e niente dentro, ma danno per la prima volta l’idea di un’identità geografica. Però è solo con il Romanticismo che si ha questo grande fiorire di contenuti culturali che vengono attribuiti all’identità geografica e linguistica. Il Romanticismo porterà questa grande novità che è il porre al centro di un senso di sviluppo culturale il popolo e l’individuo. Si cerca di costruire un’identità culturale centrata sul tentativo di tenere insieme identità territoriale e linguistica attraverso dei contenuti culturali appunto. Ed è questo a cui si riferiva Leopardi quando diceva che gli antichi non conoscevano lo spazio. Faccio una piccola digressione personale. Alla fine degli anni ’70 ho scritto il libro che Julio citava prima, Boccalone, che nasce alla fine di una stagione drammatica e purtroppo dimenticata della storia italiana che sono stati gli anni ’70 dove l’Italia era un paese di confine, con una democrazia, così si diceva, bloccata a causa del fattore K. Siccome il grande partito di opposizione era il partito comunista filosovietico e l’Italia era nella N.A.T.O era inimmaginabile un cambio di governo. In ogni democrazia l’alternanza al potere è mossa anche dalla scontentezza verso il governo che muove i cosidetti floating voters, cioè i voti del centro, ci sono alcuni che votano sempre la stessa cosa per identità politica, ma la maggior parte degli elettori che guardano la televisione e sono più influenzabili, vanno un po’ di qui e un po’ di là a seconda della stanchezza, e la stanchezza, come sappiamo, è ciclica. L’alternanza funziona su questo ed ha le sue virtù perché permette il riciclo di certi apparati. In Italia ciò non era possibile e ha fatto sì che la Democrazia Cristiana diventasse un mostro di clientele, questo ha portato la società italiana ad un certo punto a esplodere. La generazione di mio padre sapeva benissimo cosa stava succedendo perché aveva vissuto in prima persona la disfatta della guerra e sapeva che questo sistema nasceva da quell’esperienza storica attraverso accordi con gli occupanti e all’ombra dell’accordo tra Roosevelt, Churchill e Stalin per dividere l’Europa in due. Non c’era mai stata in quella generazione una idea di libertà e la cosa è ancora più complicata all’interno del Partito Comunista, perché il PC era consapevole di essere leale a un sistema che stava fallendo e lo era consapevole non solo negli anni ’80 con Berlinguer, ma anche con Togliatti. Qui c’è una cosa interessante su cui non si farà mai abbastanza luce, come sapete Gramsci muore nelle prigioni fasciste, sapete che c’è stato una proposta di baratto di prigionieri tra l’Unione Sovietica e i fascisti in cui si poteva salvare Gramsci. La vera domanda da chiarire è: questo baratto fallisce perché Togliatti vuole salvare la vita a Gramsci e sa che portare uno come lui nell’Unione Sovietica degli anni ’30 significava farlo ammazzare o no? E questa è la doppia anima del PC per tutto il dopo guerra, loro sanno che sono antagonisti al capitalismo, sono leali a certi valori del marxismo, ma sono anche terrorizzati di vincere, quindi accettano molto volentieri una posizione subalterna rispetto alla Democrazia Cristiana perché questo consente all’Italia e alla classe operaia di crescere sapendo benissimo che il sistema sovietico invece potrebbe strangolare l’economia del paese. E questi giovani, compreso me stesso, che non hanno vissuto la guerra e non sanno come queste cose si siano create assumono un atteggiamento molto radicale contro lo Stato e hanno una diffusione enorme proprio perché in realtà è tutta la società italiana che avrebbe bisogno di un’alternanza, come la società inglese, come la società francese, dove la grande astuzia di Mitterand sarà quella di svuotare il PC a favore del Partito Socialista e quindi di creare un partito alternativo alla destra che possa essere eletto, questo in Italia non riesce. Dunque cresce in Italia questa forte radicalità che si scontrerà con lo Stato, sia nelle piazze che attraverso organizzazioni terroristiche, in particolare le Brigate Rosse, che nascono dalla memoria della resistenza. Il PC si troverà in questa scomoda posizione di dover fare da una parte antagonismo al capitalismo e dall’altra proteggere l’Italia da una sinistra radicale. Ecco io sono cresciuto in questa atmosfera, che poi era quella tipica di un paese di confine, come quella che poteva esserci in Germania, un misto di Dylan e I Beatles nella cultura, perché eravamo molto americanizzati però di slogan marxisti-leninisti. Se volete approfondire il libro più bello su questo argomento l’ha scritto il figlio di Feltrinelli, Carlo Feltrinelli e s’intitola Senior Service, un libro che racconta la vita del padre Giangiacomo Feltrinelli, un editore con “la testa fra le nuvole e i piedi per terra”. Parte raccontando dell’infanzia, il legame di famiglia, il dopoguerra, la militanza nel PCI, lo spirito del “fare le cose”, la nascita della casa editrice fino alla lotta armata, le minacce, la fine. Una biografia che ripercorre un periodo importante della nostra storia in modo chiaro e non ideologico. Io sento la fine degli anni ’70 come molto negativa politicamente, perché da lì vedo l’Italia precipitare in un qualunquismo e in dei brutti vizi da cui quel decennio si era in parte emancipato, pensate per esempio alle veline. Già ai miei tempi c’erano dei programmi che presentavano la donna in un certo modo, penso alle gemelle Kessler, ma anche a certi film italiani dell’epoca dove la donna è bella e stupida, oppure se è intelligente porta gli occhiali…il femminismo ci aveva un po’ allontanato da questi stereotipi, ma vedo che negli anni ’80 c’è un a ripresa e rivisitazione di certi luoghi comuni, c’è una involuzione, un ritorno a una concezione più primitiva. E adesso mi sembra che siamo messi davvero malissimo.


Julio Monteiro Martins: Io vorrei approfittare di questo tuo accenno per chiederti una personale considerazione sull’inizio di questo XXI secolo. Come vedi il momento storico attuale?


Enrico Palandri: In Italia mi sembra che non si riescano a mettere in moto delle prospettive di crescita, questo per diverse ragioni. Faccio il confronto con l’Inghilterra dove ho vissuto per diversi anni, in Italia il problema è che la destra non riesce a fare la destra, io sono cresciuto nella sinistra e credo che abbia delle responsabilità enormi, soprattutto ha mancato della capacità di guardare alla storia in maniera critica, ma la destra ha delle responsabilità più grandi. In Inghilterra la destra è riuscita, la Thatcher in particolare, a smantellare certi meccanismi che attraverso la sindacalizzazione degli anni ’60 si erano un po’ incancreniti e a rimettere in moto la macchina dell’economia. Io vedo anche all’Università a Venezia dove insegno che i miei studenti sono spaventatissimi dalle prospettive che gli si delineano all’orizzonte, sanno che questi saranno gli ultimi loro anni di protezione e poi saranno catapultati nella giungla e nelle incognite più totali, e questo non è giusto ed è una cosa per esempio che non avvertono i miei studenti in Inghilterra.


Julio Monteiro Martins: Alcuni dei miei allievi di Pisa si preparano già a migrare, vanno in Erasmus in Spagna per non tornare più.


Enrico Palandri: Mentre fino agli anni ’60 abbiamo avuto una massiccia migrazione operaia, questa è una migrazione diversa, intellettuale che è uno spreco terribile perché far studiare le persone costa molto allo Stato, noi facciamo laureare un sacco di studenti, medici, ingegneri..e poi non possiamo impiegarli e loro devono andarsene!


Livia Bazu: Io osservo però anche una cosa diversa, che ci sono molti medici africani che vengono in Italia per studiare e poi rimangono.


Julio Monteiro Martins: Quello che ieri durante la sessione della mattina è venuto fuori, e che è collegato con questa idea, è che ai miei tempi, io sono del ’55, quindi un ragazzo degli anni ’70, la realtà che si viveva era solo una delle possibilità della realtà, che si riusciva a concepire un’alternativa alla realtà presente. Quello che vedo oggi nei giovani è l’impossibilità di immaginare qualcosa di diverso dalla realtà, come se il sistema dicesse, il mondo va così, è così, non c’è niente da fare. E questo genera una spinta verso il conformismo.


Enrico Palandri: Sì, hai ragione, ne parlavamo stamattina con Jarmila. Io sono vissuto 23 anni in Inghilterra, ho trovato subito lavoro e poi le cose sono andate sempre meglio, senza dover fare il portaborse a nessuno, è stato un periodo molto felice della mia vita, ma adesso che ho portato da cinque anni la mia famiglia qui in Italia, riesco a prendere le dovute distanze dall’Inghilterra e capisco che quello che dici è verissimo. A Venezia ho un sacco di amici slavi, russi e polacchi che sono molto diversi dalle persone inglesi che conosco. L’Inghilterra, lo dico nel bene, è fondata sul rispetto dell’individuo, cioè il fatto che tu lavori, che tu guadagni il tuo denaro, ti da diritto quando arrivi la sera a casa e chiudi le porte di fare assolutamente quello che ti pare. E c’è un grande rispetto anche nel fare domande o nel modo di avvicinarsi, se fossimo inglesi tra me e Julio probabilmente ci sarebbero trenta centimetri di distanza in più!Se batto amichevolmente la mano sulla spalla di Julio diventerebbe tutto molto più compromettente, un inglese si chiederebbe se sia attratto eroticamente da lui! E poi non si fanno mai commenti personali, c’è quella bellissima battuta di Borges che descrive l’amicizia tra due inglesi che dice “era una di quelle tipiche amicizie inglesi che cominciava evitando i commenti personali e finiva con l’evitare la conversazione!”. Gli slavi invece si muovono ancora per grandi tribù, hanno un senso della famiglia allargata in cui tendi ad includere anche quelle persone che non sono parenti, un po’ come era in Italia prima che fossimo travolti dal benessere. E mi chiedo cosa succederà all’Est, quanto ci vorrà a Mosca, che ho trovato molto simile a Milano, perché comprare un paio di scarpe pazzescamente costose sia un segno che tu cerchi per separarti da tua sorella. Questo è il vero dramma, come è successo già in Italia, quando tu fai vedere attraverso i vestiti che ti metti che non sei più di quel gruppo sociale lì, ma di quell’altro.


Julio Monteiro Martins: In questo nuovo mondo, con le caratteristiche di cambiamento a cui tu hai accennato, quale potrebbe essere il ruolo dello scrittore? C’è ancora un ruolo per lo scrittore?



Enrico Palandri
: Qui torniamo a Platone e all’angelo. La letteratura di cui mi occupo, che spero di scrivere e che leggo è una letteratura della diffidenza. Ed è quella che ho sempre fatto, indipendentemente dall’essere in Italia o in Inghilterra. Il punto essenziale di cui parla Platone è che lo scrittore è qualcuno che ha a che fare con qualcosa che non c’è e che poi viene a essere. Capisci? Ti faccio un esempio più concreto, la morte di qualcuno. Muore qualcuno, questa persona scompare e non c’è più, quando scrivi invece quella vita che non c’è più comincia a parlare. In Pier per esempio,questo libro che ho scritto, riproduco un dialogo con un amico scomparso, che non c’è più, ma attraverso questo sforzo di immaginazione lo richiamo all’esistenza. Questo è lo scrittore e in questo senso è sempre un diffidente dalla realtà ed è sempre in qualche modo in esilio.


Julio Monteiro Martins: Tu hai parlato del tornare in Italia, mi ricordo per esempio una frase di un generale napoleonico, se non sbaglio, che diceva: nessuno è mai tornato da un campo di battaglia, non esiste ritorno da un campo di battaglia, forse, dico io, da una esperienza come la tua non esiste ritorno possibile, quando torni sei un altro in modo tale che non è più un ritorno.


Enrico Palandri: Esatto, è quello che raccontavo a Jarmila ieri sera. In Inghilterra, per esempio, nei ventitre anni che ho vissuto là, ho messo la mia malinconia che era molto imbarazzante quando ero ragazzo e anche molto impopolare con i miei amici, mi ricordo che quando uscivo da scuola mi chiedevano, “come stai Enrico?” e c’era sempre qualcuno di dietro che diceva “sta malissimo!”. E in effetti l’adolescenza per me è stato un periodo terribile, per un senso di disadattamento costante che avevo. Però andando in Inghilterra mi sono sentito di poter diventare molto normale, ho messo tutta la mia malinconia in una scatoletta, che era la nostalgia per l’Italia, e dicevo a tutti, “in Italia la vita è meravigliosa, voi non ne avete un’idea!”. Ci ho messo molti anni, ma sono tornato, perché ho rotto la scatoletta e di nuovo la mia malinconia ha dilagato dappertutto.


Julio Monteiro Martins: In questo momento stai lavorando ha un progetto letterario specifico?


Enrico Palandri: C’è un libro che in realtà ho finito ed è molto importante per me perché chiude un ciclo che è iniziato nell’86 quando me ne sono andato dall’Italia. Un periodo che anche esistenzialmente è tenuto insieme da questo problema dell’essere andato via dal mio paese, da un lato di aver cercato di capire quali erano le radici europee del conflitto di cui mi sono sentito una vittima, poi per carità, i miei problemi giudiziari sono stati minori rispetto a tanti della mia generazione, di mio hanno denunciato solo un libro che avevo scritto con Claudio Piersanti, scrittore di Ancona, Maurizio Torrealta, giornalista e Carlo Rovelli che oggi insegna fisica all’Università. Avevamo raccolto le telefonate registrate da Radio Alice, che era una radio sovversiva bolognese e ne abbiamo fatto un libro. I miei problemi con la giustizia si riferiscono a questo caso.


Julio Monteiro Martins: Dopo trent’anni, quasi quaranta di tanti di questi episodi l’Italia ha una difficoltà enorme di metabolizzare storicamente quel periodo, sembra che sia una ferita ancora totalmente aperta. A cosa attribuisci questo?


Enrico Palandri: In parte alla carriera di tanti cha hanno fatto la rivoluzione, se tu pensi a Ferrara, Liguori, lo stesso D’Alema che ha sempre difeso Sofri, ed anch’io lo difendo, non per questioni ideologiche, ma per ragioni procedurali perché non trovo accettabile che qualcuno venga condannato con le prove offerte perché altrimenti diventa un processo alla generazione ed è ingiusto. D’Alema come dicevo l’ha sempre difeso, ed è una cosa che mi fa piacere, però vorrei capire meglio perché. Io credo che quella generazione del Partito Comunista che oggi è nella dirigenza del Partito Democratico sappia più di quello che vuol far credere. D’Alema a un certo punto ha detto che ha compiuto diciasette viaggi in Unione Sovietica e certamente col tipo di carriera che ha fatto, non ci andava a vedere il balletto russo. È una parte molto oscura questa della storia italiana e bisognerebbe saperne di più.


Julio Monteiro Martins: Mi viene in mente una frase di Ortega y Gasset che mi piace molto e dice “l’uomo è l’uomo e le sue circostanze”. Noi che abbiamo vissuto questo momento storico interessante – e mi viene in mente un altro senso della parola interessante, i cinesi quando vogliono mandare una maledizione a qualcuno dicono “ Spero che tu rincarni in un altro periodo molto interessante!”. Il nostro è stato un periodo molto interessante nel senso cinese della parola e questo ha condizionato in gran parte la nostra scrittura. Come vedi il rapporto tra vita e scrittura?


Enrico Palandri: Delle volte dico, in fondo non c’era più speranza quando avevamo venti anni, eravamo solo più matti a pensare che ci fosse, anzi c’era più polizia, se è vera la ricostruzione che hanno fatto nel film Piazza delle cinque lune con Donald Sutherland sull’omicidio Moro basato sul materiale raccolto da un magistrato che era nelle Commissioni Stragi, le Brigate Rosse riescono a fare fuori due macchine di scorta e a rapire il Presidente della Democrazia Cristiana senza avere nessuno, o quasi, supporto militare, il che è quanto meno sospetto. Ogni tanto mi sento un po’ colpevole, per esempio ormai da una ventina di anni scrivo sull’Unità e adesso, faccio molta fatica a pensare di dover scrivere un articolo, sono infatti sei mesi che non mando più niente. Nonostante i redattori siamo magnifici con me, penso alla Stefania Scateni, e provenga anch’io da una storia di sinistra, faccio fatica a scrivere un articolo per l’Unità. Mi viene in mente la Achmatova che ho letto molto in questo periodo e penso all’inizio di Requiem. Non so se ricordate, la Achmatova ha avuto una storia terribile, le hanno sequestrato il figlio più volte e Requiem è dedicato proprio agli amici ammazzati. All’inizio del libro dice di aver fatto spesso la fila alle prigioni di Pietroburgo e di avervi incontrato un giorno una donna che rivolgendosi a lei le chiedeva chi mai avrebbe potuto raccontare tutto quello e lei ha pensato, io posso. Personalmente sento molto questa responsabilità, ma mi rendo conto che non ho più la capacità di intervenire e non è perché voglia farmi i fatti miei, semplicemente mi manca qualcosa….


Julio Monteiro Martins: È molto difficile riprodurre letterariamente nei personaggi lo sviluppo interno di quei tempi, da dove uno prendeva l’entusiasmo…ci sono stati dei tentativi, mi viene in mente il libro di Bruno Arpaia Il passato davanti a noi, oppure il romanzo a cui è ispirato il film di Bertolucci The dreamers, ma forse solo chi ha vissuto certi momenti sa riprodurre dentro di sé certe sensazioni.


Enrico Palandri: Sì, in questo la letteratura è fasulla, come dicevi tu all’inizio, e ci sono degli esempi enormi con cui fare i conti, per esempio i Promessi Sposi. Il romanzo storico ha questa pretesa di riprodurre fedelmente certi avvenimenti, a me piace tantissimo la storia, ma la storia sono io che di fronte a una pietra, un manoscritto cerco di ricostruire e di capire, un autore che me la muova come un burattino mi insospettisce. Ci sono però degli esempi riusciti, un romanzo storico che mi è piaciuto molto, non so se lo conoscete, è Il Signor Mani di Yehoshua.


Julio Monteiro Martins: Si, ed è un libro narrativamente parlando modo molto originale perché è un dialogo in cui una delle due parti è sempre in silenzio, non è un monologo, è un dialogo in cui compare solo una voce. Un libro a cui io invece sono molto affezionato e che oggi è pressoché dimenticato è quello di Stefan Zweig intitolato Il mondo di ieri, lo ha scritto in Brasile mentre era in esilio dalla sua Vienna perché ebreo e dopo si è ucciso con la moglie. Fa questo estremo omaggio alla Vienna del suo tempo, quella di fine ‘800,ed è un tentativo commovente e particolarmente riuscito di riprodurre un ambiente, un palcoscenico urbano e sociale.


Livia Bazu: In questo caso è un canto del cigno che finisce, la celebrazione di qualcosa che è già morto, il romanzo storico di Toni Morrison che riscrive la storia degli afro-americani e riprende da un punto di vista storico tutte le documentazioni, il poco che è stato lasciato, gli articoli di giornale sulla schiavitù, la memoria orale… parte da un punto di vista diverso. Lei riscrive per ridare radici, è la stessa operazione che si fa con Guerra e Pace, si crea un antecedente al presente per rifondarlo storicamente e miticamente, dà tutte le coordinate per rifondare il presente. Quello che voglio dire è che il romanzo storico ha senso nel momento in cui viene relazionato al presente. Il suo libro Beloved finisce così: “Non è una storia da tralasciare”, oppure nel doppio significato “Non è una storia da tramandare”, si fa presente la necessità di una memoria rigenerata che sia allo stesso tempo distacco, in questo modo tu puoi ricreare le radici. E sono romanzi di grandi traumi e sofferenze, però di questa violenza Toni Morrison fa un operazione di una dolcezza, una maternità incredibile, di riconciliazione, di “rimettere al mondo”.


Enrico Palandri: In questa cosa che hai detto mi riconosco molto, un po’ perché tutti i libri che ho scritto in Inghilterra, li ho scritti per “tornare in Italia” e raccontare dal mio punto di vista la storia degli anni ’70, ma anche con questa cosa del tramandare e tralasciare mi ci identifico. Ho fatto un libro sul viaggio che s’intitola Le vie del ritorno, e che è la storia di un viaggio da Londra a Roma di un psicanalista polacco sradicato dal proprio paese e vissuto a Roma che torna indietro con la memoria. Arrivato alla stazione Termini, telefona a degli amici per avvisare che si trova a Roma e gli rubano la valigia, e questo metaforicamente è il senso di tutto il libro, tutta questa rammemorazione serve in realtà a liberarsi della memoria e poter uscire alleggeriti da tutto ciò che ci ha tenuti prigionieri. È come se noi nascessimo prigionieri di una narrazione, di una memoria e il libro sia il tentativo per uscirne fuori.


Julio Monteiro Martins: Tutto ciò si ricollega, se vogliamo, a quella metafora molto bella che tu hai usato prima, della letteratura che è in grado di ridare voce e vita a un cadavere e poi l’apprendistato attraverso l’osservazione del cadavere. A tale proposito recentemente ho visto una mostra fotografica che mi ha impressionato molto, il fotografo tedesco Walter Schels ha allestito questa mostra dove immortala con l’obiettivo una persona pochi giorni prima di morire e subito dopo la morte, e pone le immagini una accanto all’altra.


Enrico Palandri: Si, molto bella, ho visto questa mostra a Lisbona. Come un’altra cosa molto bella che ho visto sempre in Portogallo, a Lisbona, è il cimitero Dos Prazeres, lì le persone andavano a visitare le tombe portandosi da casa le cose da mangiare e banchettavano insieme ai propri morti.


Julio Monteiro Martins: Certo, l’osservazione, come la compagnia dei morti è importante, attraverso l’assenza si capisce anche meglio la presenza operativa nel nostro corpo fisico.


Enrico Palandri: Assolutamente.


Livia Bazu: Recentemente una mia amica mi ha raccontato il momento il cui il proprio padre gli moriva tra le braccia. Ed era un momento così solenne e pieno di dolcezza allo stesso tempo, di una grandezza e piccolezza contemporaneamente. Tu senti la vita che ti si lascia ed è un momento incredibile, noi abbiamo perso questo. E nella letteratura si può fare la stessa cosa, come ha fatto Palandri, di questo amico raccolto e ripreso alla vita. Se la parola letteraria è viva, non è testimonianza, informazione, si possono raccogliere le energie dei morti e ridarle, restituirle.


Enrico Palandri: La morte si può raccontare anche in modo comico, mi viene in mente La coscienza di Zeno di Svevo. Nel secondo capitolo, il padre sta morendo e chiede al figlio l’ultimo sigaro e lui non glielo dà, perché dice che gli avrebbe fatto male! E poi va da lui e lo gira e c’è una ambiguità terribile, dove non si capisce se il padre abbia tentato di dargli una sberla prima di morire! Quindi questa morte oscilla tra la colpa massima di non aver dato l’ultimo sigaro al padre e la comicità.


Livia Bazu: Però è proprio in questo dubbio che si trasmette e si fa rivivere il rapporto padre-figlio!


Alessandro Trasciatti: Voglio fare delle riflessioni sulle cose che sono state dette all’inizio. Secondo me nella produzione media letteraria italiana contemporanea c’è un eccesso di letterarietà, mi spiego. Io vedo, un po’ perché ho un blog di letteratura, un po’ perché sono nella giuria di un premio letterario, che molto spesso gli autori esordienti, ma anche quelli affermati attingono al patrimonio della nostra letteratura in modo spropositato, sfociando spesso nella retorica. Per questo mi interessano molto gli sperimenti di quegli scrittori che impastano la letteratura all’oralità e al linguaggio parlato, penso agli scrittori emiliani, a Gianni Celati, alla Banda dei sospiri.


Enrico Palandri: Si, Celati è un grande scrittore e molto spesso nel libro Boccalone, cito il mio amico Gianni, non c’è il cognome, ma si tratta di lui. Ed è stato proprio lui che mi ha aiutato a pubblicare il libro, quindi è stata una figura importantissima per me. Capisco molto bene le tue considerazioni, quando si leggono molti libri, ci si stufa, e allora ti sembra di respirare quando avverti la trasgressione linguistica, la rottura dei codici, però devo dire la verità che nella maggior parte dei casi queste sperimentazioni, perfino in grandissimi come Carlo Emilio Gadda, in realtà non tengono.


Livia Bazu: Credi che la letteratura della migrazione ha in sé un elemento di rottura dagli schemi tradizionali linguistici e possa in questo senso dare un contributo alla letteratura italiana?


Enrico Palandri: Credo che ci sia un aspetto più ampio che non ridurrei a quello linguistico, ed è simile a quello che è accaduto in Inghilterra. Cioè, è vero che la narrazione italiana tende a volte a essere ripiegata su se stessa e in questo senso la letteratura della migrazione ha portato delle aperture. Però non so se linguisticamente sia così significativa.


Julio Monteiro Martins: Amici, io chiuderei qui i lavori, ringrazio tantissimo Enrico Palandri per la sua presenza al nostro seminario, ringrazio tutti voi per la qualità del vostro ascolto, sono state due belle ore che abbiamo passato insieme. Alla prossima volta!





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