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Programma della quarta sezione del Seminario Intervento della scrittrice di origine romena Livia Bazu – 10,30 Intervento della scrittrice di origine statunitense Brenda Porster e di Andrea Sirotti, professore e traduttore, esperto della letteratura Postcoloniale– 11,00 Intervento della scrittrice di origine tedesca Eva Taylor – 12,00 Discussione finale e congedo - 12,30 |
Julio Monteiro Martins : Cominciamo la nostra quarta ed ultima sezione del settimo seminario degli scrittori migranti. Ho il piacere di presentarvi Livia Bazu. Livia è una giovanissima scrittrice di origine rumena che da molti anni è ormai radicata in Italia. Sette anni fa c'è stata una bellissima iniziativa della Regione Toscana di creare un campus itinerante di scrittori stranieri ed abbiamo percorso le principali città toscane. È stata un esperienza straordinaria e proprio lì ho conosciuto Livia. Lei scrive dei racconti molto belli e fa un'operazione narrativa di grande merito, cioè quella di penetrare nel mondo reale delle donne dell'est europeo che vivono in Italia. Per esempio c'è un suo racconto bellissimo che abbiamo pubblicato su Sagarana, “ Arterie ”, dove Livia penetra nel sottobosco umano delle lap-dance , delle entrenuese a Roma e fa un lavoro di investigazione pscicologica dei personaggi molto interessante; rende bene il divarico tra le aspirazioni, i sogni, le speranze e quello che l'Italia reale e cruda è stata in grado di offrire a queste persone. È un racconto che fa un ritratto spietato, ma reale della vita di molti immigrati nell'Italia di oggi, una cosa che nessuno ha mai fatto. Perché c'è da sfatare la grossolanità di pensare che già tutto sia stato detto o raccontato. Io mi chiedo, se è vero, ma dove sono allora i romanzi sull'Erasmus o sugli amori nati in chat ? Livia da questo punto di vista ha dato un grande contributo alla letteratura italiana.
Una cosa divertente su ciò che pensiamo noi stessi di quello che scriviamo e di come viene recepito invece dagli altri: di “ Arterie ” tutto pensavo meno che fosse spietato! Io volevo parlarvi di intimità. Sono arrivata in Italia che avevo circa 10 anni, che è abbastanza perché certe cose dell'infanzia si siano già formate, ma non è abbastanza perché si sia creata una identità. Anni dopo all'Università ho avuto l'esigenza di studiare letteratura rumena perché mi rendevo conto che non sapevo nulla. Per parlarvi di intimità vorrei partire dal modo in cui la concepisce un autore a me caro perché mi ha accompagnato nella mia formazione adolescenziale, Mircea Eliade. Autore conosciuto più come studioso delle religioni e meno come romanziere, a torto perchè scrive delle cose bellissime che trattano dell'amore, della trascendenza e dell'amore come trascendenza, ma non una trascendenza retorica, in lui c'è una morbidezza, una trascendenza verso il basso, direi, una fusione carnale tra due persone che allo stesso tempo è altro. Sta di fatto che la mia nozione di intimità si è venuta costruendo, crescendo in questo modo, cosa che qui in Italia non ho trovato. Mi sembrava da una parte di non trovarla in sé, perché non ci fosse, e dall'altra parte mi rendevo conto che ero io che non ero ancora dentro la realtà abbastanza da poter sentire e capire. Il primo momento di intimità vera che ho avuto in Italia è stato quando la nonna di mio figlio accogliendomi dentro casa zuppa come un pulcino, alla romana mi ha detto: “povera stella!”. Questa è stata la prima sensazione di casa qui in Italia. Dopo ho continuato ad approfondire le mie relazioni personali e a conoscere nuove forme letterarie di espressione del sentimento, del contatto umano, ma non ho più avuto la percezione di una totale accoglienza che da l'amore di casa o l'amore anche tra uomo e donna nel momento in cui c'è l'appartenenza. Mi piacerebbe rendere in italiano questa intimità, questo approccio all'intimità, che è un universo piccolo piccolo, ma che allo stesso tempo è in grado di sorreggere la persona. C'è una poesia mia brevissima che parla di intimità e ve la voglio leggere:
quando il giorno si spegne
l'assenza calda di una speranza d'amore
arrende gli occhi preme il respiro
si aggrava fino a cingere il ventre il grembo sbocciare nel torrente del parto sognato
Questa è sta scritta quando ho lasciato andare la relazione con il papà del mio bambino e ho rinunciato a fare il secondo figlio. Quando l'ho scritta c'erano delle cose che non mi tornavano, non riuscivo a rendere questa idea di qualcosa che preme senza opprimere, come un momento di raccolta di tutte le energie che poi si liberano. Io cercavo questo verbo in italiano, premere non mi piaceva, pesante, ma non era una pesantezza, era un'altra cosa di sostanza, di spessore. In rumeno se îngreuneaza significa “s'appesantisce”, però anche diventare incinta, e rende bene l'idea, ma in italiano non riuscivo a trovare una soluzione possibile. Venne quasi da sé si aggrava, che non è la stessa cosa, ma mi uscì sia come associazione di suono (perché le due parole vengono dalla stessa radice latina) e poi mi sembrava che rendesse bene l'idea di una sensazione fisica che non pesa, ma da sostanza; stabile, ma leggera e morbida e richiama l'idea della gravidanza.Ed è un po' la cosa che cerco di fare io con le cose che scrivo. Tornando a quello che ci siamo detti in questi giorni sulla migrazione, sull'esilio….Ogni esilio ha le sue condizioni, ogni sradicamento ha le sue condizioni. Di sradicamento si può parlare a partire dalla migrazione, ma anche a partire dalla condizione di Emily Dickinson, di estrema solitudine, era anche lei una sradicata, eppure non si è mai allontanata dalla sua città, dalla sua casa. Non sono sradicati gli orfani o le persone che in qualsiasi modo escono dai parametri di “addomesticamento” della realtà? Da questa idea di sradicamento possono nascere, secondo me, tutte quelle relazioni che noi facciamo e tutti quei discorsi tra letteratura migrante, letteratura ad hoc … c'è uno sguardo estraniato, c'è uno sguardo sradicato nel momento in cui si incomincia a scrivere per creare un nuovo mondo. Per quanto realistica sia la scrittura di Francesca Caminoli, non è comunque il mondo vero, lei sta creando un mondo con le sue articolazioni interne perché lo vuole creare in quel modo, altrimenti ci basta il mondo reale, ci basta leggere il giornale e buonanotte. Io mi sono laureata con una tesi su Toni Morrison e lei è una donna profondamente radicata nella sua comunità, che riscrive la storia dell'afroamerica e ri-crea una identità, ri-crea un mondo come suppone che sia stato, ma perché sia nel presente la creazione di una nuova coscienza, di una nuova identità forte. La sua è un'operazione profondamente fantastica , non solo perché ci sono fantasmi, esseri sovraumani, gente che vola…ma anche se non ci fossero si tratterebbe sempre di un'operazione in cui l'immaginazione ri-fonda la realtà. La stessa cosa fa Nadine Gordimer che invece descrive con un'attenzione esagerata, che a mio avviso limita le sue potenzialità di artista, la realtà del Sudafrica del suo tempo. C'è una censura implicita (lei bianca) che si percepisce nei suoi libri, è come se dicesse in continuazione: “negri, non vi tradirò!”; ed è un'autocensura forte che si sente nella sua scrittura. In “ July's people ”, fa però un'operazione un po' diversa. Il romanzo narra di un'ipotetica rivoluzione armata che sarebbe seguita all' apartheid (prima che ci fosse stata l'apertura) in cui una famiglia bianca trova rifugio nel villaggio del proprio domestico nero che si chiama July e in questo luogo cambiano tutte le loro identità perché in quel momento diventano uno strumento contrattuale con cui July gestisce rapporti di potere all'interno del villaggio perché loro sono “gente sua” in quel momento… gli toglie le chiavi della macchina, anche con piccoli pretesti tipo la pericolosità, ma sta di fatto che da quel momento in poi diventa lui il padrone della macchina, sta di fatto anche che il padre di questa famiglia (madre, padre e due figli) non sa che cosa fare di sé stesso, è depresso, apatico. I bambini invece non hanno problemi, in tre giorni parlano già la lingua del villaggio e fanno inchini a tutti; la madre comincia ad entrare in relazione con le donne del posto e scopre un sacco di cose su sé stessa, che è in grado di portare dei fasci di legna, che è in grado di imparare a cantare le canzoni di queste donne e di provvedere al marito... Ecco, questa operazione di fantasia scardina la realtà creandone un'altra, mostrandone delle fondamenta più vere. La fantasia ha questa capacità di ri-fondare la realtà. Quello che diceva Jarmila Ockayová di reinventare l'italiano, la persona, non la lingua, beh si è giusto, perché una volta che si arriva con questo sguardo estraniato, si vede l'italiano in un certo modo. Io ho trovato, da questa impostazione mia di ricerca dell'intimità, di qualcosa che non fosse teatrale, il mio giudizio negativo (poi ci sono anche i giudizi positivi) sui rapporti italiani in genere, connotati da una sorta di ipocrisia. Sto parlando per comparazione ed è un giudizio che io ho sentito esprimere da tanti altri immigrati di provenienze estremamente diverse. Perciò si può presupporre che in questa comparazione multipla di istanze che vengono da tante parti si trovi il nocciolo. Questo nucleo duro si può trovare evidentemente solo in relazioni intrecciate. Ci sono poi moltissime cose che mi piacciono dell'Italia ed io sto cercando di prendere dalle une e dalle altre quello che meglio si adatta a me e di fonderlo in questa cosa morbida; non è una questione di competizione, ma di cose morbide che si compenetrano e si intrecciano formando una cosa nuova. Parlando del mio percorso interculturale, chiamiamolo così, posso dire che quella esperienza organizzata da Porto Franco, di cui parlava Julio all'inizio, è stata per me di grande importanza per la mia formazione. Allora ero una ragazzina che arrancava all'Università e mi trovai catapultata in questa avventura con trenta scrittori provenienti da tutto il mondo, qualcuno che viveva in Italia e qualcuno che non c'era mai stato prima. Imparai proverbi senegalesi, modi di dire cubani che poi sono entrati a far parte del mio universo lessicale e mentale. Per esempio recentemente da tre coppie brasiliane ho imparato la parola tesão , ma che parola meravigliosa! E in italiano non riesco a trovarne un sinonimo, c'è desiderio, ma non è la stessa cosa…Adesso questo mio amico italiano che si è lasciato dalla sua ragazza brasiliana usa questa parola mentalmente pensando ad un'altra donna, in un contesto totalmente italiano, la parola si è quindi andata ad aggiungere al suo vocabolario italiano! Questo è un esempio di qualcosa che trascende l'intercultura e diventa transcultura. Studiando antropologia all'Università ebbi la sensazione d'intimità con un'istituzione particolare dei nativi americani, l'istituzione della visione. Si tratta di avere un momento di…, non so se definirlo contatto con l'inconscio per usare termini freudiani. Ma mi rendo conto che la traduzione di questi concetti è una cosa che dobbiamo ancora fare, perché non lo sappiamo ancora in che modo sono in relazione i saperi di vita delle varie umanità. Perché io imparo che cos'è tesão rispetto al desiderio, solo nel momento in cui ho un'esperienza che me lo conferma. E allora che cosa sono le visioni? Sono contatti con l'inconscio? È bene che me lo dica qualcuno che è in grado di stabilire le relazioni tra le due dimensioni. E man mano che si stabiliranno le relazioni tra queste dimensioni avremo veramente un patrimonio culturale disponibile a tutti, ma non a tutti contemporaneamente, è impossibile che tutti siamo radicati in tutta la globalità, ma è bene che ci siano sempre le vie per arrivare. Ci sono due biologi, Maturana e Varela che hanno fatto degli esperimenti meravigliosi studiando la mappa delle attività cerebrali di frati in meditazione, buddisti in meditazione, artisti nel momento della creazione e hanno studiato le relazioni tra le varie attività cerebrali, vedendo ad esempio che una meditazione sul coraggio dei buddisti è comparabile all'attività di un pittore che dipinge un determinata quadro (un pittore francese di cui non ricordo il nome). Allora se quelle persone, almeno in un aspetto e cioè nell'attività cerebrale, stavano facendo la stessa cosa, dovremo capire perché è così! Adesso ho dei momenti in cui non ho propriamente delle visioni, cioè non ho tutto il radicamento culturale necessario ad avere una visione, ma ho dei sogni che so che sono particolarmente significativi ed imparare ad ascoltarli, avere la consapevolezza che almeno in certi contesti sono una cosa formalizzata e servono a guidare il percorso della persona, è una grande tranquillità! Tornando alle parole, queste sono belle e importanti e rimandano a mondi nuovi, ma hanno bisogno costantemente di essere ancorate alla vita e all'esperienza perché sennò perdono senso. Mi sembra che anche nella letteratura migrante, chiamiamola così, che era partita con questa forte spinta più di vita che di linguaggio, adesso abbia dei momenti in cui rischi di perdersi nel linguaggio. C'è questa linfa di vita che sembra mancare, questo succede quando si incomincia a scrivere in maniera più formale. Perciò io volevo iscrivermi un'altra volta all'Università e fare ostetricia! Perché è una cosa… di vita, reale, è un mestiere, io adesso non ho un mestiere! Sto finendo un dottorato in linguistica, ma che roba è questa qua che studia cose che tra cinque anni saranno diverse, proprio a partire dalla contaminazione dell'italiano con le altre lingue e anche perché le persone creano sempre sensi nuovi ancorati alla vita. Mi piacerebbe fare ostetricia perché mi piacciono i bambini, ma vorrei studiare i saperi della nascita in tante altre culture, per creare dei percorsi di conoscenza diversi. Sono proprio i punti tematici, ad esempio “come si fa a nascere”, che permettono di creare la transcultura, perché ci si pone un problema: la nascita in questo caso. Leggendo Lévi-Strauss ho trovato che in alcune culture alla madre che sta partorendo vengono raccontati i miti di fondazione della comunità che le danno la forza di partorire bene, qui in Italia ho sperimentato cosa significa trattare il corpo come un oggetto e scordarsi che dentro ci sta una persona! Nessuno all'ospedale ha voluto ascoltare cosa io sentivo nel corpo e sbagliarono tutto. Alle due di notte, vidi l'ostetrica di turno, una grossolana, dare uno schiaffo ad una mia connazionale che si stava lamentando e mi bloccai, il mio parto si interruppe lì, finché alle sette non ci fu il cambio del personale! Mi è risultato chiaro allora che una conoscenza medica del come si fa a far partorire non fosse sufficiente. È bene che si cerchi in altre culture quegli insegnamenti essenziali al trattamento psicologico della donna che si appresta a fare una delle cose più importanti nella sua vita. Dobbiamo prendere in prestito saperi da altri luoghi e popoli, chissà, magari se leggiamo una bella poesia alla partoriente questa riesce a rilassarsi di più! Ecco concluderei qua.
Julio Monteiro Martins : Mi ha molto commosso questa presenza della vita, del parto, questa pennellata di vita vera all'interno di una discussione più teorica. Una visita molto bella. Io ho conosciuto Livia più come scrittrice di racconti, ma noto che il suo legame più recente è con la produzione poetica, com'è il tuo rapporto tra la narrativa e la poesia?
Livia Bazu : È molto semplice, se ho delle cose da raccontare le racconto, quando ho delle cose da sentire le esprime in poesia. Per esempio, il racconto che nominava Julio all'inizio “ Arterie” l'ho scritto perché sentivo l'esigenza di raccontare ciò che avviene, soprattutto a livello relazionale, in quei locali dove di solito ci sono ballerine che fanno la lap-dance . Dopo aver fatto l'università e dopo l'esperienza di Porto Franco, mi rivennero in mente le serate da spettatrice passiva che ogni tanto facevo in quei posti e le rividi per quello che erano: lì c'erano il nord e il sud del mondo che si confrontavano e riducendo all'osso, uomini ricchi e donne povere. Uomini del centro e donne delle periferie. Quella è una realtà clandestina, clandestina per come è fatta l'Italia, perché è una realtà costruita proprio per permettere rapporti trasgressivi, però che non mettano in discussione l'ordinamento della società. Sono posti che servono in qualche modo all'uomo per mantenere la tranquillità delle loro energie e permettergli di continuare a fare i loro affari e a sorreggere matrimonio pseudo esistenti. Il tutto si basa, ne parlavo proprio in questi giorni con Mia Lecomte, su dei meccanismi di dipendenza che vengono a crearsi tra gli uomini e queste entreneuse . Le ragazze giocano con il desiderio, in trattative che non si spingono mai fino in fondo.
Julio Monteiro Martins : Una cosa interessante per capire le specificità della vita contemporanea, leggevo recentemente che tra tutte le variazioni sessuali nell'universo della prostituzione dei paesi sviluppati, quella più cara, la perversione più remunerata è la GFE , la Girl Friend Experience , l'amore platonico, un'ora guardandosi negli occhi bisbigliandosi cose dolci… e costa un occhio della testa, ci sono uomini che lasciano lì l'intero stipendio!
Alberto Chicayban : Io volevo fare una considerazione su quello che diceva Livia a proposito di una sorta di ipocrisia che ha riscontrato nelle relazioni con italiani. Penso la stessa cosa. Nel momento in cui ho cominciato a consolidare i miei primi rapporti in Italia mi sono reso conto di alcune cose essenziali: la prima cosa è stata la questione della formalità. Il formalismo è estremamente importante qua, la seconda cosa il buonismo, anche questo è qualcosa di assolutamente fondamentale, pervade tutto. E poi un'altra cosa da non ignorare è la questione dell'origine della persona, “chi sei tu?”, “di dove sono i tuoi genitori?”, no? La messa in scena di tutte queste cose ci porta molto vicini alla metafora operistica, dove c'è il buonismo, c'è la teatralità, c'è l'esagerazione gestuale e l'Italia è un paese dove gli aspetti non verbali sono di un'importanza enorme, però vengono rilegati a un piano inferiore rispetto alla parola, la parola è assolutamente fondamentale! Ad esempio le terapie con basi non nell'oralità, anche se nei paesi anglosassoni ci sono fior fiore di testi scientifici che mostrano l'importanza a livello ospedaliero clinico, di terapie come la musicoterapica, come il psicodramma, la biodanza….in Italia stentano ad essere considerate valide alternative alle cure classiche, gli specialisti italiani non credono nell'importanza di queste cose perché sono aggrappati alle parole.
Livia Bazu : Qui in Italia, succede che se uno dice qualcosa, qualsiasi cosa, è molto più naturale per gli italiani non crederci, cioè per gli italiani è scontato che ci sia il livello “di ciò che si dice” e si spandono parole su parole in conversazioni sociali. Noi facciamo molta più fatica a non prendere sul serio le persone quando ci dicono delle cose. Ci vuole un po' di tempo per capire come funziona questa rappresentazione teatrale che è la piazza italiana, lo stare insieme socialmente.
Marina Sorina : Il problema è che lo straniero non è avvertito di questa regola della menzogna implicita che tutti qui conoscono e condividono senza rendersene conto. Ogni cosa è evidentemente esagerata, quando dicono una bella donna, vai a vedere e si tratta di una bellezza mediocre, ma qualunque cosa deve essere ingrandita, proprio come nell'opera riprendendo ciò che ha detto Alberto, o meglio nell'operetta perché è anche abbastanza ridicola! Volevo dire un'altra cosa, la frase che per Livia ha significato l'intimità in Italia “povera stella!”, per me ha significato il contrario perché una volta in un bar di Verona ho visto un uomo al bancone che chiedeva supplichevole alla barista “dai, dimmelo ancora!” e lei “povera stella!” e lui insistendo “un'ultima volta!” “povera stella!”, cioè stavano recitando. Per me quella è stata un'immagine di emulazione dei sentimenti.
Livia Bazu : Chiudo con una cosa che si dice in Romania: “il rumeno è nato poeta e l'italiano è nato attore!” Julio Monteiro Martins :
Io ringrazio per aver rinnovato questo invito perché vengo sempre molto volentieri da Julio, spero da italiano di dire cose non troppo buoniste, è vero anche che sono stato accusato proprio di essere buonista e al che rispondo sempre “meglio che essere “cattivista”!”. A parte le battute ho capito il senso di quello che Livia e Alberto dicevano prima. Infatti nonostante noi italiani siamo famosi per la nostra gestualità, il grosso è per noi convogliato dalle parole, che hanno un peso che per chi viene da un altro paese può essere equivocato, ma alla fine si tratta di quello che gli americani chiamano “ culture of clash ”, e cioè c'è sempre uno scontro iniziale tra culture diverse prima di capire e sintonizzarsi sulle sfumature dell'altra. Invitandomi a questo incontro Julio mi ha chiesto di aggiornare il quadro delle letterature post coloniali in lingua inglese, francamente un impresa ardua sia per la ristrettezza del tempo che per le mie conoscenze! Comunque ci proverò. Dall'ultima volta che sono stato chiamato da Julio al seminario sono passati quattro anni (era il 2003, il 3° seminario). Ricordo in quella occasione di avere portato diversi testi poetici in lingua inglese - indiani, soprattutto, ma anche caraibici, filippini, ecc. - che trattavano varie problematiche connesse con la migrazione e che cercavano di illustrare come gli aspetti linguistici e intertestuali del linguaggio poetico rinnovavano e rinvigorivano l'inglese. È bello vedere che a distanza di anni è ancora tutto presente nel sito! In effetti a quel tempo traducevo soprattutto poesia, ed erano uscite da poco alcune antologie da me curate. Ora Julio mi chiede di parlare di cosa faccio adesso e in effetti, da allora sono cambiate alcune cose: intanto ho cominciato a tradurre molta più narrativa (ma sempre di autori generalmente riconoscibili e classificabili come post-coloniali). Parallelamente, da collaboratore che ero, sono entrato nella redazione di El Ghibli insieme a Gabriella Ghermandi, Kossi, Pap Khouma, Candelaria, Mia, Barbara, qui presente, e gli altri scrittori migranti, curando in particolare la sezione “Parole dal mondo”, quella che presenta testi di migranti in altre lingue. Ecco il mio collegamento con Brenda; io prendo i testi inglesi o di altre lingue e li traduco o li faccio tradurre. Brenda invece prende i testi italiani e li traduce in inglese. Adesso su El Ghibli alle mie traduzioni si affiancano sempre di più quelle dei tirocinanti del corso di specializzazione in traduzione letteraria dell'università di Pisa per i quali ho da qualche tempo avviato l'attività di tutor. Ovviamente si tratta sempre di racconti o poesie che affrontano il tema della migrazione, del confronto-scontro culturale, del displacement , del trauma e della memoria, della ricerca della identità. Insomma, per varie ragioni ho avuto modo di ampliare le mie letture sull'argomento e – pur senza essere un esperto o un teorico – di esercitarmi, come traduttore e revisore nell'arduo compito del trasferire letteratura tra due lingue e (almeno) tre culture. Volevo però partire, tanto per dare una continuità ideale con l'intervento del 2003, proprio da un testo poetico di Sujata Bhatt, una poetessa indoinglese che ho letto in quella occasione, una poesia che riletta adesso, mi pare illustrare in qualche modo la mia attività di redattore di El Ghibli con quella di traduttore di narrativa. La traduzione della poesia, uscita nel 2005 nel volume Il colore della solitudine per l'editore Donzelli, è di Paola Splendore, professoressa a Roma Tre: Vai ad Ahmedabad
Cammina per le strade di Baroda, vai ad Ahmedabad, respira la polvere fino a soffocare e ad ammalarti di una febbre sconosciuta ai medici. Non farmi domande perché non ti dirò nulla della fame e del dolore.
Ho imparato fin da bambina a non scacciare via nessuno dalla nostra porta. Mamma diceva di dare acqua fresca, cibo buono, niente che tu non mangeresti. Fame è quando tua madre anni dopo ti dice che il dottore in America la trova denutrita, ha le ossa fragili perché non c'era mai abbastanza cibo per i suoi figli, e per quelli delle donne che venivano alla nostra porta. I bambini vanno sempre sfamati. Fame è quando tua madre si ammala in America perché voleva che tu mangiassi bene. Fame è quando cammini per le strade di Ahmedabad e invece di distribuire monetine a tutti gli dai pomodori e cetrioli, e te ne torni a casa con la bocca che sa di foglie bruciate di eucalipto perché ti è andato via l'appetito. E tuttavia, non dico nulla della fame, nulla.
Ho amici dappertutto. Sono passati dieci anni questa volta. Qualcuno è morto. Qualcuno si è sposato. Qualcuno ha appena avuto un figlio. Prendo in braccio il bambino perché piange, perché ha il petto ricoperto di uno strano rossore. E l'amica mi dice Hai figli? E perché non li hai? Quando ti sposi? Poi arriva l'autobus affollato di gente aggrappata alle porte e ai finestrini. E suo figlio piange Tra le mie braccia, piange svegliando un vecchio che mi urla in faccia: come ho potuto ridurre mio figlio in questo stato? Proprio allora, per fortuna, qualcuno racconta una storia.
Ho amici dappertutto. Sono passati dieci anni questa volta. Dolore è quando vado in giro per Ahmedabad perché questo è il luogo che ho sempre amato questo è il luogo che ho sempre odiato questo è il luogo dove non mi sento mai a casa questo è il luogo dove sarò sempre a casa. Dolore è quando dopo dieci anni torno ad Ahmedabad e per la prima volta capisco che non sceglierò mai di vivere qui. Dolore è vivere in America e non essere in grado di scrivere neppure un maledetto rigo su questo. Non posso dirti niente del dolore, io.
Cammina per le strade di Baroda, vai ad Ahmedabad e gira intorno allo sterco di vacca ma non dimenticare di guardare il cielo. A gennaio è speciale, mai più vedrai simili aquiloni. Se ti riesce, conosci le persone e sei vuoi sapere qualcosa della fame e del dolore, vivilo su te stesso. Quando c'è un'epidemia, quando il dottore dice che presto tuo fratello potrebbe morire, che presto tuo padre potrebbe morire – non chiedermi come ci si sente. Non ci si sente bene. È per questo che facciamo il tè con le foglie di tulsi, per questo c'è sempre qualcuno che conosce una buona storia
Se allora mi colpivano in questa poesia esemplare del migrante - non a caso scelta di El Ghibli come epigrafe al manifesto programmatico della rivista - soprattutto il contrasto tra le strade poetiche della memoria (in quel caso l'India) e quelle prosastiche della realtà (l'America della quale “non si riesce a scrivere nemmeno un maledetto rigo”), oppure la felicità delle metafore, delle immagini, caratteristica per al quale la Bhatt è giustamente celebrata, oppure la consapevolezza di un “ritorno impossibile, ma artisticamente necessario”; oggi, invece, mi colpiscono in particolare due cose e proprio per questo mi sono messo d'accordo con Brenda per dare ai nostri interventi questo leit motiv , e cioè: l'incipit “cammina” e la chiusa “per questo c'è sempre qualcuno che conosce una buona storia”. Cominciamo dall'incipit. L'invito a camminare è a mio parere l'invito che la Bhatt dà a se stessa a ripercorrere le strade della memoria col distacco dello scrittore, di guardare la realtà con occhi obliqui, vergini, aggiungendo magari qualcosa di proprio, di giustapposto ad altri elementi, per superare la contingenza e per rendere inutile la domanda diretta, documentaristica: “come ci si sente?”, alla quale appunto, come dice la Bhatt , non può esserci alcuna risposta letterariamente valida. E sulla metafora del camminare torneremo oggi più volte sia io che Brenda. Del finale della poesia, poi, mi fa riflettere la considerazione che per parlare “della fame e del dolore”, per provare a scrivere “un maledetto rigo” non solo sulla realtà che si lascia, ma anche su quella che si trova, è necessario uscire “dal dolore e dalla fame”, dall'emozione vissuta e sofferta e inventare una storia “per questo c'è sempre qualcuno / che conosce una buona storia”. Farsi scrittori, dunque. Che è come dire reinventare la realtà secondo paradigmi nuovi, ibridi, originali, inconsueti che permetteranno una risposta metaforica, esteticamente ed eticamente giustificata. Che poi è in essenza, credo, quello che ha detto prima anche Livia Bazu. L'esperienza di questi anni di traduttore (altro camminatore-osservatore sulle strade della letteratura) mi dice che migliore è la storia che c'è dietro, più efficace e memorabile è la rappresentazione della realtà e, in ultima analisi anche la necessità etica dell'opera. Sempre per seguire il filo di “camminare nelle storie” (e per schierarmi, come diceva prima Julio, dalla parte di chi crede che molte cose debbano ancora essere scritte) vi voglio parlare brevemente di due libri che ho tradotto di recente per Einaudi, entrambi romanzi che possono rientrare perfettamente nella categoria del post-coloniale, si tratta di “ Transmission ” di Hari Kunzru e di “ Mr Pip ” di Lloyd Jones. Dicevo che possono rientrare nella categoria del post-coloniale, ma anche – volendo – in quella del post-moderno, in quanto, come dice la giovane e ricercatrice di origine russa Viktoria Tchernichova nel suo recentissimo Postmoderno e Postcoloniale, Percorsi del senso in Byatt, Thomas White e Rushdie uscito per ETS Pisa: «sia il postmoderno che il postcoloniale sono categorie basate su elementi di metanarrativa, riscrittura, contaminazione di generi e linguaggi», tuttavia, continua la Tchernichova , “l'epigonismo del postmoderno ha ben poco in comune con le strategie originali di scrittura che caratterizzano la visione postcoloniale. Così, le nozioni postmoderne di arbitrarietà di significato e di debolezza di identità sono scarsamente rilevanti all'interno del progetto postcoloniale. Se i testi postmoderni sono contraddistinti da un'indifferente assenza di modelli e valori, da un gioco di prospettive tutte egualmente possibili, in base alla impossibilità di accedere ad una qualunque verità, nei testi postcoloniali i ‘concetti del male' sono riconoscibili all'interno di una costante ricerca di modi per comprendere il mondo, e una forma di passione civile contrasta il solipsismo e il nichilismo postmoderni con una vena recuperativa che guarda alla comunità degli uomini. Laddove i testi postmoderni si presentano come un trionfo del pastiche e sono governati dall'immagine della deriva, la narrativa postcoloniale ricorre piuttosto a digressioni e giustapposizioni, ed è dominata da “ crossing of borders ” (oltrepassare i confini) – la metafora più innovativa di questa produzione letteraria”. Ecco dunque i due romanzi, che a mio giudizio incarnano perfettamente questa definizione. Vi riporto rispettivamente la “quarta di copertina” e la “scheda sinottica per i librai”, due esempi di generi letterari minori, ma indispensabili per la promozione del libro e che sono sempre più spesso parte integrante - e non riconosciuta - del lavoro del traduttore: Partiamo da Transmission (in italiano La danza di Leela , Einaudi 2007):
“Arjun Mehta è un bravo ragazzo indiano, un programmatore appassionato di film popolari, impacciato con le ragazze, ma assai capace nel suo lavoro. Quando ottiene da un'agenzia specializzata in lavoro interinale un contratto per emigrare a Silicon Valley, pensa che sia giunto il momento di realizzare il suo sogno americano. Ma la realtà si rivelerà più dura del previsto. Nella terra delle occasioni per lui non c'è posto. La grande balena aziendale prima lo fagocita, poi lo espelle come un oggetto estraneo. In preda all'horror vacui di tornare a Dehli sconfitto e a mani vuote, veste il “cappello nero” dell'hacker e crea un virus informatico dedicato a Leela Zahir, la sua preferita diva di Bollywood, per convincere la società di per cui lavorava di essere insostituibile. Se solo lo avessero ascoltato, non sarebbe finito braccato dai fanatici dei giochi di ruolo e dall'FBI. Se avessero saputo apprezzarne l'autistico talento, la sua vicenda non avrebbe così pesantemente influito sulla vita di tante altre persone, tra cui, rovinosamente, su quella di Guy Swift, pubblicitario emergente e aspirante “uomo che conta” dell'Inghilterra affluente e modaiola, intento a ridisegnare il look della nuova Europa post-Schengen. Ma quando il video con l'agile figurina di Leela Zahir s'impadronisce degli schermi di mezzo mondo, la reazione a catena delle conseguenze sarà rovinosa... fino all'inopinato finale. Una favola agrodolce sull'Internet age, un'allegoria sarcastica e paradossale del mondo globalizzato. Una storia scintillante, ricca di humour, che ha nel sincretismo e nel contrasto culturale, serviti da un grande funambolismo linguistico, le armi migliori. Una distopia buffa in cui ognuno, nell'era delle comunicazioni, si ritrova solo e sradicato, in balìa del proprio solipsismo e dei bit ormai fuori controllo. Un romanzo perfettamente costruito e genuinamente crossculturale, una storia neo-postmoderna, esemplare di questo inizio millennio.” Siccome l'idea era partire da quel verso “cammina”, vediamo una pagina di Arjun Mehta che si trova in California nei suoi primi giorni e scopre con angoscia che nella immensa periferia di Los Angeles se non hai una macchina sei un disgraziato.
“Una sagoma, un uomo che cammina, si trascina lungo il margine di un'ampia superstrada californiana. Un piede dopo l'altro, ogni passo lo porta un po' piú vicino al punto, segnato da bassi muretti di cemento, dove finisce l'area del fastfood Taco Bell e inizia quella di Staples, articoli per ufficio. Oltre Staples, c'è un Wal-Mart, e dopo il Wal-Mart, un raccordo stradale. Al di là del raccordo, forse a tre isolati, un'altra mezzora di cammino, c'è un minuscolo centro commerciale con un take-away thailandese, una lavanderia a secco e un minimarket, la meta agognata di quel pedone. Chiunque vada a piedi nella California suburbana non può essere che una di queste quattro cose: un povero, uno straniero, un malato di mente, o uno che fa jogging. Quella persona, la cui magra struttura quasi si perdeva dentro una sudicia maglietta degli Oakland Raiders, si muoveva troppo piano per essere un podista. Appariva teso, privo di certezze. Emanava sconfitta col sudore. Se le brave mamme borghesi che sfrecciavano coi loro gipponi si fossero accorte di lui, avrebbero registrato solo una sfocata visione di pelle scura, la spia di un pericolo minore che balenava nella loro visione periferica. Per il camminatore le mamme borghesi erano piú cosmologiche che umane, bagliori di proiettili che lo superavano in un rapido effetto doppler di rumore e diossina, aliene e indifferenti come stelle. Si fermò un attimo a sbirciare la strada davanti a sé, trafitto da un sole spietato. Gli spiazzi di cemento crettato si riducevano a uno stentato nastro di spazio pubblico, una specie di marciapiede che si estendeva davanti a lui in un luccichio di schegge di parabrezza sfondati. Al confine tra Taco e Staples si fermò di nuovo, stavolta per armeggiare col suo Walkman, un aggeg gio di plastica nera di poco valore appeso ad auricolari rivestiti con spugnette sudice: un riproduttore audio da barboni, quel tipo di apparecchi che gli emarginati tengono a tutto volume nel tentativo di soffocare le altre voci. Sostituí le pile, districò il filo delle cuffie e proseguí.”
Questa è la descrizione di una camminata che dimostra davvero come il camminare in un ambiente estraneo possa essere alienante e poi ci sono questi connotati descrittivi interessanti che tratteggiano il camminatore come un pazzo o un emarginato, lo stesso walkman invece di un iPod. Insomma già capiamo da questo modo di raccontare e da certi particolari che i sogni di Arjun in America ben presto sfumeranno e lasceranno spazio alla realtà dello sfruttamento. L'altro romanzo, di cui vi leggerò qualcosa adesso, è un rovesciamento per tanti aspetti di questa situazione. Si tratta, come vi avevo detto, di “ Mr Pip ” di Lloyd Jones; questo è un autore neozelandese, del '55, (non giovane come Hari Kunzru che è del '69), e pubblica, ormai è al suo decimo libro, solo in Oceania, Nuova Zelanda, al massimo Australia. Questo romanzo invece è stato acquistato subito a fior di anticipi profumati perché ha in sé le caratteristiche di una storia che può interessare. Vi leggo la scheda sinottica.
“Nei primi anni Novanta del secolo scorso sull'isola di Bougainville nel Pacifico scoppia una lunga e sanguinosa guerra civile. I ribelli indipendentisti chiudono la grande miniera di rame gestita dagli australiani e costringono alla fuga tutti i bianchi che si erano stabiliti là (ingegneri minerari, commercianti, insegnanti, ecc.). Per ritorsione, il governo di Port Moresby (Papua Nuova Guinea) impone un durissimo stato d'assedio che costringe gli abitanti dell'isola a una vita di pura sussistenza. Tutti i bianchi sono partiti tranne uno, Mr Watts, uno strampalato avventuriero neozelandese ex-attore di teatro, che sceglie di restare a vivere in un minuscolo villaggio sulla costa insieme a Grace, la moglie indigena conosciuta in Australia. Watts – che gli abitanti del villaggio chiamano col nomignolo di “Occhi a palla” - resta una figura eccentrica e curiosa, aliena e distaccata rispetto alle dinamiche sociali della piccola comunità, finché non decide di “prendersi carico” della scuola locale, chiusa da tempo dopo la partenza dell'ultima maestra. Watts si dimostra un insegnante sui generis , i cui metodi poco ortodossi, tuttavia, riescono a catturare l'interesse dei ragazzini locali. Il suo originale approccio didattico si fonda sulla lettura, un capitolo al giorno, del “miglior romanzo del più grande scrittore dell'Ottocento”, cioè Grandi Speranze di Dickens. Il “Mr Dickens” e Pip, il protagonista del romanzo, resi vivi e reali dalla voce coinvolgente del carismatico Watts, diventano per i ragazzi del villaggio dei punti di riferimento insostituibili, una necessaria via di fuga rispetto alla realtà di violenza e di paura che stanno vivendo. La vicenda di Pip, in particolare, dimostra loro che la vita può cambiare all'improvviso, che esistono le svolte nel destino e che affermare che le “speranze”, grandi o piccole che siano, sono le ultime a morire non è affatto un'ovvietà. Le lezioni di Mr Watts prevedono anche il coinvolgimento degli adulti del villaggio (genitori, zii, nonni) che, a turno, sono invitati in classe a parlare di “quello che conoscono”, rivelando l'essenza della loro cultura indigena, in bilico tra saggezza pratica e superstizioni. Particolarmente coinvolta dall'approccio di Watts è Matilda (l'io-narrante del romanzo), una ragazzina dodicenne intelligente e sensibile il cui padre è emigrato in Australia poco prima della guerra civile e la cui orgogliosa madre, Dolores, devota coordinatrice di un gruppo di letture bibliche, è una simpatizzante dei ribelli. Quando Dolores viene invitata in classe a fare il suo intervento, mostra chiaramente il suo fastidio per l'infatuazione di Matilda per Pip, e successivamente non perderà occasione per esprimere la sua ostilità verso un libro che può diventare un pericoloso e immorale concorrente dell'unico Libro che è necessario leggere, vale a dire la Bibbia , introdotta sull'isola molti anni prima dai missionari tedeschi. Notizie della presenza di Pip (“più reale della realtà”) giungono all'orecchio dei soldati di Port Moresby, i “pellerossa”, che vengono al villaggio per mettere le mani su quello che credono essere un presunto ribelle. Watts-Dickens potrebbe facilmente sciogliere l'equivoco dimostrando che l'esistenza di Pip è unicamente letteraria, se non fosse che Dolores, nottetempo, aveva trafugato e nascosto la copia di Grandi speranze , rifiutandosi di ammettere il suo gesto. L'unica altra persona al corrente del fatto, Matilda, tace per non tradire la madre, teneramente amata malgrado, ai suoi occhi, fosse il capo della “parte avversa”, quella cioè ostile a Watts. La conseguenza è che gli ottusi soldati prima fanno un falò con tutte le suppellettili e gli oggetti personali della comunità, poi, in una seconda incursione, incendiano tutte le abitazioni (a eccezione dell'edificio scolastico, di proprietà governativa, e la vecchia missione dove vivono i Watts). Dopo vari sospetti e incomprensioni seguiti ai due raid, due fatti contribuiscono a rinsaldare il rapporto tra il maestro Occhi a palla e la comunità: la morte per malaria di Grace, e la riapertura della scuola. In mancanza del libro andato in fumo, Watts decide di proporre agli allievi di ricostruire la storia dickensiana a memoria, scrivendo i vari frammenti su un vecchio quaderno scampato al rogo. Adesso che nessuno possiede più nulla, se non l'aria da respirare, la frutta e i pesci del mare, la ricostruzione dell'Inghilterra vittoriana appare a maggior ragione qualcosa di indispensabile e vitale, soprattutto se mediata attraverso la realtà quotidiana (e le condizioni storico-geografiche) in cui vivono i ragazzi, in una specie di grande metafora postcoloniale. La storia poi conosce la sua tragica svolta: dopo l'arrivo al villaggio dei brutali “rambo”, i ribelli locali, e la loro graduale assimilazione nella vita quotidiana della comunità, abitudine alla narrazione compresa, il villaggio diventa la scena di un terribile e sanguinario rastrellamento in conseguenza al quale entrambi gli adulti antagonisti vanno incontro a un'analoga fine eroica e orribile. Watts muore per difendere Pip e la propria identità bianca, Dolores per difendere l'adorata figlia dalla violenza dei “pellerossa”. Matilda, benché straziata dal dolore, riuscirà a trovare la forza di ricostruirsi la propria vita, a trovare, come Pip, il filo delle proprie opportunità, prima ricongiungendosi al padre in Australia, poi cercando – come una detective – di mettere insieme i tasselli della misteriosa vita del proprio mentore Watts e della moglie indigena Grace; infine facendo un viaggio in Inghilterra alla scoperta dei luoghi dickensiani, in una specie di finale quadratura del cerchio. Le vicende di Pip, la sua e quella del signor Watts si fondono in una storia unica (che è poi questo stesso caleidoscopico romanzo) che Matilda, adesso laureata in letteratura inglese dell'Ottocento, sceglierà di presentare come tesi di dottorato al posto di un dissertazione teorica, convinta che niente sia più esplicativo ed esemplare della sua vicenda vissuta.” Mi piaceva leggervi la parte iniziale per far capire come questo io narrante, che è una bambina di dodici anni vede questo personaggio così straniero e alieno a lei. Tra l'altro l'epigrafe di Mr Pip è una bella citazione di Umberto Eco “ I personaggi migrano ”.
“ Lo chiamavano tutti Occhi a palla, e già allora, da tredicenne pelle e ossa, ero convinta che lui sapesse di quel soprannome, ma che non gliene importasse nulla . I suoi occhi erano troppo interessati a quello che gli stava davanti per far caso a noi ragazzini scalzi. Aveva l'aria di chi ha visto o provato tanto dolore e non è mai riuscito a scordarlo. Quei grandi occhi gli sporgevano dal testone più che a chiunque altro, come se volessero staccarsi dalla superficie del viso. Facevano pensare a uno che ha una fretta indiavolata di andarsene. Occhi a palla portava tutti i gio rni lo stesso abito di lino bianco, e nel calore appiccicoso i pantaloni gli s'impigliavano ai ginocchi ossuti. A volte si metteva un naso da pagliaccio. Il suo era già abbastanza grosso, che bisogno aveva di infilarci sopra una lampadina rossa? Ma per ra gio ni a noi sconosciute si metteva il naso finto solo in certi gio rni che forse per lui erano speciali. Non lo vedevamo mai sorridere, e quando aveva il naso da clown, veniva da girarsi dall'altra parte perché non si era mai visto nulla di più triste. Tirava un pezzo di corda attaccato a un carretto, e sopra c'era la signora Occhi a palla. Pareva la regina del ghiaccio. Nella nostra isola quasi tutte le donne avevano i capelli crespi, ma Grace se li era lisciati. Li portava impilati sulla testa, e in mancanza della corona, erano i capelli a fare scena. Aveva l'aria altezzosa, come se non avesse idea di essere scalza anche lei. A vederle quel sederone enorme c'era da preoccuparsi per l'asse del water. Veniva da pensare a sua madre, al parto e altre cose del genere. Alle due e mezza del pomerig gio i pappagalli appollaiati nel fitto degli alberi guardavano dall'alto in basso un'ombra umana lunga un terzo più delle altre. Erano soltanto in due, Occhi a palla e signora, ma sembrava una processione.”
Io mi fermerei qui e lascerei la parola a Brenda.
Brenda Porster : Siamo quasi alla fine di questo seminario ed io purtroppo non sono potuta esserci nei giorni precedenti, in verità non so nemmeno in che veste sia stata invitata visto che non ho nessuna pretesa di essere una teorica della letteratura migrante in Italia, sono solo un pochino praticante. Vorrei darvi oggi qualcosa che avesse un valore, cercherò di riallacciarmi a quello che è stato detto da Andrea Sirotti prima e leggerò dei testi perché alla fine quello che può essere interessante è avere un pochino di “testualità”. Infatti più vado avanti e meno mi piace parlare della letteratura, credo sia più importante mostrarla che parlarne. L'ultima volta che sono venuta qui da Julio sapevo che avevo qualcosa di valore da trasmettere perché ho parlato delle poesie americane che hanno avuto una fioritura molto spontanea su tematiche contro la guerra (era l'anno dell'occupazione dell'Iraq) e questo mi sembrava un fatto di notevole interesse. Oggi vorrei parlare del mio rapporto con il bello e come si rapporta alla mia esperienza di immigrata. In un certo senso forse io rappresento il contrario del personaggio del romanzo dell'autore indio-inglese Hari Kunzru di cui ci ha parlato Andrea. Il ragazzo Arjun si trova a camminare in questa periferia della California del sud totalmente spersonalizzata, io ho fatto il cammino inverso, come studentessa statunitense giovane che ha deciso di migrare verso l'Italia per una serie di motivi che hanno a che fare con quello che succede quando si cammina. A quell'epoca, più di trent'anni fa, camminando per la città di Firenze mi innamorai della bellezza. Il rapporto di cui voglio parlarvi io, non centra propriamente con il senso di intimità di cui ci ha parlato stamattina Livia, ma si tratta del rapporto con il paesaggio e con l'urbanistica. Quando venni per la prima volta in Europa quello che per me era molto importante era che ciò che aveva fatto l'uomo era bello e stavo bene nel paesaggio naturale. Si dice, ed è quasi un luogo comune, che le persone anglofobe sono incantate dalla Toscana proprio perché si sentono bene in questo rapporto tra paesaggio naturale e ciò che ha costruito l'uomo. Invece viaggiando negli Stati Uniti molte volte c'è un paesaggio bellissimo, ma che la mano dell'uomo ha imbruttito. Purtroppo oggi penso che le cose stiano cambiando in peggio, si assiste a una americanizzazione, camminare nella città di Firenze è un'esperienza estremamente difficile e quasi sempre spiacevole, quasi una corsa agli ostacoli. Anche se Firenze è stata concepita per essere un'enorme area pedonale, non ci sono piste viabili, questo rende molto difficile il camminare in una grande città oggi in Italia. Torniamo al nostro leit motiv , cosa vuol dire camminare? Perché camminiamo? In che direzione? Volevo cercare di ritrarre il camminare nel presente del migrante dentro la sua nuova realtà. Ho raccolto a questo proposito un paio di esempi da cose che ho tradotto per El Ghibli dove ho il piacere di lavorare da ormai due anni. Dunque ho selezionato un bel testo di Mohamed Akalay che si intitola “ Nei vicoli medievali di Perugia ”. L'autore è nato a Tangeri nel 1944 ed è venuto in Italia per fare l'Università. Si è laureato in Scienze Politiche a Perugina nel 1972. Scrive romanzi a sfondo politico e sociale come anche poesie, inoltre dipinge e scolpisce e ha fatto diverse mostre. La poesia che vi leggo è presente nella raccolta “ Ombre nascoste ” “ Hidden Shadows ”. Nei vicoli medievali di Perugia
Tra oziose ombre e consumate pietre Il tempo spaventosamente risucchia Nettare ai sogni L'esilio ha rudi e schiaccianti regole Salva dalla grandine Sparpaglia il raccolto So che non devo né scegliere Né pretendere Devo solo e solo accettare prendere o lasciare Scorrere la mia giornata Fino ai confini con la notte che Attonita mi scaraventa Nel brulicante serpaio della solitudine In questa poesia abbiamo questo tempo che risucchia nei vicoli medievali e il camminare della solitudine, un po' un “rispecchiamento” all'inverso di ciò di cui ha parlato Andrea e la cosa in comune è questo senso dell'estraneità. Ora volevo leggervi un pezzetto di un racconto di Saidou Moussa Ba , scrittore che è nato a Dakar nel 1964 ed è in Italia dal 1988. Apro una parentesi, nella letteratura migrante mi sembra di trovare molto spesso degli artefizi stilistici, a volte c'è una ingenuità stilistica da parte di questi autori e altre volte invece (mi sembra il caso di questo libro) c'è una ricerca anche esagerata dello stile e una trascuratezza dei contenuti. Vi leggo. “Modou aveva fatto una lunga e veloce passeggiata lungo il naviglio; egli era vestito come un cavolo, canottiera, camicia e maglietta di lana, un giubbotto. Sentiva ugualmente freddo e il suo raffreddamento peggiorava continuamente. Non riusciva a rivedere la bellezza del Naviglio, quel Naviglio che d'estate egli vedeva sotto un duplice aspetto. Specialmente di notte. Vedeva i barconi che viaggiavano. Sull'acqua c'erano le luci che si riflettevano e sembrava che la stessa acqua si muovesse. Le persone si rinfrescavano con acqua, bevande varie che sembravano rinvigorirle, dar loro la vita in quell'ambiente pieno di luci, colori e calore. Era un'acqua molto generosa. Era questo il Naviglio vivo. Ma c'era un altro Naviglio dopo il benzinaio, dopo il semaforo che era una parte morta. Anche l'acqua era morta. Si vedeva e si sentiva il puzzo della decomposizione e della periferia. Di tanto in tanto si vedeva la pattuglia dei carabinieri o della polizia. Era un naviglio senza anima.” È interessante notare il rovesciamento urbanistico che esiste tra le città americane, dove di solito il centro è sinonimo di degrado umano e architettonico ed invece le periferie , i suburbs , sono ben curati, borghesi, e la realtà italiana dove sono le periferie delle grandi città , in questo caso Milano, che diventano il luogo dell'emarginazione e dello squallore. Il cammino del protagonista Modou è un allontanamento dalla bellezza in direzione della periferia. Sempre restando in tema avevo portato una mia poesia che parte da questo mio camminare a Firenze su questi pavimenti duri, in questa città di pietra, al centro, dove da poco sono tornata a vivere, prima ho vissuto un lungo periodo in semi-centro e poi in campagna, adesso sono di nuovo al centro e sola. Vi leggo.
marciapiedi I ora dopo ora passata le scarpe pestando questi marciapiedi in esse risiede la memoria il tempo dunque non è dura sedimentazione strati colorati di giallo, verde, rosa canyon della mente
lo sento il tempo, liquido, scorrere tra le dita le onde mi coprono la testa una marea imprevedibile, forse indesiderati i suoi ritorni
lì di fronte è il palazzo dove ho tenuto le prime lezioni i capelli lunghi sulla schiena in questa via torta ho vissuto un mese con lui che sarebbe stato il padre dei miei figli e qui la fermata dove anni dopo sono scesa per andare incontro al desiderio
II ho sentito dire da una che la memoria l'aveva perduta il tempo è un nulla tra due nulla il presente un punto uni-dimensionale immateriale il passato non esiste più il futuro non è ancora ma io mi chiedo se verrà di nuovo il tempo della piena, l'attimo pregno di presente Il mio è un camminare del migrante a ritroso, nel presente della città. Poi c'è un'altra poesia che non parla tanto di cammino quanto di piedi, ma alla fine il campo semantico è lo stesso, e fa parte di un percorso poetico che sto cercando di formare, una serie di poesie che hanno a che fare con le varie ore della giornata. Volevo correggere Julio, non è vero che scrivo in italiano da tanto tempo, in verità è da poco e ho ancora tante incertezze. Continuare a scrivere in inglese, ma in isolamento era diventato problematico per me. Ora scrivo un po' in entrambe le lingue, adesso magari sarà Andrea che mi tradurrà in inglese!
metà mattinata
metà mattinata davanti al computer, le dita che compiono il loro dovere, stirando un po' il collo a destra riesco a vedere cespugli in fiore sul tetto di fronte quando la musica Klezmer dal Real Player infrange il presente con pezzi di danze matrimoniali solleticando i piedi che prendono a salterellare per conto proprio ricordando melodie e parole e ballando con il rebbi come io con il babbo e la felicità di lisciare il 3-step tra le sue braccia salde -- devi solo lasciarti andare --
e la mamma che le cantava dal sedile dietro (perché io m'ero guadagnata il privilegio del posto davanti per via della mia propensione a vomitare) con voce intonata ma anche un po' rauca, era tutto un sorriso allora
sento sillabe grasse come strutto di pollo, melodie da corde di violino estatiche come le danze dei chasidim negli shtetl scomparsi ma vivi negli occhi d'un nonno novantenne, incantati ricordando l'Odessa dell'infanzia -- la più bella città del mondo: di notte è tutta illuminata --
e mi ricordo il futuro quando rammenterò la mamma che canta e non sarà più, come i balli del babbo e gli occhi luminosi del piccolo nonno, la mia storia che sale dai piedi
Julio Monteiro Martins : Brava Brenda. Vorrei fare un'osservazione sulla lettura di Andrea legata alla questione dei non luoghi. Mi sono sembrati molto interessanti parlando di post-moderno questi spazi fisici, questi marciapiedi, ma anche parlando di Firenze la città di pietra; insomma sempre l'essere umano smarrito in un non-luogo e che secondo me non è solo un non-luogo geografico, ma è un non-luogo esistenziale. Cioè questi spazi, come gli aeroporti, le città deserte, i supermercati sono anche spazi interni e quando Brenda in una sua poesia molto bella parla del passato come un tempo che non esiste e il presente che è immateriale, e il futuro che non è ancora arrivato, anche quei tempi sono non-luoghi. Questo quadro è un'incompatibilità intrinseca tra l'esistere dell'uomo e lo spazio, il non-spazio dove dovrebbe “esercitare l'esistenza”. Questa mi è sembrata l'idea forte presente in tutti i testi letti da Andrea e Brenda. Ora, visto che la mattinata è affollata di interventi e sono già le 12,50 proporrei di chiamare Eva Taylor e di aprire le discussioni successivamente. È un piacere avere tra noi Eva, che è una scrittrice nata in Germania, sposata con un inglese e residente a Firenze. Io l'ho conosciuta poco tempo fa in verità e lei in quell'occasione mi ha regalato il suo libro di poesie e subito mi ha colpito quello che potrei chiamare il coraggio poetico. Eva usa le idee della bocca, dei denti, della gola, della lingua e della igiene orale come metafore fortissime, viscerali della condizione umana. Questo coraggio è un elemento che ammiro molto nella letteratura, cioè questo non fare concessioni ad un sorta di estetica superficiale stereotipata, ma andare al cuore delle cose. La visione dell'uomo che viene fuori a partire da queste poesie è una visione molto potente, a volte drammatica e disperata. Ringrazio ancora Eva Taylor e le passo la parola.
Grazie a Julio, grazie a voi che avrete la pazienza di ascoltarmi oggi. Julio l'ha già detto, in questo piccolo libro di poesie “ L'igiene della bocca ” la questione linguistica è in primo piano, ma la questione linguistica è anche l'inizio dal quale nasce la mia scrittura in generale non soltanto come tematica, ma proprio come correlazione simbolica. Perché questo? Perché appunto la situazione bilingue o plurilingue spesso viene dipinta come una situazione bella, di arricchimento, di apertura all'identità cosmopolita europea e senz'altro questo è vero, ma siamo di fronte a una costruzione teorica, il plurilinguismo è anche una condizione di tensione, di mancamenti espressivi a volte. Dunque io mi sono concentrata sugli aspetti negativi anziché su quelli positivi. Sono tedesca e l'italiano e il tedesco sono due lingue, come tutti sanno, molto diverse, anche perché il tedesco è una lingua che porta con sé un valore simbolico negativo inerente la storia del ‘900. Spesso anche nell'apprendimento della lingua ci sono problemi correlati alle sovrastrutture concettuali legate al tedesco. È chiaro che non tutti i parlanti percepiscono questa presenza simbolica e probabilmente non è un elemento forte quando si va all'estero, ma io nella mia storia individuale ho un nodo esistenziale che mi fa sentire sempre questa valenza di lingua difficile, o comunque appesantita dal suo passato. Ciò è dovuto al fatto che la mia famiglia è sfuggita dall'Est prima del muro e quindi lo strappo esistenziale l'ho vissuto da bambina e tutta la mia infanzia si è creata intorno a questo racconto della fuga. La mia migrazione dalla Germania all'Italia non è quindi un fatto tardivo, ma la migrazione per me parte già dall'infanzia. Dicevo, il tedesco come lingua madre è una lingua difficile, a volte l'ho chiamata lingua matrigna perchè non da quella culla in cui uno può riposarsi. L'incontro con l'italiano è stato invece un incontro felice perché l'italiano per certi versi rappresenta il contrario a livello ritmico, melodico del tedesco. Ho chiamato, in un saggio che è stato pubblicato in Sagarana , questo concetto di lingua matrigna anche con l'espressione “estraneità nella lingua”. Abbiamo parlato prima di estraneità, cioè la sensazione di un migrante di essere un estraneo, io appunto mi sentivo estranea nella mia propria lingua madre quindi una situazione un po' opposta a quella consueta e l'italiano mi ha dato la possibilità di raccontare alcune storie ed episodi che in tedesco non avrei avuto la possibilità di dire a causa della mia costernazione verso il mio simbolico linguistico. Vi leggo due esempi di queste prime poesie che ho scritto utilizzando l'italiano come lingua espressiva che liberava un potenziale che in tedesco non era possibile.
La casa del nonno
Nei muri le crepe le finestre spalancate sul prato il bianco delle oche il tiglio piantato quel giorno.
Sento il racconto degli ultimi anni le notti senza sonno e le lettere i viaggi, le attese e la rabbia.
Io guardo ma tu sull'altro lato della strada in questo luogo dove sei nato non torni più per una virgola di legge messa a Mosca firmata a Berlino.
L'ombra del tiglio abbraccia noi due ma tu non ti riposi ed io ne sfuggo. Questa poesia racconta appunto in poche righe la storia della casa di mio nonno e il momento storico connesso a questa storia. Nella prossima poesia che vi vorrei leggere, che comunque riprende sempre certi aspetti della storia tedesca, succede qualcosa di interessante e cioè, quello che scrivendo in italiano è venuto sempre più fuori nella mio opera, il contatto fra queste due lingue. Contatto che veniva sempre più fuori anche alla superficie linguistica nel senso che incominciavo ad immettere naturalmente nei testi in italiano parole in tedesco. La poesia si intitola “ Trümmerfrauen ” e sono le donne che hanno lavorato alla rimozione delle macerie dopo la seconda guerra mondiale.
Trümmerfrauen
Sono Gerda. Quando hanno costruito la torre gli avevo detto: non andare troppo in alto la sua ombra toccava le stelle. Non ho più saputo nulla. Per anni alla radio hanno letto il suo nome e quello degli altri ogni lettera un colpo contro una pietra ogni nome un suono di polvere.
Il mio nome è Käthe. Quando è crollata la torre sono rimasta a letto con i miei figli dal quinto piano siamo caduti giù insieme alle fiamme frantumato il libro di fiabe e le mani che lo tenevano. A quelli che ci hanno trovato ho detto copriteci di pece copriteci di ciclamini rossi.
Mi chiamo Helga. Ho cercato tra i mattoni della torre anima per anima sbriciolata le ho mescolate con il silenzio. Ho visto il loro tempo in una scheggia di specchio l'ho visto scorrere goccia a goccia colare dalle tempie tra le mie mani granelli d'argento sulle macerie.
Abbiamo preso i pezzi della torre li abbiamo lavati, asciugati, stirati la notte quando il tempo scivola via le pietre sussurrano: Sei ruhig, bleibe ruhig, mein Kind . Ecco, le ultime parole sono di una poesia di Goethe, “ Erlkönig ” “ Il re degli Elfi ” e sono (come il titolo del resto) una sorta di ricongiungimento col tedesco. L'esperienza di scrittura in lingua straniera ha fatto in qualche modo rifiorire il tedesco. Julio l'ha già detto, io sono sposata con un inglese e questo in qualche modo ha complicato la situazione linguistica, ma ha anche distanziato questa contrapposizione e è nato questo strano ciclo di poesie che si intitola “ L ' igiene della bocca ”, in un'occasione molto particolare. Ho scritto un testo a proposito e ve lo leggo.
Un giorno nella sala d'aspetto del dentista trovo un libro dal titolo “ La vostra bocca ”. Sono subito attratta dal titolo e incomincio a sfogliarlo: immagini impressionanti, anche orribili di malattie e patologie orali vengono descritte con un linguaggio tecnico a me quasi incomprensibile. Eppure c'è qualcosa che mi affascina e chiedo al dentista, che è una dentista, di darmelo in prestito. Da qui nasce il viaggio nella bocca, in primo luogo nella mia bocca, che sento come cava inquietante, e la esploro con una luce che coglie immagini come la macchina fotografica in un reportage. Ognuno di questi scatti è una poesia. Oppure registro il rumore della bocca, che tra movimento dei denti e della lingua cerca di produrre suoni, parole sconnesse, vecchie, nuove, voci recitatanti. Le parole attraversano il corpo e prendono forma propro in bocca. Durante l'esplorazione in questo luogo unheimlich , inquietante, perché familiare e non-familiare allo stesso tempo, mi rendo conto che è un luogo di passaggio per la comunicazione, in cui transitano tutte le difficoltà, ma anche i piaceri. Per me è il teatro di una situazione linguistica e esistenziale: quella di una persona che deve gestire più lingue, che ha troppe parole in bocca. Come un'attrice che ha imparato le parole di più di un ruolo e non sa bene quale recitare, perché sul palcoscenico c'è sempre solo lei e quindi sbaglia o tace. Ma come si fa a scrivere poesie in una lingua straniera? Nella mia esperienza la scrittura è una scrittura d'ombra, si inserisce in un libro che mi ha attratto, che mi ha trasmesso un senso che non ho trovato altrove. Mi metto in una posizione dialogica con questo testo: inserisco parole, sposto il senso del testo preesistente, a volte solo leggermente, a volte in modo paradossale, ma in ogni caso il testo cambia, diventa mio. è un lavoro di assimilazione da una parte e di estraneamento dall'altra. Così si sviluppa la mia “Igiene della bocca”, dal luogo forse più sporco, contaminato - clinicamente - del corpo umano cerca di tirare fuori delle parole per raccontare dei mali linguistici della comunicazione, mali che non sono mai solo individuali. La bocca quindi appare come luogo di mali, ma anche come luogo di cura. Le foto nel libro che ho trovato fanno rabbrividire; ma per le parole tecniche che le accompagnano ho subito provato una strana attrazione: all'interno della lingua queste formano una lingua che non conoscevo ancora. In una lingua c'è sempre qualcosa che non si conosce, in una lingua straniera in misura maggiore: in questo caso sono i termini tecnici che condensano mali nascosti, perché dentro la bocca, la mia, ma anche altrui. Scrivere in una lingua straniera è anche questo: scoprire sensi e suoni e collegamenti sconosciuti che improvvisamente diventano propri. è un processo che nella lingua straniera è più ovvio e macroscopico che in una lingua madre. Il mio libro si articola in tre parti: La ‘prima igiene' (il libro è diviso in tre parti) è dove la 'paziente' esplora la bocca, sua, ma anche di chi chi le sta intorno; la voce descrive i processi che vi avvengono, raccontando le sue difficoltà. Nella seconda parte, 'igiene alfabetica', le composizioni prendono le mosse da alcune parole tecniche (amalgama, bruxismo, etc.), che fanno scattare delle associazioni; è più presente la figura del dentista, che cerca di analizzare le patologie e propone varie diagnosi che però non sono risolutive. Infine la terza parte, ‘igiene ultima', “il movimento della solitudine” (come ha scritto Anna Maria Carpi nella sua postfazione), è dove la paziente scopre che se non c'è cura, c'è comunque sempre la lingua.
Vi leggo alcuni esempi.
Dalla prima parte vi leggo la numero 15:
Io vivo con due bocche e parlo con tre lingue. Forse per questo le parole si spezzano come denti in frammenti: in polvere si posano sull'ortografia e la nascondono. E non c'è corona che tenga i tessuti orali.
La numero 17:
Nella mia bocca sono sempre in alto mare tra sangue e saliva mi barcameno tra una lingua e l'altra con qualche parola come appiglio su una zattera nella nebbia di quello che ci diciamo.
Il tessuto muscolare della lingua è il mio uragano: non so mai se sopravvivrò alla prossima frase.
Quando chiudo la bocca affogo nel rumore dei denti.
E quando tu mi sussurri ti sputo in faccia una zattera di legno, un suono con la stampella che zoppica.
La numero 19:
Per tanto tempo ho sviluppato i meccanismi difensivi della bocca: mastico a lungo ogni cosa per stimolare la salivazione. Ma invece di prevenire la carie ho fatto della mia bocca una pentola a pressione vicina allo scoppio. Escono cose effimere, i colori del gelato sciolto.
La numero 22:
Ho due bocche da una parlo dall'altra sanguino. Stamattina ho scelto il rossetto più rosso per coprire le tracce di sangue. Mi hai guardato e hai detto: stai bene.
Passo alla seconda parte, l'igiene alfabetica, con le proposte del dentista:
Denti falsi
Il giorno la lingua si muove lavora, produce. Tutto è come naturale.
E quando un dente si ammala quello falso sembra più bello.
Forse anche con le parole per noi due non ci sono problemi quando le traduciamo con i dizionari.
Ma la notte mi si confondono le lettere e non riconosco il suono della tua voce.
Dentiera
Com'è la vita senza denti, ho chiesto al mio dentista. Non ci sono problemi, mi ha risposto, o si mette una dentiera oppure si possono fare ottimi impianti.
La notte ho sognato il viso di mia nonna, le labbra risucchiate da dentro il sorriso capovolto di certi piccoli pesci di mare.
E ogni parola dalla sua bocca sdentata suonava come la voce sintetica di un operatore automatico.
Il tempo per rispondere: o troppo o troppo poco.
Gestazione
Le troppe parole mi danno colpi in bocca. Per favorirne lo sviluppo non mastico più e scrivo incessantemente quando altri fanno una telefonata.
Covo nella mia bocca un frutto strano spicchi maturi, spicchi marci, spicchi acerbi miscela di sapori stonati difficile da offrire agli altri.
Una gravidanza a rischio, mi ha detto il dentista, non si sente proprio a farmi partorire. Forse, per tirare fuori le parole si deve avere una mano come un guanto rovesciato.
Vi leggo l'ultima dell'ultima parte:
Nel buio cerco di prendevi, parole liquide nuotate evaporate e vi posate sull'orlo della mia bocca, amori sempre lontani figlie disobbedienti. Affiorate nascoste in caramelle colorate una ad una succhiate.
La lingua non distingue bene il vostro sapore vi gira e rigira fino alla nausea. E quando la mano non vi trova tornate ad essere quello che siete: corone in una bocca senza denti, protesi per tritare la vita. Grazie.
Anna Frabetti : Sono semplicemente delle associazioni che mi sono venute in mente ascoltando Eva Taylor. La prima cosa riguarda il rapporto tra l'italiano e il tedesco, c'è un autrice che si chiama Marisa Fenoglio che in questo libro “ Vivere altrove ”, titolo quanto mai adeguato a ciò di cui stiamo discutendo, dice la stessa specularmente. Lei, italiana, approda in Germania per ragioni che riguardano il marito e ha questo impatto estremamente difficile con la lingua tedesca, in parte in relazione ad una situazione di estraneamento che non vuole accettare e che finisce solo col tempo per accettare e un po' in relazione a questo passato storico pesante e quindi al suono. Ha questa difficoltà all'accettazione del suono tanto è vero che continua a scrivere in tedesca anche se dice che in Germania si è ambientata benisimo. Un altro autore che mi è venuto in mente ascoltando le sue poesie che non conoscevo è il libro, è stato detto la prima opera in prosa, di un poeta Valerio Magrelli “ Nel condominio di carne ” , che è un libro in cui si parla non necessariamente dei denti, ma soprattutto della vista, credo anche per ragioni autobiografiche, e che descrive in qualche modo come Eva la percezione attraverso la patologia del corpo, a partire proprio dalle prime sensazioni dell'infazia e poi attraverso il resto della vita.
Eva Taylor : Si, grazie, conosco questi due autori e trovo anche molto belli i testi che ha menzionato Anna Frabetti. Volevo aggiungere solo una cosa. La curiosità del mio libro “ L'igiene della bocca ” sta nel “dialogo”che si va creando con questo manuale che ho trovato dal dentista. Cioè, ho parlato di lingua d'ombra perché sento che l'italiano non è una lingua che ha per me la stessa complicazione che ha il tedesco e in qualche maniera sta sempre nell'ombra, ciò non vuol dire necessariamente che è meno potente perché sappiamo che le cose nascoste agiscono in una maniera sotteranea. Però il tipo di scrittura che è venuta fuori si sviluppa a partire da un dialogo con un libro già scritto, cioè è un po' questo che volevo dire con lingua ombra, la mia lingua cresce all'ombra di una lingua già esistente, all'ombra di una letteratura già esistente.Ora il libro trovato dal dentista non è un gran esempio di questa letteratura, è vero!
Julio Monteiro Martins : Mi ha colpito molto la questione di quanto le lingue siano impregnate di un simbolismo che non c'entra niente né con la persona che la sta usando, né con quello che è detto. Parlando del tedesco mi sono ricordato di quante migliaia di volte abbiamo risentito i discorsi di Hitler, di Goebbels in televisione, nei documentari. La lingua tedesca ci arriva oggi impregnata dall'isterismo linguistico di quei giorni. Anche la poesia classica tedesca arriva ormai allo straniero con questo “condimento”. Una cosa simile, ma inversa, succede anche con la mia lingua madre, il portoghese/brasiliano, che siccome arriva con le canzoni, la bossa nova, ha queste s soavi strascicate in fondo alle parole, le r aspirate che sembrano sospiri, amor , dor …e allora qualsiasi cosa si dica, anche il discorso più crudele o più disonesto sembra che sia un discorso d'amore! Sarebbe interessante da un punto di vista poetico fare uno studio approfondito su questa “anima linguistica” esterna dalla quale i discorsi, volendo o no, finiscono posseduti.
Brenda Porster : Volevo soltanto aggiungere che in questa ultima poesia che ho letto si sente anche la presenza di un'altra lingua ombra che non conosco bene, ma che fa parte di me, ed è lo yiddish ( per esempio ho tradotto alla lettera lo strutto di pollo che in yeddish è schmaltz ). In un contesto anglofono queste parole yiddish fanno parte del lessico comune, ma mi sono accorta con meraviglia che qui in Italia invece molti non le conoscevano e allora molte le ho tradotte. Questa è una lingua che riempie la bocca, queste parole in bocca che…questa bocca che…questo affogare nei suoni è una cosa che evidentemente gira qui tra noi!
Barbara Pumhösel : Devo dire che tutti gli interventi di questa mattina mi hanno colpito e ho cercato, senza volerlo, di creare in qualche modo un'immagine dove inserire tutto o come diceva Livia qualcosa di morbido una treccia che li collega. Andrea ha parlato di cammino, Brenda di piedi, anche la letteratura tedesca è ricca di storie di cammino, c'è la famosa passeggiata “ Der spaziergang ” di Walser, ma anche in italiano c'è un poeta (Giuseppe Conte) che parla del camminare come ispirazione, come meditazione in movimento dove si creano le storie. Ma si è parlato anche della bocca come passaggio, cammino di parole che dal dentro vanno fuori, e pensavo che il cammino è una cosa molto importante anche in poesia perché il passo in qualche modo determina il ritmo. Il passo determina il ritmo a seconda dell' emozione, dell'angoscia, dell'ansia, della felicità, diventa più veloce, più lento, più ritmico in qualche modo. Il passo poi determina il respiro e il respiro in qualche modo anche il battito del corpo, con il respiro ci si può collegare di nuovo alla bocca e anche al parto, dove il respiro cambia completamente, il cammino si deve fermare per far nascere un altro essere che cammina e che respira.
Julio Monteiro Martins : Io direi che su questa illuminante sintesi di Barbara ci congediamo qui, ringrazio tutti, è stato davvero bello.
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