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Programma della terza sezione del Seminario

Intervento dello scrittore italiano Giuseppe Lupo – 15,00

Intervento dello scrittore italiano Lionello Massobrio – ore 16,00





 

2° giorno - Mercoledì 09 luglio 2008 ore 15,00 Sala Maria Luisa



Julio Monteiro Martins: È un grande piacere per me presentarvi lo scrittore italiano di oggi, Giuseppe Lupo. Io e Giuseppe ci siamo conosciuti a Brescia ad un convegno e mi aveva colpito molto perché, come vedrete, è un grande affabulatore. Ma c’è un altro motivo per cui l’ho invitato ed è una cosa che arricchirà molto le nostre discussioni, infatti lui è uno scrittore che vive a Milano, ma originario della Basilicata e nei suoi libri riproduce una sorta di Basilicata fantastica, di scenario magico alla Márquez. Ha tutte le caratteristiche di uno scrittore migrante, migrante da una realtà italiana ad un’altra realtà altrettanto italiana, questo è interessante perché l’Italia è costituita da diversi nuclei culturali con caratteristiche molto diverse tra loro. La letteratura di Giuseppe Lupo è forse quella che rappresenta più di tutte, oggi in Italia, questa migrazione “interna”. Insieme a lui è venuta anche Milva Cappellini, critica molto brava, mia amica e amica di Lupo che insieme si passeranno la parola l’un l’altro. È presente tra noi, come ospite gradito, anche Lionello Massobrio, scrittore italiano, regista, sceneggiatore, e dopo l’intervento di Giuseppe mi piacerebbe che ci parlasse un po’ della sue innumerevoli esperienze, avendo viaggiato molto in Africa, Angola…


Milva Cappellini: Mi prendo un piccolo merito, a parte che sono contenta di questo incrocio di amicizie belle e casuali, tra Julio, Giuseppe e me, recensendo il secondo libro di Giuseppe che ho amato in modo particolare ed è Ballo ad Agropinto, ho detto che Agropinto è una sorta di Macondo Lucano e sono contenta che per una volta il critico non abbia travisato quello che lo scrittore voleva dire! Ma di questo si tratta, di personaggi stralunati, ipnotizzati da una realtà tra il circense e il carnevalesco. Ma adesso ascoltiamo Giuseppe Lupo.



Giuseppe Lupo: Allora, io vivo a Milano, ma come si capisce dal mio accento sono nato il Lucania 44 anni fa. L’appartenenza ad una geografia culturale già condiziona tutta quanta la nostra vita. Io vengo da una regione che è stata conosciuta anche da un punto di vista letterario tramite Il cristo di Carlo Levi, ecco quel libro ha fotografato una stagione e una linea d’interpretazione particolare, il sud interno della Basilicata è un mondo senza storia, immobile ed essendo così non cambierà mai, ha delle regole interne per cui la vita delle persone non si modificherà mai. Paradossalmente invece, quel mondo lì è un mondo di grande migrazione, è un mondo che ha nutrito l’immaginario della gente proprio con l’emigrazione. E noi tutti siamo nati e cresciuti con questo miraggio della migrazione, soprattutto quella americana, New York era la capitale del sud, più di Roma. L’immagine della città statunitense ha accompagnato la mia adolescenza e si era formata tramite i racconti orali, ogni persona del sud ha almeno una persona in famiglia che è stata in America. Le persone tornavano e raccontavano dell’America amplificando la narrazione e contribuendo alla creazione del mito. Io vengo da questa terra dove è sempre stata presente la migrazione, prima appunto quella di fine ‘800 negli Stati Uniti, poi quella degli anni ’40 verso il Sud America e il Nord Europa, Belgio, Germania, ma anche a Torino, Milano. Ho notato tra queste due ondate migratorie alcune differenze, se la prima generava il mito del successo personale e dell’affermazione economica, dalla seconda si voleva più che altro, un lavoro, uno stipendio, una regolarità. Dico questo perché nelle nostre famiglie il tema dell’immigrazione è un tema fortemente presente e questo se vogliamo è un elemento che si contrappone all’immobilismo di Levi, una terra che si è spostata e che continua a muoversi, non può essere immobile. Seguendo le mie vicende personali, la mia migrazione è dei primi anni ’80, è avvenuto che fintanto che ero in Basilicata, la mia voglia era quella di fuggire, nel momento in cui sono arrivato a Milano ho avuto il desiderio di riscoprire la mia terra e mi sono trovato ad identificarmi con questo mondo. Ho conosciuto il sud quando me ne sono andato e probabilmente se non me ne fossi andato non lo avrei mai capito come poi l’ho capito. E questo sentimento di assenza mi ha portato a mitizzare il sud e questo mi ha portato ad avere del sud una visione, un immaginario che non è realista, direi quasi “magico”. Nel libro che menzionava Milva, ho costruito del paese una cartina geografica totalmente immaginaria, è una cartina dai contorni esistenti, ma che contiene paesi, località e nomi immaginari. L’esempio a cui mi sono ispirato perché amo questo scrittore è la contea di Yoknapatawpha di Faulkner, perché in fondo non è necessario ambientare un romanzo in un luogo necessariamente reale, quello che importa è che il libro possa contenere qualcosa per cui anche se il lettore appartiene ad altre realtà geografiche vi si possa immedesimare, in fondo si parla di un luogo trasfigurato che non c’è e quando parliamo di luogo che non c’è in fondo parliamo di utopia. Io credo che accanto a libri di denuncia, come Gomorra, il sud abbia bisogno di libri di “progetto”. Il sud ha bisogno di essere reinterpretato, riscritto, ha bisogno di nuove chiavi di lettura ed io personalmente propongo quella della commedia, del tragicomico. Sono stanco di quei libri che raccontano il sud solo come dolore, morte, disperazione, il sud è anche progetto, utopia, immaginario, fantasia, creatività, è comunità. La cultura del sud è infatti estremamente legata all’idea di comunità che poi se vogliamo estendere l’argomento, questo è un tratto tipicamente mediterraneo, le civiltà mediterranee hanno sempre convissuto con questa idea di condivisione della vita, mentre nel nord d’Europa e d’Italia, c’è un’etica individualista dell’uomo da solo che questo poi significa anche discrezione, il vivere appartati, il silenzio dei paesi nord europei, il mondo del sud invece è più rumoroso dove c’è il contatto, il dialogo. Una cosa che ho notato andando a vivere a Milano è che al nord non esiste la vita per strada, mentre in Basilicata tutti stanno fuori fino a tardi nelle piazze al nord o si sta in casa, o si esce in qualche locale, ma sempre al chiuso. Questo è un discorso che ha affrontato, secondo me in maniera esemplare, Franco Cassano nel suo libro il Pensiero meridiano; perché il sud deve continuare ad inseguire un modello di vita che non gli appartiene ed appartiene invece al nord, il modo di vivere anglosassone, calvinista, votato al successo? Perché il sud, anziché guardare al Nord Europa, non si volta verso le civiltà del mediterraneo? Questa è l’idea portata avanti da Cassano che insegna a Bari, ma anche da alcune riviste del sud come la in-Oltre dell’88 fondata da Raffaele Nigro, scrittore lucano particolarmente impegnato anche sulla letteratura migrante, sul mondo balcanico, magrebino, cioè sull’abbracciare questa realtà altra. Se ho tempo mi piacerebbe affrontare un altro tema caro alla mia cultura e cioè quello della fuga, quasi sempre l’intellettuale fugge da queste realtà montuose dell’interno per andarsene a Napoli, Roma, etc…Questa caratteristica di noi lucani, come “fuggitivi”, ha creato anche una categoria nuova, i lucani quando vanno via dal loro paese sono talmente discreti nel manifestare la loro appartenenza che si confondono, si nascondono, mentre i pugliesi, i calabresi sono più rumorosi, nel senso che si fanno notare e si fanno riconoscere, un lucano non lo riconosci mai, si adatta talmente al tessuto sociale al quale appartiene ora, che scompare. Il fatto di essere un popolo così discreto, tanto da diventare invisibili, ha in sè un problema serio. Certo da un lato tu accogli la cultura dove vai e quindi ti arricchisci, ma perdi la tua cultura: ecco il popolo lucano, tra tutti quelli del sud è quello che convive più di tutti col rischio della perdita di identità, della dispersione. La letteratura dovrebbe servire a recuperare questo mondo che sta scomparendo, recuperarlo però, attenzione, non come azione nostalgica, io non ho nostalgia della Basilicata con gli asini, con le streghe, le donne nere e gli uomini col mantello, però fare in modo che questo mondo non scompaia e che quindi continui a vivere attraverso la testimonianza e il raccontare, questo si. E c’è tutta una letteratura della migrazione anche al sud, prima vi parlavo di Raffaele Nigro, ma potrei citare anche Carmine Abate, calabrese, che è emigrato con la famiglia in Germania e ora residente a Trento, ma che continua a scrivere sulla Calabria, Andrea di Consoli è un altro esempio. Ci sono alcuni autori che lavorano su questa letteratura chiamiamola antropologica, che è un tipo di narrativa dove si ricostruisce un mondo anche per salvaguardarlo e siccome si racconta non muore. Nel mio dialetto c’è un’espressione bellissima che è “l’importante è che si raccontino”. Le persone quando si incontrano e magari è successo qualcosa di brutto precedentemente si dicono proprio questo. Ma che cosa vuol dire? Se si racconta vuol dire che abbiamo superato il problema e quindi possiamo raccontarlo e quindi possiamo farlo diventare qualcosa che non muore. Se non posso raccontarlo è perché sono morto! Un’altra problematica che mi appassiona è: ma in questo mondo globalizzato, la questione meridionale a chi interessa più? Probabilmente l’approfondire una geografia e il restare dentro questa geografia è un antidoto, una sorta di vaccinazione a un processo di mescolamento, ma anche di perdita di identità. Aggiungerei un’altra cosa. L’Italia da popolo di emigranti è diventato un paese che accoglie gli emigranti e secondo me a maggior ragione per questo è necessario intraprendere la strada dell’idea comunitaria della cultura , del dialogo, del confronto. C’è una frase da Diario Mediterraneo di Raffaele Nigro che è bella e che dice “Quando io feci visita all’Albania, mi sono accorto che l’Albania era come la Basilicata della mia infanzia”. Probabilmente l’incontro con le altre civiltà che arrivano potrebbe diventare per noi che abbiamo abbandonato quel mondo l’elemento di riscoperta della nostra infanzia, di quel “pianeta” che abbiamo perduto quando siamo andati via. Come ho raccontato l’emigrazione io? Nell’emigrazione mitica di fine ottocento verso gli Stati Uniti, il migrante è sempre triste, afflitto, pieno di nostalgia, io credo che questa sia un’immagine falsa o almeno non l’unica. Mi spiego, una persona miserabile che abbandona il sud per andare a New York, di che cosa poteva avere nostalgia? Perché invece non immaginare che New York, l’America sia una grande giostra, sia un luogo di divertimento e sia soprattutto un luogo dove questa persona possa giocarsi la chance del successo? Il mio primo romanzo che s’intitola L’americano di Celenne, racconta la storia di un miserabile stalliere che arriva a New York in maniera rocambolesca, ma anziché ricordare il passato con la sua povertà, vive per 10 anni nella città come se fosse un parco divertimenti e si butta a capofitto nel tentativo di diventare ricco, cosa che riuscirà a fare. Ecco, io ho cercato di raccontare una storia di emigrazione fuori dai cliché e dagli stereotipi che voleva il migrante piagnucolone e nostalgico. Così come, nel mio secondo libro Ballo ad Agropinto, ho stravolto l’immaginario collegato alla miseria del sud, che viene sempre raccontata in modo doloroso con la gente miserabile che piange, il lutto…Io ho narrato una storia dove le persone sono assolutamente povere e disgraziate, ma che paradossalmente proprio perché non posseggono niente sono felici e vivono in una grande allucinazione collettiva carnevalesca. In questo caso il pianto, il lamento, la disperazione, vengono capovolti bizzarramente in grida festose, urla di gioia, allegria scanzonata..perseguitati da un’idea del mondo del futuro dove le porte non avranno serrature, i cancelli lucchetti, dove non esisterà la proprietà privata e dove tutti vivranno in una dimensione comunitaria. Nel libro infatti c’è un frate, Tommaso, che continua a predicare a questa gente, che è miscredente, questa utopia del futuro dove la proprietà privata non esisterà. Sarò folle, ma credo fermamente nell’idea, forse fanciullesca, chi lo sa?,di una società senza il denaro e l’ho voluta inserire nel mio romanzo. Sarà, ma io ci credo. Grazie.



Milva Cappellini
: Giuseppe ha omesso di parlare dell’ultimo libro di cui parlerò io. L’idea dei luoghi è proprio l’idea del luogo antropologico di cui parla Marc Augé, il luogo storico, identitario e relazionale, questi sono i tre capisaldi del luogo antropologico, poi Giuseppe che è un critico assai attento di tanta letteratura contemporanea forse tornerà su questa categoria, che è per altro molto interessante e potrebbe dare spunti nuovi al lettore di letteratura migrante. Volevo fare una brevissima parentesi circa il carattere migrante degli italiani. La mia mamma che è nata nel ’41 mi racconta che subito dopo la guerra nelle campagne pistoiesi ci fu una grande ondata migratoria da Arezzo che dista pochi chilometri in realtà. Racconta, con la capacità di trasfigurazione mitica, di questi carretti che arrivavano carichi di masserizie e di ragazze che portavano ancora i calzetti fatti a mano, simbolo di una civiltà più primitiva rispetto a quella di Pistoia. Questo per dire che siamo un popolo anche di micro migranti. Adesso vi voglio fare leggere alcune definizioni della Basilicata che si ritrovano nell’ultimo libro di Giuseppe La carovana Zanardelli, che riceve per altro dalla critica apprezzamenti assai meritati. Se ad Agropinto c’è il carnevale, La carovana di Zanardelli è un romanzo circense, la cui storia è tramata e intessuta di metafore appartenenti al mondo del circo. Sulla piana dell’Agri, se non fosse stato per la presenza della carovana di Zanardelli, “Tino Robilante avrebbe avuto la certezza che quell’altura non appartenesse a nessun atlante geografico, anzi fosse l’unico luogo al mondo dove i sogni trovavano la materia giusta per vivere”

Oppure sempre nella percezione di Robilante, la Basilicata gli appare come: “Una culla di pietre vasta quanto il ventre di una madre” e un altro personaggio del libro “Aveva l’impressione di non aver ancora conosciuto fino in fondo una terra il cui destino era scritto nei ghirigori delle nuvole”. Da una parte le pietre, dall’altra le nuvole, il massimo della persistenza e della compattezza da una parte e dall’altra il massimo dell’evanescenza. Oppure c’è una bellissima descrizione di Matera di notte, che è quasi fiabesca, il contrario della descrizione che sappiamo bene ne fa Levi “C’erano dirupi coperti di erba selvatica, porzioni di roccia sgretolata e a Zanardelli non sarebbe bastata una vita di cento anni per visitare, pezzo per pezzo, quel presepe di grotte che pareva una melograna spaccata”. Anche il territorio geografico è sempre incerto, a metà tra la realtà consistente di un luogo fisico e una sorta di deriva onirica, di scivolamento surreale. “ Le alluvioni scavano budelli, il terreno si fa polpa di mele cotogne e dalle frane escono i monachicchi”, e Zanardelli vede “un panorama di calanchi e dune gialle, rugoso come la pelle di tartaruga e visitato dal vento che innalzava all’orizzonte solitari pennacchi di polvere”. Si nota il tessuto fortemente immaginifico di questo territorio che mi fa venire in mente la navigazione di San Brandano quando arriva all’isola e in realtà trova un pesce; questa Basilicata che da una parte è, si, pietra, ma dall’altra è fatta davvero della materia dei sogni e al tempo stesso è un organismo vivo. Ecco, su questo discorso dei luoghi, Giuseppe forse ce ne potrà parlare meglio. L’altra cosa che mi sembra interessante e di cui vorrei che Lupo ci parlasse è la questione dell’immagine della Storia. Giuseppe ci ha parlato di una sua idea che ha definito politicamente fanciullesca, dove forse le persone si scambiano bottoni o dove gli scienziati praticano un riciclaggio estremo di tutto, come succede ad Agropinto. La missione di Zanardelli, parte, scrive lui: “ come una trionfale inchiesta parlamentare e si trasforma in un malinconico pellegrinaggio alle radici del bene e del male”. C’è l’idea del grottesco nella storia, la storia che è una faccenda grottesca, per esempio: “Donna Perna  si lasciò andare ad uno dei suoi commenti: la colpa era dell’aria lucana che fa inseguire gli aquiloni dell’utopia dove non ci sono che scassate montagne di argilla”. La spedizione di Zanardelli è stata una inchiesta parlamentare dove sono stati coinvolti notabili del luogo e dove ci sono stati fior fiore di referti giornalistici, credo che il retroterra documentale del romanzo sia robusto da studioso quale Giuseppe Lupo è. Lasciamo che ce ne parli.

Giuseppe Lupo: Dunque 106 anni fa, il Presidente del Consiglio dei Ministri di allora, Zanardelli, bresciano, avvocato liberal democratico di 76 anni compie un viaggio in Basilicata di dodici giorni , la ragione è perché vuole conoscere questa terra e attraverso questa terra vuole conoscere il perché si parli di un sud arretrato rispetto al nord. Questo viaggio pone storicamente la cosiddetta questione meridionale. Al suo ritorno verrà varata una legge nazionale, la legge Zanardelli, che stanzierà per la sola Basilicata 64 milioni di lire. Zanardelli compì questo viaggio accompagnato da alcuni deputati e funzionari romani che lo hanno seguito ed hanno scritto le cronache. Questa è la storia vera che ho ricostruito tramite i documenti, però poi ho immaginato, ho sognato la storia. La chiave di lettura di questo viaggio, ma un po’ di tutto il popolo lucano è una frase che il poeta Sinisgalli una volta scrisse: “ I lucani sono un popolo che la saggezza ha portato alle soglie dell’insensatezza”, cioè dice Sinisgalli, noi siamo talmente saggi da essere insensati, folli. Il popolo lucano è perseguitato da un demone che è quello della fantasia, noi siamo abituati a pensare, a immaginare, a fantasticare. Vi racconto una cosa vera, scriveva Giovanni Russo, un giornalista di origine lucana che lavora per il Corriere della Sera, che negli anni ’40, mentre stava svolgendo un’inchiesta accompagnando uno studioso americano in Basilicata, con la macchina si fermano ad un paesino. Qui si imbattono in un contadino, capo della sezione del PC di allora, che gli mostra orgoglioso la macchina per fare la guerra elettrica. Cosa fosse se lo sono fatti spiegare, ma non finisce qui, il contadino gli racconta pure di aver spedito una lettera a Stalin dove spiegava l’esistenza di questa macchina e che se voleva gliela poteva vendere per usare contro l’America, ma quello che è buffo è che quest’uomo si meravigliava del fatto che Stalin ancora non gli avesse risposto! Ecco, la Lucania è anche questo! Insomma durante questi dodici giorni, e questa è una cosa vera, Zanardelli viaggia in lungo e largo la Basilicata, e dappertutto la Lucania si mette a festa, nei paesini le persone gli si fanno intorno cercando di stringergli le mani e tutti quanti chiedono soldi, soldi, per fare strade, ferrovie…Tutti i progetti più strampalati li portano da Zanardelli, il quale settantaseienne, uomo del nord, razionale, aristotelico si trova catapultato in questa terra dove un frastuono di voci, una babele di gente gli tira la giacca, ed è anziano!, e gli mostra petizioni su petizioni. Ma anche lui in fondo viene rapito dal demone della fantasia e diventa egli stesso vittima di questo demone….Era partito con l’intenzione di risolvere i problemi del sud e appena arriva cosa gli capita? Di sognare una donna e per tutto il viaggio sarà perseguitato da questa idea bellissima di donna, che lo seduce, gli fa le moine, anche lui, uomo della Storia con la s maiuscola arriva in Basilicata e non capisce più niente “La Storia è un cumulo di distrazioni”. Zanardelli arrivato in Basilicata si distrae. La storia del sud sarebbe dovuta andare in un certo modo, ma poi è successo qualcosa e si è distratta...Ecco, nel mio romanzo a un certo punto Zanardelli, che doveva essere accompagnato solo da qualche deputato e funzionario, si ritrova assediato da una marea di gente e dalla banda del paese che lo insegue dappertutto, da un medico personale, si imbatterà poi in una donna bellissima inglese molto ricca che però è una sufragetta, tutti gli uomini di questa spedizione la inseguiranno, diventa come Angelica nell’Orlando Furioso e anche Zanardelli perde la testa, anche lui si distrae dalla Storia che deve assolvere e corre dietro a questa donna. Turisti inglesi, un fotografo ambulante, matto anche lui, che si sta per sposare con la figlia di un ortopedico, ma appena sente la notizia che sta per arrivare in città la carovana abbandona la futura moglie per unirsi a questa gente e seguire la spedizione, con quale obiettivo? Con quello di cogliere qualcosa nel viaggio che possa dargli l’immortalità, annusa una certa possibilità di complotto contro Zanardelli e pensa che se sarà bravo abbastanza da sventare il momento in cui Zanardelli verrà messo in pericolo, allora lui acquisterà la celebrità e per questo sta sempre dietro al Presidente con una telecamera accesa. Poi c’è un giornalista che si intrufola tra gli altri giornalisti ufficiali e crede di essere figlio di Ippolito Nievo, pensa che quando Nievo scese al sud per combattere con Garibaldi potrebbe avere avuto una storia d’amore con sua madre dal quale poi sarebbe nato lui. Segue anche lui la carovana perché vuol scoprire se quello che lui crede essere suo padre, è morto per una semplice disgrazia oppure perché qualcuno lo ha fatto affondare e chi più di un Presidente del Consiglio può conoscere questa verità? Tutti i personaggi del mio libro sono ossessionati dal sogno, dal demone della fantasia. C’è un personaggio il Cavalier Vittorino Negrofante, produttore di liquori, uomo smaliziato, “traffichino”, che è quello che si occupa dell’organizzazione di tutto il viaggio e ha sempre in mano le cartine stradali, le tabelle ferroviarie, gli orari e anche lui ha un sogno, vorrebbe fare in modo tale che Zanardelli firmi una legge speciale che possa dotare la Basilicata di uno Statuto autonomo, vorrebbe essere una sorta di Bossi del sud, il federalismo lucano. Chiudo il discorso, quando Milva mi chiedeva cosa pensi della Storia, io sono molto diffidente verso la Storia , guardo alla Storia con molta ironia e in maniera tragicomica perché in questo modo si gratta più a fondo, la commedia graffia più a fondo di quanto non faccia la tragedia. Ti ho risposto Milva?

Julio Monteiro Martins: Bravo Giuseppe, come vi anticipavo, un grande affabulatore, racconta con una vivacità straordinaria!

Giuseppe Lupo: Ma per raccontarvene un’altra divertente, adesso è stato scoperto il petrolio e pare che la Lucania sia il paese europeo più ricco di petrolio, io scherzando dico che hanno bucato l’oleodotto che arriva dall’Arabia!, c’è un sindaco della valle dell’Agri dove si trova il petrolio che con i soldi ricavati dal petrolio ha pavimentato il paese quattro volte, questo per dirvi la follia del mio paese. Un altro sindaco che non sapeva come spendere i soldi, ha fondato tre squadre di calcio, con tutti i problemi di disoccupazione… mi dite a cosa servono tre squadre di calcio in un paesino di 4.000 abitanti? La follia dei lucani sta anche in questo. Ora in Lucania sta circolando la leggenda che il fondatore dei Cavalieri Templari sia nato proprio in Basilicata, a Forenza! Ma allora c’è da chiedersi il Sacro Graal, è lì?!

Julio Monteiro Martins: Ti faccio una domanda un po’ scontata, prima si parlava di Macondo, c’è nel tuo narrare un’influenza degli scrittori sud americani?

Milva Cappellini: Aggiungo una considerazione alla domanda di Julio. Il romanzo di Giuseppe è un romanzo molto corale, come sono i romanzi antropologici dove il senso della collettività di cui parlava prima Giuseppe, in termini narrativi è evidentemente portato a tradursi nella coralità. Alla fine la storia è raccontata da un testimone che dice lui stesso di essere il più inattendibile di tutti e per questo alla domanda sulla Storia, si potrebbe aggiungere la domanda sul racconto della Storia, sulla possibilità di raccontare la Storia…nel libro i cronisti prendono appunti che poi vengono stravolti, lo stesso Rubilante dopo aver cercato strenuamente di filmare il momento che lo avrebbe proiettato nell’immortalità, alla fine smonta la macchina da presa abbattuto, quindi sembra serpeggiare una sorta di sfiducia nella possibilità di una narrazione organica, completa, oggettiva, idea rafforzata anche da questo proliferare di racconti e di storie laterali intrecciate che dissimulano la trama principale che è il viaggio di Zanardelli. Però alla fine,in quello che si chiamerebbe il “paratesto”, Giuseppe sembra pagare i suoi debiti con il romanzo storico e parla di Manzoni, cita Nievo, quindi la grande tradizione italiana. In che modo semmai, se la risposta a Julio è affermativa, anche tecnicamente due tipi di narrazione così diversi nel tuo libro riescono a contaminarsi più che a conciliarsi?

Giuseppe Lupo: Più che romanzo storico, questo è un romanzo antropologico. E che significa? Un Manzoni, per esempio è molto attento e scrupoloso verso la Storia, io invece uso la Storia solo come pretesto, per dare poi una mia idea di sud. Il romanzo antropologico questo lo può fare perché è un tipo di romanzo dove tu ricostruisci un mondo globalmente a partire dal cibo, il dialetto, le usanze,e i nostri debiti non sono tanto con Manzoni, ma con un’altra persona che ora non c’è più ed è Raffaele Crovi, che per me, come per altri autori più importanti di me è il maestro, questo libro l’ho dedicato a lui come amico ma soprattutto come maestro, lui è uno scrittore che ha coltivato come autore e come editore questo tipo di genere, si può dire che è quello che l’ha portato a battesimo, che ha cercato di farlo affermare nella nostra narrativa a partire dalla fine degli anni ’70. Il romanzo antropologico è un romanzo che si confonde con quello storico, ma non è storico, è un romanzo che dà molta importanza alla etnia, ai popoli, alle tradizioni, alle sagre, ai luoghi geografici, ricostruisce una geografia culturale. Probabilmente è un romanzo che oggi non sarà tanto di moda, ma questo non importa, ognuna deve scrivere i libri che ha in mente e portare avanti quelle narrazioni. Giustamente Milva dice, un conto è la Storia e un conto è il racconto della Storia, qui uno deve prendersi certe libertà, deve intervenire perché altrimenti la funzione di chi scrive non sarebbe altra che quella di un cronista, se io avessi narrato il viaggio di Zanardelli come lo hanno raccontato davvero i cronisti più di 100 anni fa, sarebbe stato un romanzo assolutamente ridicolo, non ridicolo perché grottesco, ma perché retorico. Per rispondere a Julio, sì, ci sentiamo vicini al mondo latino americano e soprattutto a Márquez, perché anche quello è un mondo che esalta certi aspetti comuni, la fantasia, il sogno, le allucinazioni, i fantasmi. Mi lusinga il paragone con Márquez, ma è anche vero che i suoi personaggi sono tutti tristi, immersi nella solitudine e quindi nella tristezza, i miei personaggi a me non pare che siano tristi…Un autore che ho molto amato è stato Steinbeck che appartiene alla California del sud, ma non è molto diverso da Márquez in fondo, pensiamo a Pian della Tortilla, anche lui ha questa dimensione picaresca.

Julio Monteiro Martins: Bene, ora chiamerei qui accanto a me Lionello Massobrio, ieri mi ha portato due dei suoi libri, Solo nella mente e Dimenticati. Vorrei chiedere a Lionello di parlarci un po’ della sua opera, del suo percorso della sua vita..


Lionello Massobrio: Il primo romanzo, Dimenticati, è ambientato a Venezia durante la settimana del festival del cinema, e la durata è propria quella di un festival. È diviso in tre parti e per ognuna ci sono tre prologhi dove viene raccontata la storia di Venezia. Si comincia con Buono da Malamocco e Rustico da Torcello che da Alessandria d’Egitto trafugano una ipotetica reliquia di S.Marco, la caricano su una nave nascondendola tra dei maiali perché così gli arabi non vi avrebbero guardato e arrivano a Venezia e così stabiliscono un’icona che potrà difendere Venezia dalla concorrenza del Papato. Ambientandosi durante il festival del cinema i personaggi del romanzo provengono da tutte le nazionalità e questo diventa il luogo d’incontro di diverse culture, modi di vivere e concepire la vita. L’altro romanzo invece è un romanzo ambientato in carcere, e questo è un altro luogo dove si possono incontrare persone provenienti da tutto il mondo. Ma chi vuole sapere di più deve leggere i miei libri perché di più non so dire!

Julio Monteiro Martins: Allora ti faccio io una domanda, nel tuo ultimo libro, Solo nella mente, ambientato in carcere si avverte un bisogno di evasione molto forte, c’è un personaggio addirittura che si crea un mondo alternativo mentale per non vivere la realtà, no? Ci parli un po’di questo?

Lionello Massobrio: Il protagonista di questo romanzo è uno che è in galera perché è stato condannato per un omicidio che non ha commesso, avrebbe ucciso una ragazza di sedici anni con cui aveva avuto una storia e attraverso una serie di passaggi dovuti all’alterazione della sua mente a contatto con l’ambiente carcerario finisce per inventarsi una fuga dal carcere che avviene solo nella sua mente. Si identifica con la vittima dell’omicidio e pensa di, con una barca a vela, attraversare l’oceano, finire su un’isola deserta e lì rifondare l’umanità. Siccome l’editoria non funziona molto bene in Italia ho deciso di mettere su questa cosa nuova di cui forse qualcuno di voi ha visto la pubblicità, chiamata www.ilmiolibro.it del gruppo Repubblica/ Espresso, funziona così, si entra nel sito, ci si registra, c’è una vetrina dove vengono presentati i libri che si trovano lì e solo lì, non anche in libreria ed io penso che questa sia una cosa che probabilmente in altri paesi già funziona molto bene e che avrà grande futuro.

Julio Monteiro Martins: Una volta ho letto un articolo di Sofri, tuo amico, in cui fa un commento su un film che hai girato a Sarajevo, su un episodio molto bello e significativo che vorrei tu raccontassi di una ragazza che hai visto di fronte a uno specchio…

Lionello Massobrio: Si, prima di scrivere definitivamente e solo libri, sono stato anche regista, giornalista, insomma ho fatto una grande quantità di altre cose. Quando venne fuori la questione dello stupro etnico, cioè dei serbi che violentavano le croate e le mettevano incinte e dei croati che facevano la stessa cosa, decisi di partire immediatamente per Sarajevo dove in quel momento c’era l’assedio. A Sarajevo c’era un manicomio dove i dottori erano scappati ed erano rimasti solo i matti e questi si auto-organizzavano, facevano da mangiare…Tra questi pazzi c’era una ragazza che stava tutto il giorno davanti allo specchio e si truccava senza avere né il rossetto, né la cipria, quando si voltò mi accorsi che era incinta e abbiamo saputo che era stata violentata.

Julio Monteiro Martins: Sofri parla di questo bisogno truccarsi, anche senza il trucco, dell’esigenza di ricostruirsi un’immagine, un volto attraverso la semplice mimica delle mani…Se non ci sono interventi, chiudiamo qui la sessione, ringrazio Lionello e Giuseppe e vi do appuntamento a domani.




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